Omelia del Patriarca nella S. Messa del Crisma (Venezia, Basilica Cattedrale di San Marco - 29 marzo 2018)
29-03-2018

S. Messa del Crisma

(Venezia, Basilica Cattedrale di San Marco – 29 marzo 2018)

Omelia del Patriarca Francesco Moraglia

 

 

Carissimi,

a tutti i presenti, ma in modo particolare agli amici presbiteri, il mio cordiale saluto.

Prima di tutto, con affetto, rivolgo il mio pensiero a Papa Francesco; gli assicuriamo – in questa Messa crismale – la nostra particolare preghiera affinché, come Vescovo di Roma, eserciti con fede e fiducia il suo ministero a favore della Chiesa universale. E perché questa comunione sia ancora più tangibile, al termine della celebrazione, donerò a ciascuno di voi il libro intitolato “La festa del perdono con Papa Francesco”; in esso potrete trovare i suoi interventi più significativi in tema di accompagnamento spirituale e indicazioni preziose sul discernimento nell’ambito del sacramento della confessione.

Dopo “Lievito di fraternità”, sussidio sul rinnovamento del clero a partire dalla formazione permanente – un bel percorso spirituale scandito sul pensiero di Papa Francesco – che ebbi la gioia di donarvi nell’ottobre scorso, questo testo è un nuovo piccolo dono che – con affetto e volentieri – faccio a voi, miei confratelli sacerdoti, invitandovi a nutrirvi e a condividere i saggi insegnamenti di Papa Francesco.

Cari confratelli, oggi rinnovate le promesse sacerdotali; è un atto personale che, tramite il vostro ministero, coinvolge la Chiesa che è in Venezia e in modo particolare le comunità che servite col dono quotidiano della vostra persona.

Mi rivolgo anche ai nostri diaconi, chiamati ad esprimere nel ministero la carità di Cristo che nasce dall’altare, e poi alle persone consacrate che, con la loro scelta di vita, anticipano la pienezza del Regno di Dio.

Mi rivolgo infine ai cari laici, espressione viva di una Chiesa, popolo di Dio che riconosce l’insostituibilità del ministero ordinato, ringrazia il Signore per tale dono e, nello stesso tempo, vive intensamente il sacramento del battesimo, gioisce del Vangelo che riceve ma che vuole anche annunciare in prima persona, scoprendosi non solo oggetto ma soggetto vivo della pastorale diocesana.

È la logica del “Cenacolo” che ritorna, espressione di un laicato attivo che vive la comunione ecclesiale innanzitutto con il Vescovo, segno di unità nella Chiesa particolare; un laicato, quindi, che è pienamente corresponsabile dell’annuncio del Vangelo.

Tutto questo, ringraziando Dio, l’ho potuto toccare con mano nell’inizio della Visita pastorale e, a tal proposito, ringrazio per l’accoglienza e la testimonianza le collaborazioni pastorali di Jesolo Lido, Cavallino-Treporti e Jesolo Paese. Spero di ritrovare quanto ho visto in queste comunità anche in quelle che mi accingo a visitare; è bello vedere in ogni comunità – anche nella più piccola – vivacità e originalità concreta nel vivere e nell’annunciare il Vangelo, più che elaborazioni di piani concettuali fini a se stessi.

Ai nostri ragazzi che si preparano a ricevere il sacramento della confermazione e sono qui presenti in Basilica, accompagnati dai catechisti e dai loro parroci, dico: coraggio, per noi siete importanti e vi vogliamo bene; con i vostri coetanei delle medie, vi attendo numerosi ad Assisi nel prossimo pellegrinaggio diocesano che si svolgerà dal 20 al 22 aprile.

Carissimi amici, il Concilio Vaticano II distingue – a partire dall’unico sacerdozio di Cristo – quello battesimale e quello ministeriale, ponendo quest’ultimo a servizio del primo: “Cristo Signore, per pascere e sempre più accrescere il popolo di Dio, ha stabilito nella sua Chiesa vari ministeri, che tendono al bene di tutto il corpo” (Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione dogmatica Lumen gentium n. 18).

