"Venezia: fede e cultura davanti al problema ambientale" (Venezia, Ca' Dolfin - 25 novembre 2004)
25-11-2004

Venezia: fede e cultura davanti al problema ambientale

Ne parlano alla città
S. Em. Card. Angelo Scola, Patriarca di Venezia
Il Magnifico Rettore di Cà Foscari Pier Francesco Ghetti

Conduce il professor Simone Morandini

Venezia, 25 novembre 2004
Aula Magna Cà Dolfin ‘ Dorsoduro 3825

1. «Dal fondo del mare’»
«Dal fondo del mare sale una volontà che non si arrende / Quasi dovesse questa notte ancora / Raddoppiar l’ammiraglio le galere» profetava, già ai primi del Novecento, Rilke. Il verso del poeta incastonato nel bell’articolo di Vittore Branca Il lungo sogno chiamato Venezia suggerisce per noi questa sera l’improcrastinabile urgenza di un rinnovato impegno dei veneziani con il loro singolare ambiente. In maniera certo unica al mondo, a Venezia, dall’iniziale ‘miracolo’ operato da chi la fece sorgere dalle acque su su, lungo lo snodarsi dei secoli della sua storia gloriosa, fino all’attuale ruolo di città dell’umanità, di ‘calamita in Europa e nel mondo’ – come la definiva l’abate napoletano Diego Zunica -, la natura, nei suoi quattro elementi di presocratica memoria ‘ terra, aria, acqua, fuoco ‘ e la cultura han dovuto tenersi per mano.
Giovanni Paolo II nel memorabile Discorso all’Unesco all’inizio del suo pontificato disse: «La cultura è ciò per cui l’uomo in quanto uomo diventa più uomo . In questa prospettiva nessuno potrebbe negare che la fede dei veneziani sta alla radice della loro geniale interazione con l’ambiente.
Tra fede, cultura e natura si stabilisce, in tal modo, uno scambio vitale, in cui il ruolo di protagonista appartiene soprattutto al popolo ‘ vero soggetto sia della religione che della cultura .
Quale è la modalità con cui il popolo che vive a Venezia è oggi chiamato ad affrontare il problema ambientale? Rispondere non da tecnici ‘ ed io non lo sono – a questa domanda esige, da parte di ciascuno di noi, di mettere in campo direttamente la propria testimonianza. Qui ci limitiamo a richiamare qualche necessaria affermazione di fondo che possa orientare l’autoesposizione personale dei cristiani ma non solo, base sicura anche per i saperi scientifici implicati interdisciplinariamente nel tema.

