Vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea
Venezia, 19 marzo 2021
Solennità di S. Giuseppe
Carissimi,
il titolo della lettera rimanda alla pericope delle nozze di Cana alle quali – come informa l’evangelista Giovanni (cfr. Gv 2, 1-11) – sono invitati la madre di Gesù, Gesù e i discepoli. Il testo, oltre al fatto narrato, ha un profondo significato cristologico: Gesù, infatti, è il vero sposo, lo sposo messianico. Il testo, poi, ci introduce nei tempi nuovi inaugurati proprio da Gesù; così l’acqua cede il posto al vino nuovo e le giare di pietra per le abluzioni rituali dei giudei, nell’approssimarsi dell’ “ora”, lasciano il posto alla fede dei discepoli che, vedendo la gloria di Gesù, credono in lui. Sarà proprio la fede nel Risorto a svelare, compiutamente, tale gloria.
Questo richiamo a Gesù, novità e compimento, ci offre una luce in cui possiamo “rileggere” l’amore uomo-donna che – per l’umana fragilità – ha continuamente bisogno d’essere rinnovato e completato dall’amore di Dio nel sacramento del matrimonio.
Questa lettera raccoglie l’invito di Papa Francesco a dedicare un anno alla riflessione sulla famiglia, approfondendo l’Esortazione apostolica Amoris laetitia a cinque anni dalla sua promulgazione. Non intendo presentarne il testo, a voi già noto, ma desidero esortare ancora una volta alla lettura attenta e meditata, sia personale sia comunitaria.
Il Santo Padre, fin dall’inizio, richiama la centralità di due capitoli, il quarto dedicato all’amore coniugale, premessa per un cammino di fedeltà e donazione reciproca (cfr. Amoris laetitia, nn. 89-164), e il quinto dedicato all’amore fecondo che dona la vita (cfr. Amoris laetitia, nn. 165-198). Papa Francesco scrive infatti: «È probabile […] che i coniugi si riconoscano di più nei capitoli quarto e quinto» (Amoris laetitia, n. 7) e nel numero precedente aveva definito centrali i due capitoli dedicati all’amore (cfr. Amoris laetitia, n. 6).
L’anno, che si concluderà il 26 giugno 2022 col X Incontro Mondiale delle Famiglie a Roma, inizia il 19 marzo nel segno di san Giuseppe, sposo della Beata Vergine Maria, padre legale di Gesù, uomo giusto, proclamato patrono della Chiesa universale centocinquant’anni or sono dal Beato Pio IX.
L’anno della famiglia, quindi, s’intreccia in modo provvidenziale con la figura forte e coraggiosa di Giuseppe che a Nazaret – secondo il Vangelo di Matteo – era conosciuto come figlio del carpentiere (cfr. Mt 13,55). Il Papa ci indica proprio Giuseppe, guida umile e coraggiosa della Famiglia di Nazaret che si è assunta il compito di custodire Gesù e Maria senza recriminare e senza incertezze: «Giuseppe, nel suo ruolo di capo famiglia, insegnò a Gesù ad essere sottomesso ai genitori, secondo il comandamento di Dio» (Papa Francesco, Lettera apostolica Patris corde, n. 3).
Giuseppe, fedele alla sua vocazione e missione, in una famiglia concreta e reale, deve misurarsi con situazioni non “facili”. La famiglia di Nazaret, da subito, ha dovuto affrontare vicende tormentate e drammatiche da cui è stata “attanagliata” e che si spiegano solo con la storia della salvezza. Pensiamo alla misteriosa e, sul piano umano, del tutto inspiegabile nascita di Gesù e, immediatamente dopo, alla drammatica fuga in Egitto, e, infine, al ritorno problematico in Galilea.
