Omelia del Patriarca nella S. Messa per le ordinazioni presbiterali di quattro diaconi dell’Ordine dei Frati Minori Cappuccini (Venezia / Basilica del Santissimo Redentore, 19 settembre 2020)
19-09-2020

S. Messa per le ordinazioni presbiterali di quattro diaconi dell’Ordine dei Frati Minori Cappuccini

(Venezia / Basilica del Santissimo Redentore, 19 settembre 2020)

Omelia del Patriarca Francesco Moraglia

     

 

Carissimi Claudio, Francesco, Giacomo, Ivan, pace e bene!

Con vera gioia celebriamo oggi, in questa Basilica del Santissimo Redentore (così legata all’ordine dei Frati Minori Cappuccini), la liturgia della vostra ordinazione presbiterale che bene si intreccia col cammino di vita consacrata che, con la grazia del Signore e l’intercessione di Santa Maria degli Angeli, state portando avanti come religiosi del terzo ramo del tronco francescano.

Dio, il Padre del Signore nostro Gesù Cristo, vi conosce sin dal principio, perché vi ha creati e vi ama, prima ancora che foste formati nel grembo materno ed usciste alla luce (cfr. la prima lettura di oggi: Ger 1,4-5); è Lui che vi ha chiamati a questo passo di consacrazione al quale voi – pur consapevoli delle fragilità umane, come Geremia che obiettava (“…io non so parlare, sono giovane…” – Ger 1,6) – state ora per esprimere il vostro “sì” pieno, consapevole e gioioso.

Anche a ciascuno di voi, carissimi, il Signore ripete oggi le parole che ha rivolto a Geremia, il profeta che più assomiglia e ci rimanda a Gesù: “Non aver paura… perché io sono con te per proteggerti” (Ger 1,8). Con voi e per voi, insieme ai vostri cari familiari ed amici e a tutta la fraternità francescana, come abbiamo anche già fatto con il canto iniziale, invochiamo il suo Santo Spirito perché vi ricolmi dell’abbondanza dei suoi doni.

“Il Signore stese la mano e mi toccò la bocca…” (Ger 1,9): ecco qui tutta la forza e la natura del sacramento che ora ricevete. Si tratta dell’intervento di Dio nella vostra vita che vi abilita a pronunciare le parole e a compiere i gesti di Gesù Capo, Sposo della Chiesa. Il sacramento dell’ordine vi abilita ad agire in nome di Gesù Cristo Capo della Chiesa; è, infatti, la grazia che vi costituisce sacerdoti del Signore e non le doti o “conoscenze” teologiche e pastorali che vi accompagneranno e contraddistingueranno ma non vi costituiscono preti.

Voi, inoltre, siete oggi la viva testimonianza che la Divina Provvidenza chiama e continua a chiamare attraverso il mistero della vocazione di ogni uomo e di ogni donna; sì, perché Dio si rivolge ad ogni essere umano.

La vostra ordinazione ci dice che Gesù continua ad amare la nostra Chiesa. E la Chiesa siamo noi, a cui viene chiesto – come ai due discepoli di Emmaus – di uscire dalle nostre sicurezze umane. Essere popolo di Dio significa rispondere alla comune vocazione battesimale, all’interno delle specifiche vocazioni: sposi, consacrati, diaconi, presbiteri, vescovo.

E poi abbiamo bisogno gli uni degli altri, perché l’altro arricchisce la mia vocazione con la sua vocazione e così, insieme, ci si apre alla vera cattolicità che vuol dire apertura al Tutto che è Gesù Cristo; solo Lui ci dona quello che noi non abbiamo.

Si tratta, allora, di rispondere a Dio ma, prima di tutto, è necessario essere in grado di ascoltare la Sua voce e, quindi, di osservare la sua Parola: “Erano tuoi e li hai dati a me ed essi hanno osservato la tua parola… Consacrali nella verità. La tua parola è verità. Come tu mi hai mandato nel mondo, anch’io li ho mandati nel mondo; per loro io consacro me stesso, perché siano anch’essi consacrati nella verità”. Sono le parole di Gesù nel Vangelo che è stato appena proclamato (Gv 17, 6.17-19).

Quando i protagonisti della storia della salvezza rimangono fedeli all’Alleanza – al Dio giusto e fedele, che è giusto perché rende giustizia salvando -, aprendosi al progetto di Dio, non vengono meno. Ma se perseguono il loro progetto (è una costante nella storia del popolo d’Israele e nostra), allora tutto crolla e si viene meno.

La fedeltà all’Alleanza, il non aver altro Dio al di fuori del Dio d’Israele, non significa solo non adorare altri dei – potrebbe, per noi, essere facile… – ma significa non rivolgersi ad allettanti e comode protezioni umane, iniziando dal nostro cuore “mondanizzato” affinché non cada in sudditanze di alcun tipo.

