Omelia del Patriarca nella S. Messa per il personale dell’Ulss 3 Serenissima (Venezia / Basilica Ss. Giovanni e Paolo, 21 dicembre 2021)
21-12-2021

S. Messa per il personale dell’Ulss 3 Serenissima

(Venezia / Basilica Ss. Giovanni e Paolo, 21 dicembre 2021)

Omelia del Patriarca Francesco Moraglia

 

 

Carissimi,

innanzitutto ringrazio l’Ulss 3 Serenissima, il direttore generale Edgardo Contato e il cappellano dell’ospedale civile don Gianpiero Giromella per aver voluto e organizzato questo incontro a pochi giorni dal Natale, nel contesto di questa celebrazione eucaristica che – come sapete – è l’atto culminante della vita della Chiesa in quanto è la forma più alta con cui rendiamo grazie, lode e adorazione a Dio Padre, per il Figlio, nello Spirito Santo.

A questa celebrazione vogliamo unire il grazie e la stima per tutti voi che, nelle differenti professionalità, oggi siete presenti: il personale sanitario (i medici, gli infermieri, tutti gli altri operatori socio-sanitari) e quello amministrativo (dai dirigenti ai vari collaboratori).

In tanti momenti in questi ultimi due anni segnati dalla pandemia (con tutto quello che ha comportato, in termini di difficoltà ed emergenze, in modo specifico per le strutture e istituzioni sanitarie) abbiamo potuto apprezzare la dedizione e l’impegno appassionato di tantissimi di voi, oltre alla necessaria e richiesta professionalità. Per questo è doveroso rinnovare, in ogni occasione pubblica ed anche oggi, un sentimento – largamente diffuso – di gratitudine e riconoscenza.

Lasciamoci guidare dalle letture che sono state proclamate e che senz’altro dicono qualcosa a ciascuno di noi, oggi. La prima lettura, tratta dal profeta Sofonia, racchiude un invito alla gioia ed è, quasi, uno stimolo a gettare via ogni tristezza e scoramento non per una banale, semplicistica e consolatoria “botta” di ottimismo o perché pensiamo di essere onnipotenti (tutt’altro!) ma perché il Signore è vicino, è presente in mezzo a noi ed è Lui l’unico Salvatore che non ci lascia mai soli. Soprattutto quando umanamente avvertiamo l’impotenza, allora, è proprio lì che sperimentiamo la Sua forza: “Non temere… non lasciarti cadere le braccia! Il Signore, tuo Dio, in mezzo a te è un salvatore potente. Gioirà per te, ti rinnoverà con il suo amore, esulterà per te con grida di gioia” (Sof 3,16-17).

Mi soffermo ora con voi su un’immagine che ci offre il primo capitolo del Vangelo di Luca. Maria ha appena ricevuto l’annuncio dell’angelo – diverrà madre di Gesù, il Figlio di Dio, il Salvatore – e non rimane concentrata o, meglio, ripiegata su se stessa dinanzi alla sconvolgente novità che ha cambiato totalmente la sua vita; piuttosto, “si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda” (Lc 1,39), dalla cugina Elisabetta, anziana e sterile ma, per grazia di Dio, anch’essa in attesa di un figlio, Giovanni Battista.

Il saluto tra le due donne e la “fretta” di Maria nel muoversi – che, oltre al prioritario senso teologico (non s’indugia dinanzi alla chiamata di Dio), racconta anche della premura (frutto della carità) e dell’attenzione per Elisabetta – sono un inno all’incontro autentico tra le persone.

E il vostro lavoro è, quotidianamente, un “andare verso” con sollecitudine e senza perdere tempo (perché il tempo in ambito sanitario è, talvolta, elemento decisivo): verso i bisogni e le necessità delle persone, verso le loro debolezze, fragilità e patologie. È un incontrarsi e un curare la relazione con le persone che vi trovate dinanzi e che non sono associabili a numeri o ad una cartella clinica ma sono, appunto, persone nella loro unicità ed irripetibilità ed hanno bisogno di una risposta gentile, di un accompagnamento, non solo di una terapia – pur necessaria – ma di una “cura” nel senso più ampio e complessivo del termine.

Sollecitudine (questo è il senso della “fretta” di Maria), premura, attenzione, vicinanza, desiderio di un vero incontro e di combattere ogni forma di solitudine o disperazione: sono questi i cardini della relazione che il Vangelo e Maria ci riconsegnano e che oggi valgono più che mai per la parte delle cure che voi prestate ogni giorno.

E questo perché – come già abbiamo già detto in altre occasioni – la salute è un tutt’uno, è una realtà “integrale” che tocca tutta la vita dell’uomo. Su tale questione (la sofferenza fisica e dell’anima) la pandemia ci ha insegnato qualcosa e in modo chiaro!

Vi è la salute fisica, che abbiamo il diritto e dovere di curare sempre e guarire ogni volta che è possibile, con anche la doverosa opera di profilassi (prevenzione/protezione) secondo ciò che l’arte della medicina (e arte è qualcosa di più di scienza) via via indica.

Ma la salute fisica si riflette sulla psiche e anche sull’anima (e viceversa) perché l’uomo è una totalità – non separabile – dotata d’intelligenza, volontà, sentimento, memoria ed anche grazia e, quindi, preghiera, fede, apertura verso Dio.

Anche la liturgia di questa Messa fa risuonare, a sua volta, tale pensiero quando – nella preghiera dopo la comunione – ci fa chiedere a Dio “in abbondanza la salvezza dell’anima e del corpo”.

Così l’uomo è chiamato a prendersi cura dell’uomo, dell’intero microcosmo che lo costituisce non escludendo nulla. E il desiderio, la volontà e la capacità di relazione – ossia di umanità – fanno parte di tale impegno che riguarda tutti e voi per primi, voi che per la salute e il benessere “integrale” delle persone e delle comunità siete riferimenti imprescindibili.

Come persone, siamo sempre esseri “in relazione” e perciò connessi e interdipendenti gli uni gli altri e proprio questo elemento sottolinea, ancora una volta, la forza della libertà e della responsabilità che abbiamo nei confronti di noi stessi e della società di cui facciamo parte.

Fin d’ora rivolgo a ciascuno di Voi, alle Vostre famiglie e alle persone che vi sono care l’augurio di dare ascolto e fare spazio al Natale di Gesù, che viene per la nostra salvezza integrale, senza timore di nominare queste parole (Natale e Gesù).

E che sia veramente un buon Natale per tutti!