Giuseppe è stato custode della vita terrena di Maria e del Figlio di Dio: l’ha accolto, educato e fatto crescere, donando a Gesù – prima bambino e poi adolescente – la presenza paterna che sostiene, educa e aiuta a crescere. Ha donato alla famiglia di Nazaret la fatica del suo lavoro quotidiano, nella bottega artigiana, confrontandosi – come tanti padri di famiglia di ogni tempo e pure del nostro – con le necessità e urgenze e garantendo, attraverso un onesto lavoro, il sostegno economico sufficiente per il mantenimento e per dare dignità e futuro a Gesù e a Maria. Così Giuseppe si è speso totalmente per la sua famiglia.
Tutti – e soprattutto ogni famiglia – possono, in tal modo, realmente «trovare in San Giuseppe, l’uomo che passa inosservato, l’uomo della presenza quotidiana, discreta e nascosta, un intercessore, un sostegno e una guida nei momenti di difficoltà. San Giuseppe ci ricorda che tutti coloro che stanno apparentemente nascosti o in “seconda linea” hanno un protagonismo senza pari nella storia della salvezza» (Papa Francesco, Lettera apostolica Patris corde, Introduzione).
È una felice coincidenza che l’anno dedicato a san Giuseppe, sposo di Maria e padre legale di Gesù, s’intersechi con l’anno della famiglia, nel quinto anniversario della promulgazione di Amoris laetitia.
Questo testo è incentrato proprio sull’amore nella famiglia e ci ricorda che, sul piano pastorale, la famiglia non va mai vista come un problema o come un peso ma, al contrario, come una vera risorsa. «Le famiglie cristiane, per la grazia del sacramento nuziale», scrive Papa Francesco, «sono i principali soggetti della pastorale familiare, soprattutto offrendo “la testimonianza gioiosa dei coniugi e delle famiglie, chiese domestiche”. Per questo […] «si tratta di far sperimentare che il Vangelo della famiglia è gioia che “riempie il cuore e la vita intera”» (Amoris laetitia, n. 200).
Un Vangelo, quello della famiglia, da annunciare innanzitutto con la testimonianza vissuta di tutti i suoi membri. Nessuno – rimarca il Santo Padre – può pensare che indebolire la famiglia, intesa come unione esclusiva e indissolubile tra un uomo e una donna, aperta alla vita, nucleo originario e fondamentale della società, sia qualcosa che possa giovare alla società stessa, essendo un impegno stabile e rendendo possibile la fecondità (cfr. Amoris laetitia, n. 52).
Secondo il piano di Dio all’inizio di una famiglia non si dà solamente la volontà di due persone ma la grazia del sacramento, ossia la forza che viene dall’alto e che sostiene e custodisce il “sì” sempre fragile degli uomini. Una grazia che continuamente rinnova gli sposi e i figli e consente di testimoniare il buon annuncio del Vangelo della famiglia nella Chiesa e nella società. Se, per qualche motivo, negli sposi cristiani venisse meno tale consapevolezza, allora vorrebbe dire che si è “spento” qualcosa di “portante” nella fede stessa delle Chiesa.
Il Concilio Vaticano II, a proposito dell’amore dei fidanzati e dei coniugi, così si esprime: «Il Signore si è degnato di sanare, perfezionare ed elevare questo amore con uno speciale dono di grazia e carità. Un tale amore, unendo assieme valori umani e divini, conduce gli sposi al libero e mutuo dono di sé stessi, che si esprime mediante sentimenti e gesti di tenerezza e pervade tutta quanta la vita dei coniugi» (Costituzione pastorale Gaudium et spes, n. 49).
Il sacramento fa in modo che l’amore degli sposi si dispieghi non solo sul piano umano ma anche della vita di grazia che, però, sempre domanda d’essere accolta dalla libertà degli uomini.
La famiglia ha valenza ecclesiale e sociale; è il “luogo” originario della vita della Chiesa e della società. Il matrimonio, celebrato da due battezzati di fronte a Dio e alla comunità, risulta l’affermazione più “laica” o “secolare” della sacramentalità e, proprio per questo, oggi si trova particolarmente “esposto” ma allo stesso tempo risulta particolarmente “necessario”.
