Omelia del Patriarca nella S. Messa “in Coena Domini” (Venezia / Basilica Cattedrale di San Marco, 9 aprile 2020)
09-04-2020

S. Messa “in Coena Domini”

(Venezia / Basilica Cattedrale di San Marco, 9 aprile 2020)

Omelia del Patriarca Francesco Moraglia

 

 

Cari fratelli e sorelle,

iniziamo il Santo Triduo di questa Pasqua, che più volte abbiamo definito “anomala”, portando all’altare tutte le sofferenze causate dalla pandemia da Covid-19.

Il Triduo che oggi iniziamo, con questa celebrazione “nella Cena del Signore”, ci pone di fronte alla carità di Cristo che è contenuta e affidata tutta nel segno del pane spezzato e del vino effuso.

Il cristiano e la Chiesa sono contenuti, significati e realizzati in questo semplice gesto e in queste parole. L’Eucaristia è tutto: è Cristo presente nell’atto di morire e risorgere e, quindi, di generare la Chiesa.

L’Eucaristia, però, non è soltanto il memoriale di Cristo, ossia la presenza viva di Lui, ma è anche – insieme a questo – la presenza di tutti coloro che con Lui si danno e si offrono per la salvezza dei fratelli.

Desidero qui ricordare, con rispetto e con gratitudine, gli oltre 100 medici che hanno sacrificato la vita per curare i contagiati da Covid-19. L’ultimo di questi medici in ordine di tempo, una donna, è la dottoressa Samar Sinjab che è morta oggi ed era di Mira, quindi nella nostra Diocesi; aveva solo 62 anni ed era madre di due giovani anch’essi medici.

Sono poi grato anche a quei giovani sacerdoti che – personalmente e in modo riservato, come ho scritto nella lettera inviata ieri alla Diocesi – si sono resi disponibili, se necessario, ad accudire i malati. Lo hanno fatto in silenzio, senza che la mano destra sapesse che cosa faceva la sinistra.

Voglio, però, ritornare ai medici e al personale infermieristico. Alcuni dei nostri medici morti erano pensionati o erano rimasti in attività dopo aver raggiunto l’età della pensione o, ancora, avevano risposto ad una nuova chiamata dopo essere andati in pensione.; ci sono, davvero, degli uomini e delle donne che ci fanno ben sperare contro ogni disperazione.

L’età qui non c’entra. Penso, infatti, a questi medici anziani e già in pensione ma anche a quei ragazzi che, nei mesi scorsi, abbiamo chiamato “gli angeli dell’acqua alta”. Possiamo davvero ben sperare con questi anziani e con questi giovani.

Agli uni – i medici – e agli altri – i giovani – dico non solo grazie ma anche: abbiamo bisogno di voi!. Sì, abbiamo bisogno di persone che ci dicono che il bene è più forte del male e che la carità cristiana e la solidarietà sono più forti dell’egoismo che ricerca solo se stesso, la visibilità o l’affermazione sugli altri.

Ma torniamo all’Eucaristia; per il cristiano e per la Chiesa è il luogo costitutivo, la casa in cui si deve tornare ad abitare. Ecco perché, care amiche e cari amici, la celebrazione della domenica – giorno del Signore – va riscoperta e l’Eucaristia va posta al centro perché è il momento più alto.

L’Eucaristia per il discepolo del Signore non è un di più; no, l’Eucarestia – incominciamo a dirlo ai nostri bambini che si preparano all’iniziazione cristiana – non è un di più! È qualcosa che si inscrive in noi e inscrive in noi il gesto di Cristo nel cenacolo che abbiamo sentito rievocare dal Vangelo secondo Giovanni: Gesù si alza da tavola, si lega ai fianchi un asciugamano e inizia a lavare i piedi ai discepoli chiedendo loro di ripetere quel gesto a loro volta.

Tra i presenti – lo abbiamo ascoltato – c’è, nella compagnia di Gesù, anche Giuda. Ma il bene è più forte del male e Gesù lava i piedi a tutti i suoi discepoli. E l’Eucarestia è questo gesto che inscrive in noi il gesto di Cristo.

