Omelia del Patriarca nella solennità del patrono San Marco Evangelista (Basilica Patriarcale di San Marco - Venezia, 25 aprile 2017)
25-04-2017

Solennità del patrono San Marco Evangelista (25 aprile 2017)

Basilica Patriarcale di San Marco – Venezia

Omelia del Patriarca Francesco Moraglia

 

Stimate autorità, carissimi fratelli e sorelle,

il nostro patrono, l’evangelista Marco, è figura di spicco della Chiesa primitiva. In essa riveste un ruolo importante ed ha un legame significativo con gli apostoli Pietro e Paolo; col primo ha un rapporto privilegiato – funge addirittura da segretario -, col secondo il legame è inizialmente conflittuale, poi diventa di vicinanza, di sostegno e aiuto.

Marco si rapporta ad altri significativi personaggi della Chiesa delle origini; è, per esempio, cugino di Barnaba che fu l’intelligente e attento mediatore, nella comunità primitiva, fra il gruppo proveniente dal giudaismo e quello dal paganesimo. Barnaba è anche colui che presenta l’ex persecutore Saulo, non appena convertito, ai Dodici.

Marco è indicato dal libro degli Atti degli Apostoli come Giovanni Marco (cfr. At 12,12.25;15,37); egli è legato alla comunità greca e vantava numerose conoscenze in tale ambiente. La sua famiglia era nota in Gerusalemme, apparteneva alla classe benestante e avrebbe messo la propria casa a disposizione dei primi discepoli. Anche questo risulta dagli Atti degli Apostoli quando si narra la liberazione dal carcere dell’apostolo Pietro: “Dopo aver riflettuto, [Pietro] si recò alla casa di Maria, madre di Giovanni, detto Marco, dove molti erano riuniti e pregavano” (At 12,12).  È anche possibile che tale casa sia stata frequentata dallo stesso Gesù, dagli Apostoli e, in essa, si sia addirittura svolta l’ultima Cena.

Marco è – secondo antiche testimonianze – autore dell’omonimo Evangelo, il primo, scritto per affermare l’identità di Gesù, il suo essere Messia, Figlio di Dio, ossia il Signore crocifisso e risorto. Gli Atti degli Apostoli ci informano ancora che Marco accompagna, nel loro apostolato, Paolo e Barnaba (cfr. At 12,25); durante il primo viaggio (cfr. At 13,5) – giunto a Perge, nella regione della Panfilia – interrompe, però, la missione per ritornare a Gerusalemme e la causa fu un contrasto insorto durante il viaggio (cfr. At 13,13).

Il motivo del contendere lasciò un segno profondo perché, quando Paolo e Barnaba preparano il secondo viaggio missionario, non riescono a trovare l’intesa proprio sulla partecipazione di Marco e decidono di separarsi. Leggiamo, infatti, nel libro degli Atti: ”Il dissenso fu tale che si separarono l’uno dall’altro. Barnaba, prendendo con sé Marco, s’imbarcò per Cipro. Paolo invece scelse Sila e partì, affidato dai fratelli alla grazia del Signore” (At 15, 39-40).

Ancora troviamo Marco a Roma, a servizio dell’apostolo Pietro, di cui appare stretto collaboratore, ma sarà anche vicino a Paolo nei momenti amari della prigionia. La prima lettera di Pietro termina dandoci proprio la notizia della vicinanza di Marco a Pietro: ”Vi saluta la comunità che vive in Babilonia e anche Marco, figlio mio. Salutatevi l’un l’altro con un bacio d’amore fraterno. Pace a voi tutti che siete in Cristo! ” (1Pt 5, 13-14). Il canto iniziale – Pax tibi Marce evangelista meus! – richiama proprio questo testo appena proclamato.

In un documento degno di nota per la sua antichità – la Lettera di Papia, vescovo di Ierapoli, dell’inizio del II secolo – ci è data una notizia importante, vale a dire che Marco scrisse il suo Vangelo su sollecitazione dell’apostolo Pietro. Il protoevangelista scrive perché il primo tra gli Apostoli, colui che deve confermare i fratelli nella fede, gli chiede di scrivere il racconto di quegli inizi a cui la Chiesa, sempre, dovrà rimanere fedele.