Il Vescovo che ha ricevuto la pienezza del sacerdozio e il presbitero che partecipa ad esso, nella comunione ecclesiale, sono – seppur in modi diversi – segni reali della presenza di “Cristo-capo” in mezzo al popolo loro affidato.

Noi sacerdoti ordinati, nella nostra persona, siamo in tal modo – senza nostro merito e al di là delle nostre doti personali – doni preziosi per la nostra gente e le nostre comunità; è importante che non smarriamo o sminuiamo tale consapevolezza. Siamo mandati in quanto preti e non per nostre doti personali; queste, ovviamente, sono un ulteriore dono per la Chiesa ma l’efficacia del ministero ordinato non è, in se stessa, legata alle risorse personali.

Le parole con cui Papa Francesco inizia l’esortazione apostolica Evangelii gaudium sono rivolte in modo particolare a noi ministri ordinati: La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù. Coloro che si lasciano salvare da Lui sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento. Con Gesù Cristo sempre nasce e rinasce la gioia“ (Papa Francesco, Esortazione apostolica Evangelii gaudium n. 1).

I ministri ordinati, infatti, preti o vescovi – e in modo differente i diaconi -, sanno prima di tutto d’essere dei salvati che, a loro volta, annunciano il perdono che hanno ricevuto gratuitamente e di cui sono i testimoni.

Ciò è quanto ribadisce l’apostolo Paolo ai fratelli e alle comunità a cui è mandato come padre, come maestro, come servitore; dopo di lui, altri, a loro volta, lo diranno.

L’apostolo Paolo così scrive ai Corinti: “Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto. Io infatti sono il più piccolo tra gli apostoli e non sono degno di essere chiamato apostolo perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. Per grazia di Dio, però, sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana. Anzi, ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me” (1 Cor 15,8-10).

La metafora dell’aborto – che Paolo applica a sé – esprime la grande e realissima umiltà dell’apostolo, se pensiamo al dramma umano e cristiano dell’aborto che, più di altre non-accoglienze, rimane oggi una questione largamente “silenziata”.

Ignazio di Antiochia, pochi decenni dopo l’apostolo Paolo, scrivendo alla Chiesa di Roma, ritornerà su questo tema: “Sono l’ultimo di tutti, sono un aborto; ma mi sarà concesso di essere qualcosa, se raggiungerò Dio” (9,2).

Oggi, cari presbiteri, mentre rinnovate le promesse dell’ordinazione, fate vostro l’invito di Paolo all’amico e discepolo Timoteo: “…ti ricordo di ravvivare il dono di Dio, che è in te mediante l’imposizione delle mie mani. Dio infatti non ci ha dato uno spirito di timidezza, ma di forza, di carità e di prudenza. Non vergognarti dunque di dare testimonianza al Signore nostro…” (2Tm 1,6-8).

Come sacerdoti siamo chiamati ad essere amministratori della grazia di Dio, consapevoli d’esser stati i primi ad averne beneficiato. Tale consapevolezza deve essere – come spesso ci ricorda Papa Francesco – più presente nell’esercizio del nostro ministero a servizio dei fratelli; teniamo viva in noi tale memoria, per poter andare agli altri con profonda umiltà e vera tenerezza. E così, senza sminuire la drammatica portata del peccato e le esigenze del Vangelo, ricordiamo che i tempi e i momenti della conversione appartengono a Dio che è ricco di misericordia.

Nel ministero siamo chiamati ad annunciare la salvezza di Gesù che non mira solo a beni parziali ma riguarda tutto l’uomo, fatto di spirito, anima e corpo (cfr. 1Ts 5, 23). Per noi la speranza del Vangelo riguarda tanto il tempo quanto l’eternità; se no – come scrive Paolo ai Corinzi -, “siamo da commiserare più di tutti gli uomini” (1Cor 15,19).