Il sacramento del matrimonio si costituisce, appunto, attraverso il consenso di due battezzati ed è quindi – e come tale va considerato – realtà umana e divina che si pone, per usare un’immagine, sulla soglia del tempio, sul sagrato e che deve essere visibile nella comunità ecclesiale e in quella sociale e politica.
Certo, siamo tutti consapevoli – come ha ribadito lo stesso Papa Francesco – che «la famiglia attraversa una crisi culturale profonda, come tutte le comunità e i legami sociali […] la fragilità dei legami diventa particolarmente grave perché si tratta della cellula fondamentale della società, del luogo dove si impara a convivere nella differenza e ad appartenere ad altri e dove i genitori trasmettono la fede ai figli. Il matrimonio tende ad essere visto come una mera forma di gratificazione affettiva che può costituirsi in qualsiasi modo e modificarsi secondo la sensibilità di ognuno. Ma il contributo indispensabile del matrimonio alla società supera il livello dell’emotività e delle necessità contingenti della coppia» (Papa Francesco, Esortazione apostolica Evangelii gaudium, n. 66).
Emerge qui il compito affidato alle famiglie e l’imprescindibile ruolo pubblico che ne deriva. Sentir riecheggiare il Vangelo – il buon annunzio della famiglia – con una testimonianza esplicita è l’invito che il Papa rivolge esplicitamente alle famiglie, affermando di ravvivare con gesti concreti di fraternità il grigiore di uno spazio pubblico carente di fraternità, in particolare verso i più deboli, in cui si avverte la mancanza di fede e speranza: «Con la testimonianza, e anche con la parola, le famiglie parlano di Gesù agli altri, trasmettono la fede, risvegliano il desiderio di Dio, e mostrano la bellezza del Vangelo e dello stile di vita che ci propone. Così i coniugi cristiani dipingono il grigio dello spazio pubblico riempiendolo con i colori della fraternità, della sensibilità sociale, della difesa delle persone fragili, della fede luminosa, della speranza attiva. La loro fecondità si allarga e si traduce in mille modi di rendere presente l’amore di Dio nella società» (Amoris laetitia, n. 184).
Risponde esattamente a tale richiesta del Santo Padre che la nuova Casa della carità delle “Muneghette” a Venezia, dopo averne condiviso il progetto a livello vicariale (presbiteri, diaconi, consacrati e laici), sia stata affidata a una famiglia (con padre, madre e quattro figli) perché la abiti e, insieme ai volontari, la animi. Essa sarà provvidenzialmente intitolata a San Giuseppe, il custode paterno del Figlio di Dio; tale casa intende essere, infatti, una testimonianza dell’amore di Dio Padre attraverso il volto quotidiano di chi testimonierà la carità vivendola.
La fecondità – e, quindi, la generazione – appartiene all’amore coniugale con cui gli sposi diventano collaboratori di Dio creatore e comporta, come conseguenza, l’educazione con cui i papà e le mamme generano una seconda volta i loro figli conducendoli, passo dopo passo, all’uso responsabile della libertà. Il fine della generazione e dell’educazione è accompagnarli ad essere testimoni della fede e portatori di una cultura sociale per cui si possano incamminare nel percorso della vita come costruttori, per quanto è in loro potere, di un futuro di “ben-essere”, giustizia, felicità per sé e il maggiore numero di persone. Essi sono chiamati a “raccontare” con la parola e la vita quei principi, quei valori e quelle scelte concrete con cui si possa abitare insieme ad altri la comune casa, sia nella Chiesa, sia nella comunità politica. La famiglia – è interesse di tutti – deve essere al centro della vita ecclesiale, sociale, culturale, economica, politica.