2. Uomo ed ambiente
Nella Sacra Scrittura l’ambiente in cui l’uomo ha visto la luce viene descritto nei termini di un giardino (in greco parádeisos), un luogo di bellezza, in cui egli viveva armonicamente i propri rapporti costitutivi con Dio e con tutti gli altri esseri che popolavano il cosmo (nel giardino dell’Eden «Dio scendeva a conversare con loro nella brezza del giorno», Gn 3, 8). Del resto i racconti delle diverse culture sulle origini ripropongono questo tema con impressionanti analogie. Basti – come esempio – un rapidissimo riferimento ad un caposaldo della nostra cultura occidentale. Nel VII Libro dell’Odissea Ulisse è ospitato nel giardino di Alcinoo e questo segna il suo rientro nel kosmos della civiltà dopo il kaos delle sue drammatiche avventure di esule. Il giardino di Alcinoo è profezia di Itaca, la dimora, il luogo e l’ambiente sicuro dei suoi legami costitutivi.
La necessaria metanoia oggi richiesta all’uomo nel suo rapporto con l’ambiente domanda più che mai quel che Husserl urgeva dall’uomo contemporaneo: un ritorno alla realtà in se stessa.
Il rapporto con l’ambiente, infatti, appartiene all’esperienza umana elementare. Occorre riconoscere che «la relazione dell’uomo con il mondo è un elemento costitutivo dell’identità umana. Si tratta di una relazione che nasce come frutto del rapporto, ancora più profondo, dell’uomo con Dio» . A nessuno verrebbe in mente anche solo di poterne prescindere. Tuttavia – come purtroppo succede per molti altri aspetti decisivi dell’esperienza umana elementare ‘ normalmente noi ne diamo per scontate le ragioni fino a smarrirle.
In cosa consiste la decisività dell’ambiente per l’uomo e la famiglia umana? Per rispondere a questo interrogativo in termini generali è sufficiente rifarsi a due dati essenziali.
Anzitutto si deve riconoscere che il legame tra ogni uomo ed il popolo cui egli inevitabilmente appartiene passa attraverso la terra. Si trova qui la radice ultima dell’attaccamento alla patria (la terra dei padri), in tanto comunità umana, in quanto concreta ‘geografia’ e quindi geopolitica. Molto su questo avremmo da imparare da chi vive in prima persona il dramma dell’emigrazione. In proposito occorre evitare rimozioni e censure sugli insegnamenti che ci provengono dalla storia dell’emigrazione veneta.
Il secondo dato emerge da quella che è un’evidenza assodata per tutti: ‘lavorare la terra’ ha costituito e tuttora costituisce la forma elementare, ultimamente ancor oggi originaria – e quindi in un certo senso paradigmatica – di ogni altra forma di ‘lavoro’. E la coltura si collega da sempre al culto e alla cultura.
Se affrontato in questa duplice prospetiva di ‘terra’ e del ‘lavorare la terra’, l’ambiente in cui egli vive offre all’uomo copiose possibilità per la sua crescita e maturazione.
Sinteticamente questi due dati potrebbero anche essere definiti con le due dimensioni con cui l’ambiente è vissuto all’interno dell’umana esperienza. In quest’ottica Giovanni Paolo II ha parlato dell’ambiente come casa e dell’ambiente come risorsa . Questi due termini dicono il valore dell’ambiente per l’uomo. Quando la tecnologia, l’economia e la politica smarriscono questo concreto orizzonte perdono di umiltà. E se si staccano dalla ‘terra’ (umiltà viene da humus) cadono inesorabilmente nell”ideologia’. Allora l’ambiente come risorsa minaccia l’ambiente come ‘casa’.
Per non cadere in bucolici sentimentalismi può essere utile rifarsi brevemente alla visione biblica del problema.