Oggi – come è noto – si è poco inclini ad ascoltare i maestri; si guarda piuttosto ai testimoni, a persone e comunità gioiose e, quando la gioia non è forzatura ideologica o recitazione del momento, ma qualcosa che plasma interiormente a partire dalla fede, dalla speranza e dalla carità, e quando la gioia non è il frutto di successi umani destinati presto a svanire ma esito dell’incontro col Signore, allora tale gioia è contagiosa, convince, aiuta ad evangelizzare, converte. Dobbiamo esser capaci di testimoniare l’amore che ci ha salvati gratuitamente e, soprattutto, dobbiamo annunciare con ogni mezzo la gioia di Gesù risorto: “Davvero il Signore è risorto…“ (Lc 24,34).

Siamo salvati personalmente e comunitariamente dal suo amore gratuito; questa deve essere la certezza che accompagna il nostro ministero sempre. Il nostro sì alla sua chiamata ci libera innanzitutto da noi stessi perché il peccato è prima di tutto scegliere il proprio progetto, il proprio io, il proprio particolare; sostituire Gesù con il proprio io, saperne più di lui; essere più del maestro, porsi sopra il Vangelo, piegandolo al pensiero dominante del tempo in cui viviamo.

Dove finisce, allora, la profezia cristiana: dar da mangiare all’affamato, vestire chi è nudo, ospitare lo straniero, ma anche perdonare le offese, consigliare i dubbiosi, senza dimenticare il sì dell’amore indissolubile fra l’uomo e la donna nel matrimonio?

Carissimi, crescendo nel Signore Gesù, ossia nella fede, nella speranza e nella carità diventiamo più uomini, più donne, e cresciamo pure come comunità perché Gesù non solo non toglie nulla alla nostra umanità ma la porta a compimento.

Non a caso la fede – con cui inizia la nostra vita di relazione con Dio – deve essere atto libero, responsabile, capace di dare ragione della speranza cristiana che è in noi (cfr. 1Pt 3,15). Il vero discernimento deve mettere a fuoco, ad un tempo, l’umano e il soprannaturale che costituiscono l’unico uomo esistente, conducendolo alla piena realizzazione della sua vocazione.

Così l’annuncio cristiano è testimonianza serena e gioiosa di una verità detta con amore e di un amore vissuto nella verità; è annuncio di una vita riconciliata capace di speranza in una quotidianità fatta di alti e bassi, di luci e ombre, di successi e insuccessi, spesso abitata da persone tristi e scoraggiate. Annunciare la speranza è per ogni comunità cristiana, piccola o grande che sia, un dovere e consiste nel prendere per mano chi fatica o addirittura non trova più motivi per vivere. Annunciare la speranza è, così, beneficare il prossimo e la società.

Per questo tra i doni dello Spirito Santo, dobbiamo tutti riscoprire quello della scienza, il dono che rende possibile vivere proprio la virtù della speranza; la scienza, che non va confusa con i doni della sapienza e l’intelligenza, è quel dono che ci fa conoscere (scienza da conoscere), e poi vivere, il momento presente mantenendo lo sguardo fisso sul Signore Gesù, il fine ultimo, senza smarrirlo nelle tante e talvolta troppe cose che facciamo

Richiamo qui un pensiero di Ignazio Silone che mi sembra possa aiutarci come preti. Silone, uomo di profonda sensibilità e intelligenza, percorse -, lungo tutta la vita – un cammino di dolorosa e sofferta ricerca; nasce da una famiglia cristiana, dopo una stagione politica intensa passata tra socialismo e comunismo – fu tra i fondatori del Partito comunista – tornò a guardare a Gesù e al suo Vangelo, tuttavia rimanendo sempre fuori da ogni appartenenza istituzionale e fuori da ogni modello costituito. Con tutta la cautela che l’affermazione richiede, possiamo dire che fu un “cristiano senza Chiesa”; infatti, considerò con vera attenzione, ma dall’esterno, le “certezze cristiane” che avvertiva presenti nella sua “coscienza”.

