Omelia del Patriarca durante i Primi Vespri dell’Immacolata Concezione con l’ammissione agli ordini sacri di due seminaristi (Venezia / Basilica della Salute, 7 dicembre 2020)
07-12-2020

Primi Vespri dell’Immacolata Concezione con l’ammissione agli ordini sacri dei seminaristi Francesco Zotta e Rafael Arias Mejia

(Venezia / Basilica della Salute, 7 dicembre 2020)

Omelia del Patriarca Francesco Moraglia

 

 

 

Un saluto e un grazie a voi ma prima di tutto ai vostri genitori ed anche a chi ci ascolta in questo momento dall’altra parte dell’oceano; la Chiesa ha bisogno di laici e laiche che si impegnino nel dono grande di donare la vita.

Caro Francesco, caro Rafael, voi ci siete perché due persone si sono dette un sì fedele e allora dobbiamo vivere questo momento di Chiesa ricordando che ogni prete è stato in qualche modo “generato” e lo facciamo in questa basilica, che è accanto al Seminario Patriarcale, che da oltre duecento anni vede sbocciare e crescere le vocazioni – così essenziali e insostituibili – al ministero ordinato.

Saluto i confratelli nel sacerdozio che vedo numerosi. Vi ringrazio perché siete un segno importante; i nostri seminaristi e il Seminario hanno bisogno delle parrocchie e – permettetemi di ricordarlo – le parrocchie crescono frequentando, accogliendo e ospitando le iniziative e la presenza del seminario.

Ho avuto modo di dire più volte che il Seminario non è del Rettore, del Patriarca e del padre spirituale ma è di tutta la Chiesa che è in Venezia. Pregare per il nostro Seminario, frequentare il nostro Seminario e accogliere i nostri seminaristi è un crescere per tutti, è un crescere in ambito ecclesiale, è un qualcosa di cui non possiamo fare a meno perché abbiamo bisogno gli uni degli altri.

Caro Francesco, caro Raphael, vi preparate ad essere preti con gli altri preti; il presbiterio è questa comunione in cui gli “io” singoli, con le loro caratteristiche personali, si uniscono in una testimonianza collettiva e in un ministero collettivo.

Certo, la responsabilità personale è grande ma è il corpo sacerdotale che noi dobbiamo costruire pensando che prima di noi c’era il presbiterio di Venezia e dopo di noi ci sarà il presbiterio di Venezia. Partecipare di questo noi unitario vuol dire interpretare senza ipocrisie la parabola del Vangelo; siamo servi e noi diciamo la nostra umiltà vera – non fittizia – nel momento in cui condividiamo con gli altri e portiamo gli uni i pesi degli altri.

Siamo nella vigilia e già nella liturgia della solennità dell’Immacolata Concezione di Maria. L’Immacolata è Colei che ci ricorda che non possiamo credere che la Chiesa è fatta solo di persone sbagliate, di persone che in qualche modo hanno a che fare solo con il peccato; nella Chiesa esiste la santità di Maria, l’Immacolata.

E questa santità ci dice che la Chiesa è qualcosa di bello nel progetto di Dio e noi – uomini, laici, laiche, presbiteri, diaconi – dobbiamo convertirci perché dobbiamo prima di tutto annunciare oggi al mondo la bellezza della Chiesa. La Chiesa non è un’istituzione o, meglio, non è solo un’istituzione; la Chiesa è la famiglia, è il corpo, è l’immagine femminile di Maria.

È interessante vedere come la Chiesa – la realtà sacramentale della Chiesa – sia raffigurata in una donna; la donna è accoglienza nel suo corpo e nella sua mente, la donna è per la vita, per accompagnare alla maturazione la vita. E la Madonna è la Chiesa, è l’immagine della Chiesa all’interno della quale esistono dei ministeri, dei compiti, degli uffici, delle vocazioni. Voi, Francesco e Rafael vi state preparando a far parte del corpo della Chiesa.