3. Il rapporto col creato: fecondo travaglio
Quando si tratta di problema ambientale il primo fondamentale dato che la rivelazione cristiana mette in evidenza riguarda l’origine dell’ambiente e il rapporto che con esso intrattengono gli uomini.
Giovanni Paolo II, nell’enciclica Centesimus Annus, pone la questione in termini squisitamente antropologici: «L’uomo, preso dal desiderio di avere e di godere, più che di essere e di crescere, consuma in maniera eccessiva e disordinata le risorse della terra e la sua stessa vita. Alla radice dell’insensata distruzione dell’ambiente naturale c’è un errore antropologico, purtroppo diffuso nel nostro tempo. L’uomo, che scopre la sua capacità di trasformare e, in un certo senso, di creare il mondo col proprio lavoro, dimentica che questo si svolge sempre sulla base della prima originaria donazione delle cose da parte di Dio. Egli pensa di poter disporre arbitrariamente della terra, assoggettandola senza riserve alla sua volontà, come se essa non avesse una propria forma ed una destinazione anteriore datale da Dio, che l’uomo può, sì, sviluppare, ma non deve tradire. Invece di svolgere il suo ruolo di collaboratore di Dio nell’opera della creazione, l’uomo si sostituisce a Dio e così finisce col provocare la ribellione della natura, piuttosto tiranneggiata che governata da lui» . Per la visione cristiana questo atteggiamento dell’uomo non è senza relazione con il peccato. Tuttavia la stessa Rivelazione, con realismo, senza mai dimenticare il principio della responsabilità personale, assume anche la relazione uomo-ambiente nella prospettiva della redenzione. La morte e risurrezione di Gesù inaugura un nuovo stadio (Eone). In esso il rapporto anche spazio-temporale tra l’uomo ed il cosmo sta sotto la cifra del ‘travaglio’. Doloroso, ma vitale, perché positivo, destinato al bene della vita. Il nostro ‘ riguarda ognuno di noi nella quotidiana responsabilità di affrontare la vita non esteticamente ma eticamente (Kierkegaard), come ‘caso serio’ – è un travaglio anzitutto antropologico che investe però, come dice il celeberrimo passaggio di Paolo ai Romani, tutta la creazione (ktisis): «La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità – non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa – e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sapppiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. Poiché nella speranza noi siamo stati salvati» (Rm 8, 19-24).
Travaglio antropologico e travaglio cosmologico sono così uniti nella prospettiva escatologica che ci è sempre imminente. Allora nella parusia del Cristo scenderà la nuova Gerusalemme (cfr. Ap 21) a trasfigurare nella nostra personale risurrezione il nostro corpo mortale, microcosmo dei cieli nuovi e della terra nuova.
Questa articolata e concreta visione dell’esistenza che costituisce l’esperienza di ogni cristiano permette di evitare alla radice ‘ almeno in linea di principio ‘ due gravi rischi che comprometterebbero pesantemente il rapporto uomo-ambiente.
Da una parte quello di un antropocentrismo esasperato che fa dell’uomo il padrone assoluto del creato. Sappiamo che nella sua prima versione, quella che gli studiosi denominano poema dei sette giorni (cfr. Gn 1, 31 – 2, 3), il racconto biblico della creazione ha proprio la forma di un comando dato all’uomo: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra» (Gn 1, 28). È nota la critica rivolta dal pensiero ecologista a tale orientamento antropocentrico che sta alla base della cultura occidentale: «La tradizione biblica avrebbe generato l’opposizione tra uomo e natura per il solo fatto di affermare la precedenza dell’uomo sul creato. Inoltre la tradizione ebraico-cristiana avrebbe operato un originario ‘disincanto del mondo’ (Max Weber) enfatizzando la divinità di Dio e la sua trascendenza e secolarizzando l’universo, ridotto a semplice terra di conquista, abbandonata alla cupidigia dell’uomo. Il monoteismo ebraico-cristiano sarebbe stato funzionale agli interessi umani nei confronti della natura, servendo da garante teologico dell’esasperato antropocentrismo della concezione biblica» .
Non possiamo ora entrare nel dettaglio della risposta a tale critica tanto più che, per evitare una lettura unilaterale del passaggio genesiaco in questione in chiave antropocentrista, è sufficiente il riferimento al ‘secondo racconto’ della creazione (cfr. Gn 2, 41-3, 24, in cui l’insegnamento biblico sul rapporto dell’uomo con il creato viene così formulato: «il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse» (Gn 2, 15). Come nel primo caso, anche qui si deve riconoscere che i protagonisti del rapporto uomo-creato non sono semplicemente due ‘ la comunità degli uomini ed il creato ‘ ma tre. Tanto nella ‘versione del comando’ che in questa seconda descrizione dell’azione divina nei confronti delle sue creature, il Creatore non cede il suo ruolo di protagonista garante. Anzi il testo biblico mi sembra marcare con forza il fatto che è Lui la sorgente del rapporto tra l’uomo e il creato, Colui che li mette in relazione. In questa prospettiva qualsiasi pretesa antropocentrista viene radicalmente ridimensionata.
Questo non significa, tuttavia, che sia necessario accettare un biocentrismo o ecocentrismo che si proponga di «eliminare la differenza ontologica e assiologia tra l’uomo e gli altri essere viventi, considerando la biosfera come un’unità biotica di valore indifferenziato. Si viene così ad eliminare la superiore responsabilità dell’uomo in favore di una considerazione egualitaristica della ‘dignità’ di tutti gli esseri viventi» . La critica all’antropocentrismo, in questo senso, non può condurre ad un’assolutizzazione del creato che lo sovrapponga in dignità alla stessa persona umana .
Riguardo al rapporto tra l’uomo e la natura una singolare suggestione ha sempre esercitato sugli uomini di ogni tempo e di ogni luogo la figura di Francesco di Assisi. Ma forse proprio per l’enorme popolarità della sua figura, il grande Santo è stato vittima di innumerevoli riduzioni ideologiche, spesso proprio nel senso indicato dal Papa nel giudizio appena menzionato.
In un tanto acuto quanto dimenticato breve saggio sulla figura di san Francesco, l’arguto scrittore inglese Chesterton fa giustizia di queste riduzioni. Vi cito solo uno dei tanti gustosi passaggi in tal senso: «L’amore divino aveva tratto in vividi colori, ad una ad una, tutte le sue creature (‘) Francesco fu perfettamente l’opposto di un panteista. Non disse sua ‘Madre’ la natura, ma chiamò ‘fratello’ un determinato somaro e ‘sorella’ una certa passeretta (‘) ogni cosa sarebbe stata in primo piano alla luce della ribalta e avrebbe avuto un proprio carattere» .