Quest’uomo fu profondamente segnato dalle vicende tragiche della vita. Orfano di padre a undici anni, a quindici perse la mamma nel drammatico terremoto della Marsica del 1915, Ignazio Silone – pseudonimo e poi nome legale di Secondo Tranquilli – fu intimamente toccato dall’incontro con un prete; sì, cari confratelli, con un prete, don Orione – che la Chiesa oggi venera come san Luigi Orione -, il santo della carità senza limiti.

“Ciò che mi è rimasto impresso era la pacata tenerezza del suo sguardo… – scriverà Silone -. Difficile sottrarsi a quello sguardo che, una volta incrociato, non lo dimenticavi più. La luce dei suoi occhi aveva la bontà di chi nella vita ha pazientemente sofferto ogni sorta di triboli e perciò sa le pene più segrete” (cfr. Ignazio Silone, Uscita di sicurezza). Sì, cari confratelli, questo è quanto lo sguardo di un prete – se è uomo di Dio – può lasciare in termini di nostalgia, affetto, ricordo nel cuore di una persona che forse non si incontrerà più.

Lascio alla vostra riflessione un altro pensiero di Silone, utile per il cristiano di ogni tempo, perché il Vangelo è sempre attuale e sempre a rischio dinanzi alla logica del mondo, la logica del pensiero unico dominante, come ricorda Papa Francesco: “Se il cristianesimo viene spogliato dalle sue cosiddette assurdità – scrive Silone – per renderlo gradito al mondo, così com’è, e adatto all’esercizio del potere, cosa ne rimane? Voi sapete che la ragionevolezza, il buon senso, le virtù naturali esistevano già prima di Cristo, e si trovano anche ora presso molti non cristiani. Che cosa Cristo ci ha portato in più? Appunto alcune apparenti assurdità. Ci ha detto: amate la povertà, amate gli umiliati e gli offesi, amate i vostri nemici, non preoccupatevi del potere, della carriera, degli onori, sono cose effimere, indegne di anime immortali…” (cfr. Ignazio Silone, L’avventura di un povero cristiano).

Queste parole così intense ed esplosive si comprendono all’interno della vita di Silone protesa sempre alla ricerca di una reale giustizia e di fronte alla croce, che è il giudizio di Dio sul mondo; parole di cui noi e le nostre comunità abbiamo bisogno e di cui vogliamo tenere conto. Lo Spirito Santo soffia ovunque…

A tutti gli amici presenti, ai confratelli sacerdoti, ai diaconi e anche a me, auguro un Sacro Triduo che ci liberi dal nostro io – il nostro “uomo vecchio” – e, per l’intercessione della Santa Vergine del cenacolo, ci consegni, insieme alle nostre comunità, all’Amore Misericordioso del Padre rendendoci nella nostra vita immagini vive della Sua tenerezza. Ricordiamo poi con affetto tutti i nostri confratelli, in modo particolare i malati, gli anziani e quanti possono attraversare momenti di prova e sofferenza spirituale.

Sì, preghiamo gli uni per gli altri; io mi affido con fiducia alla vostra preghiera e vi porto nella mia. Carissimi, sappiate che il presbiterio e i singoli preti entrano ogni giorno nella mia prima preghiera del mattino; ogni mattina, siete i primi per i quali rivolgo a Dio il mio pensiero. Chiediamo alla Vergine – Madre di Gesù eterno sacerdote – di sostenere e ottenere da Dio il dono della santità per il nostro presbiterio; affidiamoci, dunque, a Lei e alla sua onnipotente preghiera secondo lo spirito delle nozze di Cana.

Auguro a tutti, presbiteri, diaconi, persone consacrate, fedeli laici e alle nostre comunità, una Pasqua santa nel Signore!