Cogliamo, allora, la voce di Dio nella nostra vita. E sapremo rimanere fedeli se non ricercheremo noi stessi, se non imporremo il nostro io ma ricercheremo la sapienza di Dio, il Suo progetto, e ci chiederemo che parte abbiamo in esso; “… senza di me non potete far nulla” (Gv 15,5), ci ricorda continuamente Gesù.

In tal modo, la vocazione vissuta come adesione al progetto di Dio richiede un cuore libero e il senso evangelico della povertà – non il pauperismo – considerata non soltanto come distacco dalle persone, dalle situazioni e dalle cose ma da se stessi.

La vera e prima povertà, quindi, è il distacco da se stessi. Sta qui il senso e il fondamento dell’obbedienza che, se non ha qui il suo radicamento, si potrebbe rivelare un’obbedienza formale e non evangelica.

All’origine della chiamata al sacerdozio ministeriale – lo sappiamo – c’è Dio, il Padre, la Sua infinita misericordia. E non si è chiamati ad eseguire ordini o a svolgere un ufficio ma piuttosto, attraverso l’esercizio del ministero (gli atti che gli sono propri), ad entrare in quel sacerdozio “eterno” – di cui ci parla il salmo responsoriale (109) – che rende presente Gesù, eterno Figlio del Padre e sommo Sacerdote, facendoci capaci di ripetere le parole e i gesti di Cristo. Ogni sacerdote è chiamato ad agere in persona Christi capitis (in persona di Cristo capo) e, così, a servire Dio e i fratelli.

Desidero collegare tale realtà al valore profondo della riforma che portò alla nascita dell’Ordine dei Frati Minori Cappuccini, nell’epoca in cui il Signore volle che la sua Chiesa voltasse pagina per ritornare al Vangelo “sine glossa”, espellendo ogni forma di mondanizzazione e decadenza dalla vita cristiana e, in specie, dalla vita religiosa.

L’ispirazione originaria, che portò alla nascita del terzo ramo del tronco francescano, nacque dal desiderio di una adesione più radicale al carisma di Francesco ritornando alle sorgenti della vita cristiana: la Sacra Scrittura e i Padri della Chiesa. E per chi è chiamato lungo questa strada, allora, la cosa più grande da fare oggi è convertirsi a una vita religiosa autentica e radicale.

La nostra conversione personale è il primo bene che facciamo alla Chiesa, a noi stessi, al mondo. E la conversione di cui abbiamo bisogno non va intesa come qualcosa che riguarda solo la vita morale ma anche quella intellettuale, spirituale e, poi, pastorale.

Guardiamo al concreto della nostra e della vostra vita: una vita fatta di povertà, di verginità (un amore più grande per il Signore), di obbedienza (essere più simili a Lui e obbedienti al Padre). Tutte queste sono espressioni vere e concrete di un cuore libero.

L’abito, la vita comune, i voti… in fondo di che cosa sono segno? Sono il segno di un’appartenenza. E la consacrazione è, semplicemente, l’appartenenza a lui. Sono segni di un sì, il segno di un amore dolce e tenace. L’appartenere a Lui, il sì detto a Lui, l’amore più grande per Lui – detti nella Chiesa e a partire dalla Chiesa – rivestono un significato particolare di cui vedremo la piena grandezza solamente in Paradiso.

Prima ancora di fare qualcosa, già il vivere bene l’atto della propria consacrazione diventa un annuncio efficace del regno di Dio. Per tutto questo è importante convertirsi, esaminarsi e discernere frequentemente. Ma sempre con l’intento di riscoprire e ravvivare il senso della consacrazione a Gesù, la grandezza di questo atto.

Le vostre Costituzioni già indicano il percorso da compiere (n. 5.3): “A questo scopo sforziamoci di dare la priorità alla vita di preghiera, specialmente contemplativa. Vivendo come pellegrini e forestieri in questo mondo, pratichiamo una radicale povertà, sia personale che comunitaria, animata dallo spirito di minorità, e offriamo l’esempio di una vita austera e di una lieta penitenza nell’amore della Croce del Signore”.

Insieme alla preghiera, insomma, bisogna continuamente crescere nella virtù della povertà che libera da ogni possedimento e ci riconsegna a Dio attraverso un “sì” detto in piena libertà; un “sì” che esprime un amore grande e libero. Libero nell’uso misurato, saggio e sereno delle cose necessarie, pur avendo presente la fragilità umana.

E ancora (n. 5.4): “Radunati in Cristo come una sola peculiare famiglia, sviluppiamo tra di noi rapporti di fraterna spontaneità; viviamo volentieri tra i poveri, i deboli e i malati, condividendo la loro vita, e conserviamo la nostra particolare vicinanza al popolo”.