Infine, come già detto, troviamo Marco menzionato nel commiato della lettera ai Colossesi (cfr. Col 4,10). È bello sapere, per i discepoli del Signore – e intendo sottolineare questo punto -, che dopo la traumatica separazione e i successivi dissapori, Marco è di nuovo al fianco di Paolo in un momento molto delicato nella vita dell’apostolo, quando è prigioniero, stanco e provato, che attende solo di “sciogliere le vele” e di ricevere il premio di chi ha annunciato il Vangelo. Qui Marco svolge un fraterno compito di sostegno (cfr. 2 Tim 4,11).

La sua presenza, dopo la separazione di Perge, dice che i due si riconciliarono e di ciò non possiamo che rallegrarci perché ci è detto che, anche in caso di divergenze gravi, non si può cedere a malanimo e rancore, lasciandosi vincere da ostilità, inimicizia e animosità. La vicenda di Marco ci ricorda quindi come anche oggi nella Chiesa – se non è in gioco la Verità – le questioni umane, i differenti modi di valutare le scelte pastorali o le differenze finalizzate a un migliore servizio del Vangelo non debbano intaccare la carità delle relazioni personali.

L’episodio che ha per protagonisti Paolo e Marco costituisce un esempio paradigmatico nella vita degli uomini di Chiesa. Nella lettera ai Colossesi leggiamo: ”…rivestitevi dunque di sentimenti di tenerezza, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di magnanimità, sopportandovi a vicenda e perdonandovi gli uni gli altri, se qualcuno avesse di che lamentarsi nei riguardi di un altro. Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi. Ma sopra tutte queste cose rivestitevi della carità, che le unisce in modo perfetto. E la pace di Cristo regni nei vostri cuori, perché ad essa siete stati chiamati in un solo corpo. E rendete grazie!” (Col 3,12-15). Questa ultima affermazione risponde a ciò che Gesù ha chiesto, la sera/vigilia della sua passione, durante l’ultima Cena; dopo la lavanda dei piedi, mentre sta per donare se stesso nel sacramento dell’Eucaristia, Gesù consegna ai discepoli il comandamento nuovo, il suo comandamento.

Per il discepolo che ha realmente consegnato il suo cuore a Dio – e, quindi, ai fratelli – è il comandamento più semplice; altrimenti diventa (è) il più arduo, dove sempre si infrangerà, come su uno scoglio, la vita spirituale del discepolo; sul solo piano umano è impossibile adempierlo, impossibile fino a quando si rimane prigionieri del proprio “io” o “uomo vecchio”, attaccato alle cose. Non a caso Gesù lo definisce il comandamento nuovo, anzi è il suo comandamento.

La richiesta dell’amore reciproco – ossia del perdono, della pazienza, dell’accettazione, del dono di sé e questo vale per gli amici, in famiglia, fra le generazioni, nella Chiesa, tra i popoli e le diverse etnie e culture -, stando alla Parola di Gesù, costituisce l’inizio di ogni evangelizzazione poiché tale amore diventa – agli occhi del mondo – il segno certo dell’appartenenza dei discepoli al Signore (cfr. Gv 13, 24-35).

Se torniamo alla lettera ai Colossesi capiamo che tutto è possibile se ogni cosa avviene nel nome di Gesù, come un atto di culto, attraverso l’ascolto credente che fa sua la parola di Dio nella forma più reale, attraverso la persona di Gesù: La parola di Cristo abiti tra voi nella sua ricchezza. Con ogni sapienza istruitevi e ammonitevi a vicenda con salmi, inni e canti ispirati, con gratitudine, cantando a Dio nei vostri cuori. E qualunque cosa facciate, in parole e in opere, tutto avvenga nel nome del Signore Gesù, rendendo grazie per mezzo di lui a Dio Padre” (Col 3, 16-17).

Le diversità, le differenti scelte pratiche e operative non possono dividere i discepoli del Signore; l’episodio narrato dagli Atti (e che vede protagonisti Paolo, Barnaba e Marco) ci aiuti a considerare come tutto nella Chiesa – se non ci sono, appunto, in gioco scandali nei comportamenti, di ogni tipo e soprattutto nelle persone di Chiesa, o dimenticanze della verità – tutto deve essere vagliato con semplicità, misericordia, sincerità, verità e, alla fine, con volontà di perdono. Tutto, nella Chiesa, si regge a partire dal principio di comunione, nella Verità che è Cristo, in cui è la stessa Chiesa a indicare Gesù come fonte e origine della vera fede; Lui è Colui a partire dal quale le differenti vocazioni ecclesiali – che chiedono d’esser vissute fedelmente – hanno origine e danno la loro reciproca testimonianza.