Caino – che aveva ucciso Abele e a Dio che gli chiedeva “Dov’è Abele, tuo fratello?” (Gen 4,8) – rispose: “Sono forse io il custode di mio fratello?” (Gen 4,9). Nel cenacolo – a Gesù che diceva: “Uno di voi mi tradirà” – c’è, invece, Giuda che domanda: “… sono forse io?” (Mt 26, 20-25).

Sempre questo “io” che si difende e che aggredisce! Ebbene, a questo “io” Gesù risponde con il “noi” della lavanda dei piedi. Gesù risponde chiedendo ai suoi apostoli di fare l’un l’altro lo stesso gesto: lavarsi i piedi. Ecco il gesto e le parole dell’Eucaristia: “Questo è il mio corpo… Questo è il mio sangue…” (Mt 26, 26-27).

Tutti sono salvati dall’Unico. Il bene parte come un piccolo seme, talvolta isolato, si inscrive nella vita del discepolo e prende la forma del dono eucaristico. Il bene, poi, coincide con il coraggio perché non c’è bene se non c’è fortezza, forza, coraggio e determinazione.

Il bene coincide con il coraggio di chi, per primo, talvolta da solo si mette in marcia e inizia l’attraversata nel deserto, il luogo in cui il popolo ebreo fa esodo. Esodo è il passaggio – il passare – ma il vero passaggio è quello di Gesù da questo mondo al Padre  è l’inizio del Vangelo di oggi – nel dono di sé a tutti. Questa è la giornata di oggi, questo è l’inizio del Triduo sacro, questa è l’Eucaristia, corpo donato e sangue effuso per tutti. Dobbiamo riscoprire questa dimensione eucaristica della vita cristiana.

Un testimone – lo sappiamo – vale più di mille parole. E allora, concludendo, vorrei indicarvi Charles de Foucauld di cui, nella celebrazione di beatificazione avvenuta nel 2005, Papa Benedetto XVI affermò: “La sua vita è stata un invito ad aspirare alla fraternità universale”.

Come sappiamo, Charles de Foucauld morì ucciso da una banda di predoni guidata da uno a cui aveva fatto del bene. Fu trovato dopo giorni in una povera capanna; era stato legato con le briglie dei cammelli e affidato a un ragazzo che, ad un certo punto, perse il controllo di sé e gli partì un colpo dal fucile… E Charles de Foucauld rimase nel sangue di fronte all’ostensorio che era sempre presente nella sua capanna, in cui viveva in compagnia dell’Eucaristia sempre esposta.

Lascio perciò alla mia e alla vostra riflessione questo pensiero di Charles de Foucauld, il fratello universale di tutti: “Bisogna passare attraverso il deserto e dimorarvici per ricevere la grazia di Dio. Èla che ci si svuota e si scaccia da noi tutto ciò che non è Dio e che si svuota completamente questa piccola casa della nostra anima per lasciare il posto a Dio solo. Il deserto è indispensabile, è un tempo di grazia”. E noi in questi giorni stiamo attraversando il deserto. Che Dio ci aiuti a sentirlo come un tempo di grazia.

E poi continuava così: “È un tempo di grazia, un periodo attraverso il quale ogni anima che vuol portare frutti deve necessariamente passare. Le sono necessari questo silenzio, questo raccoglimento, questo oblio di tutto il creato in mezzo al quale Dio pone in essa – nell’anima – il suo Regno e forma in essa lo spirito interiore”.

Il comandante francese di Fort Motylinski lasciò passare tre settimane prima di fare un sopralluogo a Tamanrasset e, quando vi giunse, trovò quasi sommerso nella polvere l’ostensorio che però conteneva ancora l’Eucaristia consacrata che Charles adorava in continuazione. L’Eucaristia attestava ed era la testimone unica di questo uomo e della fratellanza universale da lui vissuta fino alla fine.

Raccogliamo questa testimonianza e riscopriamo l’Eucarestia come celebrazione e come adorazione perpetua.