Nell’ambito ecclesiale la famiglia deve essere il primo luogo di evangelizzazione e trasmissione della fede, innanzitutto tra gli sposi e, poi, con i figli per i quali la mamma e il papà sono i primi testimoni della fede, ben prima del parroco, dei catechisti e degli altri educatori. Per quanto riguarda l’ambito sociale e civile, la famiglia è realtà intermedia tra la persona e la società e va riconosciuta nella sua unicità a servizio della persona.
Soprattutto oggi la famiglia deve riscoprire la sua missione educativa, una vera sfida che richiede l’alleanza tra le generazioni e con le altre realtà e agenzie educative; è una sfida che si fa urgente di fronte a tanti bambini ed adolescenti sempre più raggiunti – anche in recenti eventi di ampia risonanza mediatica – da messaggi, immagini e “segnali” fuorvianti, spregiativi della sensibilità religiosa e tutto in nome di una supposta e falsa libertà o di pseudo-valori deleteri e non rispettosi di simboli e realtà religiose.
Si tratta, in altre parole, di far crescere le potenzialità e le doti che i giovani manifestano, correggendone le intemperanze e gli egoismi e conducendoli, con amore e verità, alla piena maturità di credenti e cittadini. Bisogna accompagnarli con amore per renderli capaci di cogliere il valore e la bellezza di un sì detto per sempre, così come è richiesto nel matrimonio-sacramento, iniziando un percorso ad un tempo comprensivo e, nello stesso tempo, costruttivamente critico nei confronti di stili di vita compatibili o non compatibili col Vangelo del matrimonio cristiano e con i valori umani che lo accompagnano e senza dei quali non è realizzabile.
La scelta del sacramento va preparata con cura e non può essere improvvisata; come ogni sacramento, anche il matrimonio risponde ad una vocazione e apre ad una missione. Il sacramento del matrimonio non è una costruzione umana o una convenzione sociale, un rito esteriore: è una chiamata del Signore alla vita di grazia che salva.
Vivere l’amore sponsale vuol dire esprimere l’amore di Cristo per la Chiesa (cfr. Ef 5,31-33); in tal modo, l’uomo e la donna nel “sì” per sempre, fino al “tutto è compiuto”, testimoniano l’amore Cristo-Chiesa nel mondo, iniziando dal contesto familiare, per aprirsi a tutti nell’ascolto e nell’annuncio.
Oggi è più che mai necessario avere coscienza che, quando si pronuncia il “sì per sempre”, si risponde ad una vocazione, si entra in una missione e ci si impegna, seppure in modo imperfetto, a vivere l’amore che unisce Cristo e la Chiesa. Questo, e niente di meno, è il sacramento del matrimonio ed è bello che Gesù l’abbia posto a compimento dell’uomo e della donna (cfr. Gen 2,23-24).
Il “sì” degli sposi risponde ad una vocazione e questo, oggi, va riscoperto ed evidenziato; fuori di tale logica, infatti, è umanamente impossibile vivere la sponsalità e scegliere di sposarsi in Chiesa, avere figli ed educarli. Tutto ciò presuppone un discernimento ponderato (cfr. Amoris laetitia, n. 72). Scegliere e vivere il matrimonio come vocazione cristiana, fioritura battesimale, fa maturare la famiglia quale “cenacolo di vocazioni”, anche di consacrazione, delle quali la Chiesa continua ad aver bisogno per l’annuncio del Vangelo.
In tale prospettiva assume particolare valore quanto Papa Francesco scrive nell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium che, come sappiamo, costituisce il testo programmatico del suo pontificato: «…non potremo mai rendere gli insegnamenti della Chiesa qualcosa di facilmente comprensibile e felicemente apprezzato da tutti. La fede conserva sempre un aspetto di croce, qualche oscurità che non toglie fermezza alla sua adesione. Vi sono cose che si comprendono e si apprezzano solo a partire da questa adesione che è sorella dell’amore, al di là della chiarezza con cui se ne possano cogliere le ragioni e gli argomenti. Per questo occorre ricordare che ogni insegnamento della dottrina deve situarsi nell’atteggiamento evangelizzatore che risvegli l’adesione del cuore con la vicinanza, l’amore e la testimonianza» (Papa Francesco, Esortazione apostolica Evangelii gaudium, n. 42).