Vi lascio, allora, un’immagine: rileggete e meditate i capitoli della Genesi che vanno dal 25 al 50. Vi è la figura di Giacobbe e Giacobbe rappresenta una parabola in cui ci possiamo e dobbiamo ritrovare tutti: Giacobbe l’usurpatore, l’ingannatore. Il padre del popolo ebreo inizia la sua vita come colui che usurpa, come colui che inganna, che cerca di avvantaggiarsi sugli altri. Gli episodi della vita di Giacobbe ci consegnano poi, alla fine, Giacobbe che viene chiamato da Dio “Israele”.

Quest’uomo presuntuoso e arrogante che si approfitta del fratello rozzo (Esaù) nel momento in cui è affamato e stanco; lo scaltro Giacobbe gli carpisce, gli usurpa, gli ruba la primogenitura e poi, per sfuggire alla vendetta del fratello, dovrà fare un periodo lungo di esilio a Carran dove troverà la sposa ma troverà anche chi è più furbo di lui – lo zio Labano – che lo inganna, lo fa lavorare mentendogli e poi lo fa lavorare di nuovo ancora. Ma Giacobbe continuerà ad essere sempre Giacobbe perché froderà Labano nell’espansione del gregge; essendo un uomo scaltro, capace e avveduto, sceglierà il capo di bestiame migliore e poi, finalmente, con la donna che aveva desiderato, prenderà la via della Terra Promessa.

Qui, però, succede qualcosa: quest’uomo provato dalle sue furbizie e in qualche modo vinto da se stesso, dal suo modo di fare, dal presumere di essere più degli altri, dal prevaricare e dal mentire incontrerà Dio in una lotta notturna.

Il tema della lotta, della preghiera, dell’incontro con Dio, dove quest’uomo non sarà più Giacobbe ma sarà chiamato “Israele” perché ha combattuto con Dio e lo ha vinto. Ma in che cosa ha vinto Dio? Giacobbe non è stato più forte di quella presenza oscura che campeggiava di fronte a lui nel momento in cui doveva guadare il fiume Iabbok e andare verso  la Terra Promessa; no, Giacobbe è stato grande perché ad un certo punto ha chiesto a Dio di essere benedetto.

La vittoria di Giacobbe è quella dell’umiltà di chi riconosce che senza la benedizione di Dio, senza il rapporto con Dio, senza il ridimensionamento del proprio io, si continua a rimanere degli usurpatori e degli ingannatori; in questo gesto ci sarà anche la grande umiliazione di fronte al fratello Esaù, si chinerà di fronte al fratello, di fronte alle sue mogli, ai suoi schiavi, ai suoi figli e chiederà perdono.

Qui inizia “Israele”; inizia la vita di colui che ha combattuto e ha vinto con Dio chiedendo nella preghiera di essere benedetto e perdonato. Giacobbe uscì così, dice la Genesi, da questo incontro-scontro con Dio perché, cari Francesco e Rafael, il rapporto con Dio è un incontro-scontro e finché non capiamo questo siamo ancora “infanti” nel senso paolino del termine, non nel senso evangelico; siamo come bambini, ossia ancora inadatti a camminare e a portare sulle spalle gli altri, poiché noi riusciamo a portare noi stessi e gli altri nel momento in cui abbiamo compreso che non possiamo fare meglio.

Vi lascio la figura di Giacobbe perché in tutti i momenti – che io ho semplicemente delineato – può essere un compagno che vi aiuta nella conversione verso un sacerdozio che sia condivisione del dono ricevuto da Dio. Vi preparate ad essere nella Chiesa coloro che servono guidando gli altri.

Riflettete bene su quest’ultima frase, perché quello è il posto più scomodo che esista e quando si è preti nelle missioni, negli uffici o nei compiti che ci vengono affidati, quello è un posto che non possiamo cedere e che non dobbiamo cedere; è il posto che ci renderà santi quando tutte le altre cose – l’età, le stagioni della vita, i progetti umani – saranno destinate ad essere riviste di fronte alla grandezza della santità. E allora guardate all’Immacolata, la Tutta Santa.