Mentre festeggiamo – qui a Venezia – il nostro patrono ed evangelista non possiamo dimenticare quello che accade attorno a noi; rivolgiamo perciò un pensiero di amicizia, fraternità e vicinanza alle comunità cristiane dell’Egitto – che attendono ora la visita del Santo Padre – così duramente funestate da eventi di violenza, terrore e morte, avvenuti in particolare durante la Domenica delle Palme.

Non dimentichiamo che, su richiesta del Papa Cirillo VI della Chiesa Copta Ortodossa, nel giugno 1968, in occasione delle celebrazioni per i millenovecento anni dal martirio di san Marco, Papa Paolo VI autorizzò la restituzione di una reliquia (un frammento d’osso) del Santo Evangelista ad Alessandria; questo rende i legami tra le nostre Chiese ancora più stretti. E l’onore che abbiamo noi veneziani di conservare, nella sua sostanziale interezza, la preziosa reliquia del corpo di san Marco deve quindi farci sentire maggiormente consapevoli della fratellanza cristiana e renderci solidali con chi è stato colpito così duramente.

Venezia e le terre venete, oggi, sono più che mai legate al loro patrono Marco, il cui simbolo è il leone alato che artiglia un libro con la scritta: “Pax tibi Marce evangelista meus”. Tale stemma è diventato lungo i secoli la personificazione della Serenissima – oggi della Chiesa e della città di Venezia – e fu posto in ogni angolo, nei suoi sestieri, fondamenta, campi, campielli e riprodotto ovunque la Serenissima si rese presente, sia in Oriente sia in Occidente. Il leone col Vangelo, che richiama la pace: questa è la grande vocazione di Venezia, oggi, soprattutto in questo periodo in cui l’allerta per la sicurezza è alta e siamo grati per questo alle nostre autorità e forze dell’ordine. Ma noi vogliamo essere sempre uomini e donne di pace, al di là delle dovute forme di sicurezza.

Per intercessione dell’evangelista Marco chiediamo – in questo tempo in cui, per il fenomeno delle migrazioni, Oriente e Occidente s’incontrano anche all’interno delle mura cittadine – che le differenti etnie e culture che vivono nella nostra città e nel nostro territorio sappiano incontrarsi, considerando che “tolleranza” e “amore per la verità”, “pluralismo” e “passione per i valori”, per le sane tradizioni, sono tutt’altro che in contrasto fra loro. Siamo chiamati a costruire il bene della città nel rispetto del territorio, della sua cultura, della sua storia e, certamente, della legalità, del bene comune e, quindi, di una vera cordiale convivenza.

Da una parte vi sono i fatti della storia e della recente cronaca – il ricordo vivo dello scampato attentato a Rialto -, dall’altra l’impegno di tutti – anche a partire dai bambini, che vanno educati a questo – a favore della responsabilità e del bene comune che ha bisogno non di paura ma di sicurezza e legalità, per non cedere alle differenti derive. Tutto oggi si presenta con un volto sempre più “plurale”. Il nostro oggi, il nostro mondo, ha bisogno di riscoprire quella sana laicità che dia a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio. Incominciando col riconoscere Dio come tale, senza  appropriarsene per propri fini (cfr. Mt 22,21). Ma riconoscere Dio vuol dire rispettarlo incominciando da chi ne è l’immagine, ossia l’uomo.

Dio è, infatti, il Dio della vita ed è una vera e propria bestemmia pensare di uccidere nel suo nome. San Ireneo ci ricorda sempre che “la gloria di Dio è l’uomo vivente”. Questo è il messaggio ultimo del Vangelo cristiano, che inizia proprio dal Protovangelo di Marco. E ciò va ribadito anche alla luce degli ultimi drammatici avvenimenti.

Pax tibi Marce evangelista meus! A tutti auguro una solennità del santo patrono in cui ci si possa “ritrovare”, come donne e uomini contenti del tempo che si è chiamati a vivere.