È necessario, quindi, un atteggiamento dialogante, disponibile, fraterno, in modo che ogni incontro sveli prospettive sconosciute e consenta, tutte le volte che è possibile, d’intravedere spiragli nuovi per giungere – come meta comune – a quella pienezza che ci sta dinanzi e verso la quale si è incamminati.
Di tutto ciò parla diffusamente, come è noto, la parte ottava di Amoris laetitia che sottolinea i tre verbi «accompagnare», «discernere» e «integrare» come tre azioni irrinunciabili oltre alla necessità di non «sviluppare una morale fredda da scrivania», ma di porsi «nel contesto di un discernimento pastorale carico di amore misericordioso, che si dispone sempre a comprendere, a perdonare, ad accompagnare, a sperare, e soprattutto a integrare. Questa è la logica che deve prevalere nella Chiesa» (Amoris laetitia, n. 312).
Ai sacerdoti si richiede di indossare i panni di Gesù, l’unico Maestro e Signore, perché una sola è la Guida: il Cristo (cfr. Mt 23, 10); Lui che, nel dialogo con la donna samaritana, diventa modello e riferimento di un vero accompagnamento personale. Gesù la incontra e si china sulle sue ferite di donna con amore e verità, non facendo finta di non sapere e neanche dandole risposte facili e non vere. È Gesù che la interpella circa il motivo che, probabilmente, stava alla base della sua scelta di recarsi al pozzo, nell’ora più calda del giorno, quando nessuno vi si recava: «Hai detto bene: ”Io non ho marito”; […] quello che hai ora non è tuo marito» (Gv 4,17-18). Nello stesso tempo, Gesù risveglia in lei, con bontà e sapienza, il desiderio d’amore che era in lei, la libera da ciò che offusca la sua vita e le propone la gioia piena del Vangelo, ossia il Messia atteso che per i Samaritani era il profeta, colui che svela, il Ta’ eb, «colui che ritorna» (cfr. Dt 18,15.18).
Gesù, per sciogliere i legami di quella donna ferite e usata, non si sofferma sulla ferita ma le indica Colui che può dischiuderle un orizzonte più ampio, quello della fede, ossia il profeta atteso dai Samaritani che erano considerati eretici dai rigorosi e ortodossi Giudei e che, invece, abitavano a pieno titolo nel cuore di Dio. Questa donna, dopo l’incontro evangelizzatore con Gesù, diventerà la prima evangelizzatrice del suo popolo. Annota, infatti, l’evangelista Giovanni: «Molti Samaritani di quella città credettero in lui per la parola della donna, che testimoniava: “Mi ha detto tutto quello che ho fatto”» (Gv 4,39).
Nel nostro contesto attuale non sfuggono, certo, la complessità e il numero di sofferenze, fragilità, imperfezioni e divisioni che mettono in crisi le famiglie. Di fronte ad esse Amoris laetitia si sofferma con particolare attenzione a considerare la situazione personale (soggettiva) di quanti sperimentano tali situazioni di fragilità e frattura nei confronti di una precedente unione o di una unione che si pone al di fuori del matrimonio.
A tale proposito sollecita un accompagnamento graduale delle persone ferite, considerando che noi uomini conosciamo, amiamo e compiamo il bene secondo tappe crescenti; è questa la legge della gradualità che – avverte Papa Francesco, citando il suo predecessore San Giovanni Paolo II – non va in alcun modo confusa con la gradualità della legge, come se si dessero vari gradi e forme di precetto nella legge divina per persone e situazioni diverse. La legge della gradualità o cammino graduale, invece, riguarda persone che, al momento, non sono in grado di comprendere, apprezzare e praticare pienamente le esigenze oggettive della legge (Amoris laetitia, n. 295). Si tratta comunque di un «discernimento che non potrà mai prescindere dalle esigenze di verità e di carità del Vangelo proposte dalla Chiesa» (Amoris laetitia, n. 300). E quindi né rigorismo dottrinale né lassismo sconsiderato o prassi avulsa dalla verità (cfr. Amoris laetitia, nn. 2, 3 e 300).