La carità e la misericordia cristiana incontrano le ferite degli uomini unendole a quelle di Gesù; sono la carità e la misericordia stesse di Gesù che ci vengono incontro, nel nostro oggi, lungo le strade delle nostre città, dei nostri paesi e delle nostre comunità.

Solo Lui, però, è il Signore e il Salvatore; solo la Sua Parola e la Sua presenza sono in grado di sanare fino in fondo le ferite delle anime. E la misericordia cristiana porta a compimento la solidarietà umana, andando oltre il benessere dei corpi per offrire la salvezza dell’uomo.

Per questo siamo chiamati – nella nostra specifica vocazione – a vivere ed annunciare le opere di misericordia corporali e spirituali, senza escluderne alcuna. Tali opere si sostengono a vicenda e garantiscono verità e concretezza.

A somiglianza e in conformità con Gesù, siamo invitati a percorrere le strade degli uomini e delle donne del nostro tempo che sono le strade delle anime, dei cuori, delle menti, dei corpi piagati e sofferenti che si incontrano spesso nei nostri territori. Ma per fare questo ciascuno di noi deve aver percorso con discernimento e consapevolezza – sotto la mano del Dio che è Misericordia – le strade della propria umanità e, attraverso di essa, riuscire a testimoniare la propria fede, carità e speranza.

Carissimi Claudio, Francesco, Giacomo, Ivan, attraverso l’ordine sacro nel grado del presbiterato sarete nelle vostre persone segno della presenza di Gesù “sposo” e “capo” della Chiesa. Non sarete più solo segno di voi stessi ma di una Presenza che dovrete rivelare e non velare, donare e non trattenere; è questo il senso del ministero ordinato. Non nascondete mai il vostro esser preti; l’uomo non è fatto di sola interiorità ma anche di visibilità. E il prete dev’essere pronto a dar testimonianza, con umiltà e coraggio.

Una visibilità non celata o nascosta è la prima forma di testimonianza che vi è richiesta. Ma tale visibilità non è un privilegio; è un servizio da rendere in ogni frangente, ovunque, anche dove non siamo conosciuti. È un modo d’esser Chiesa “in uscita” a servizio di tutti gli uomini, soprattutto di quelli più feriti nell’anima e nel corpo, 24 ore su 24, anche fuori dall’abituale orario di ministero.

La testimonianza non sempre risulta agevole e anzi, talvolta, è ardua e scomoda, soprattutto in certi contesti; il passare inosservati ci ripara e, alla fine, è comodo, privi di ogni segno distintivo sacerdotale o religioso. Ma anche qui si tratta d’espropriarsi del proprio uomo vecchio, azzerare il proprio io e rispondere a una chiamata di libertà; un “sì” detto da parte di chi non si appartiene più.

Essere riconoscibili come segni di Gesù richiede – come ricorda Papa Francesco – un concreto amore alla povertà e ai poveri che si manifesta nel distacco da sé, nella sobrietà dello stile, della parola, del vestire semplice e distinguibile per poter esser sempre pronti al servizio.

Possa così perpetuarsi anche in voi (novelli sacerdoti e frati cappuccini), tra la gente a cui sarete inviati, quella bella immagine che il Santo Padre Francesco aveva usato qualche tempo fa: “Prima di tutto i Cappuccini sono i frati del popolo: è una caratteristica vostra. La vicinanza alla gente. Essere vicini al popolo di Dio, vicini. E la vicinanza ci dà quella scienza della concretezza, quella saggezza che è più che scienza: è una saggezza. Vicinanza a tutti, ma soprattutto ai più piccoli, ai più scartati, ai più disperati. E anche a quelli che si sono più allontanati” (Papa Francesco, Discorso durante l’udienza ai partecipanti al Capitolo generale dell’Ordine dei Frati Minori Cappuccini, 14 settembre 2018).

Carissimi, durante l’ordinazione presbiterale – a fine giugno scorso -di due giovani del nostro Seminario Patriarcale, ricordavo che vivere la novità del Vangelo significa, innanzitutto, raccogliere l’invito alla conversione, che non è mai qualcosa di automatico ma cresce, si arricchisce e approfondisce con la vita, le sue prove, le sue sfide e gioie.

E, come dicevo a loro, oggi a maggior ragione mi rivolgo a voi Claudio, Francesco, Giacomo, Ivan – che tra poco sarete, insieme, neo sacerdoti e religiosi dell’Ordine dei Frati Minori Cappuccini – con l’invito e l’augurio di iniziare il vostro viaggio nel ministero presbiterale riponendo sin d’ora con amore, nel bagaglio della vostra esistenza, sia la “stola” per la celebrazione che il “grembiule” per la lavanda dei piedi. Usando tutte e due queste cose ogni giorno, saprete vivere in pienezza il grande dono che oggi ricevete.

Pace e bene a tutti!