Una strada che poi va considerata con più attenzione – e deve entrare maggiormente nella pastorale ordinaria (in Diocesi vi è un sacerdote a cui fare previo riferimento) – è ricorrere al Tribunale ecclesiastico per verificare se vi siano capi di nullità nel vincolo matrimoniale in sofferenza.
Con il motu proprio Mitis Iudex Dominus Iesus il Papa ha voluto dare un forte segnale in tale senso, introducendo una forma processuale denominata brevior per cui, in determinate situazioni, è possibile accedere ad una procedura più snella, seppur giudiziale, per verificare in tempi più rapidi l’eventuale nullità matrimoniale. E tutto questo per essere sempre più una Chiesa vicina alle sofferenze e alle ferite delle persone.
Rimane sempre valido, poi, l’invito – quasi un appello – rivolto dal Papa ai fedeli in situazioni di difficoltà matrimoniale di «accostarsi con fiducia a un colloquio con i loro pastori o con laici che vivono dediti al Signore. Non sempre troveranno in essi una conferma delle proprie idee e dei propri desideri, ma sicuramente riceveranno una luce che permetterà loro di comprendere meglio quello che sta succedendo e potranno scoprire un cammino di maturazione personale» (Amoris laetitia, n. 312).
Ripropongo, di seguito, le parole con cui si conclude Amoris laetitia. Sono parole che precedono immediatamente la preghiera finale rivolta a Gesù, a Maria e a Giuseppe: «Camminiamo, famiglie, continuiamo a camminare! Quello che ci viene promesso è sempre di più. Non perdiamo la speranza a causa dei nostri limiti, ma neppure rinunciamo a cercare la pienezza di amore e di comunione che ci è stata promessa» (Amoris laetitia, n. 325).
Esprimiamo, infine, vicinanza e affetto a quanti sono provati da situazioni familiari che generano sofferenza per loro e per i loro cari; la vicinanza e l’affetto si fanno preghiera.
L’anno indetto dal Papa su Amoris laetitia chiama in causa la nostra Chiesa diocesana, le famiglie innanzitutto, e tutti coloro che animano la pastorale giovanile e familiare – nelle nostre parrocchie e collaborazioni pastorali – e a cui si chiede di diventare vero fulcro della pastorale familiare della nostra Chiesa.
Le famiglie, unite fra loro in una “rete”, si aiutino e sostengano a vicenda in un impegno comune, a differenti livelli, nel formarsi e crescere in quanto sposi, genitori ed educatori nel delicato ambito dell’affettività, in modo da poter annunciare il Vangelo della famiglia.
Risalta così tutta l’importanza di due ambiti pastorali che costituiscono snodi importanti della vita ecclesiale e che, in spirito sinodale, chiedono d’essere rivisitati:
L’anno di Amoris laetitia, come auspica Papa Francesco, possa aiutarci a rivitalizzare la vita delle comunità ecclesiali e delle famiglie per sostenere e rilanciare il loro cammino proprio nei difficili tempi che stiamo vivendo.
Carissimi, «affidiamo alla Santa Famiglia di Nazareth, in particolare a San Giuseppe sposo e padre sollecito, questo cammino […] La Vergine Maria ottenga alle famiglie di essere sempre più affascinate dall’ideale evangelico della Santa Famiglia, così da diventare fermento di nuova umanità e di una solidarietà concreta e universale» (Papa Francesco, Angelus del 27 dicembre 2020).
Dio ci accompagni sempre e trovi in noi il desiderio autentico di vivere con docilità, creatività e coraggio una reale e concreta comunione ecclesiale.
+ Francesco Moraglia, patriarca