4. Un dono elargito alla ‘comunità degli uomini’
Quando si tratta di illuminare il rapporto uomo-creato con la luce della rivelazione, occorre tener conto di un altro fattore fondamentale dell’antropologia che ha la sua radice nella visione genesiaca. Mi riferisco alla necessità di pensare tale rapporto a partire dall’essenziale dimensione comunitaria dell’esistenza umana.
Infatti l’interlocutore del Creatore, Adamo, non è semplicemente un individuo, ma il capostipite dell’umanità. Questo ci aiuta a comprendere che il rapporto individuo-comunità, una delle tre insuperabili polarità costitutive dell’umana natura, è parte integrante di un adeguato discorso sull’uomo e, quindi, sul suo nesso con il creato.
Non è questa la sede per esprimere un giudizio sulla cultura egemonica dell’Occidente opulento. Mi limito a ribadire che con la parola ‘cultura’ qui mi riferisco alla modalità concreta con cui gli uomini e le donne del nostro tempo affrontano la loro vita, nella duplice dimensione degli affetti e del lavoro, ritmata da un sano riposo. E questo va inserito nel tumultuoso processo di mescolamento di popoli che è ormai ampiamente in atto. Talvolta non sarebbe esagerato parlare di ‘individualismo nazionalista’, senza per questo nulla togliere al valore della nazione.
Ai fini della nostra riflessione basti ricordare che questo dato essenziale impone in primo luogo di riconoscere che il creato-ambiente è un bene comune e universale, che l’impegno verso l’ambiente si estende non solo alle esigenze del presente ma anche a quelle del futuro e che, in forza di questi due fattori, la responsabilità verso il creato deve trovare adeguate traduzioni a livello etico e giuridico .

5. Una questione ‘educativa’
Ma sarebbe del tutto ingenuo ed irrealistico affidare solo alle legislazioni nazionali e internazionali la responsabilità primaria in tema di salvaguardia dell’ambiente. Quello di un adeguato rapporto uomo-ambiente è in primis un problema educativo.
Anzitutto, infatti, si tratta di restituire l’esperienza umana elementare alla sua integralità, recuperando uno sguardo limpido su tutta la realtà. Uno sguardo capace di ricevere con meraviglia la sorpresa naturale del creato.
È urgente che l’attuale ‘superuomo tecnologico’ ritrovi la capacità di cogliere la bellezza del creato per poter intravedere la gloria di Dio che i cieli narrano (cfr. Sal 18). Questo sguardo domanda una capacità di distanza che sappia riconoscere nel creato l’impronta inafferrabile del Creatore che ne è anche il Redentore. Qui sta la possibilità di possederlo veramente. Come in ogni esperienza affettiva anche in questo caso il vero possesso avviene solo se si attua nel distacco. Basti pensare il Vangelo sui gigli del campo e sugli uccelli dell’aria (cfr. Mt 6, 26-30).
Afferma con perspicacia von Balthasar: «Se Tommaso poteva contrassegnare l’essere come ‘una certa luce’ per l’ente, questa luce non si spegnerà là dove si è disimparato il linguaggio della luce stessa [quello della bellezza] e non si lascia più che il mistero dell’essere esprima se stesso? Ciò che avanza è solo una porzione di esistenza che per quanto, come spirito, pretenda attribuirsi anche una certa libertà, rimane tuttavia completamente oscura e incomprensibile a se stessa. La testimonianza dell’essere diventa incredibile per colui il quale non riesce più a cogliere il bello» .
L’altra evidente prova che la questione del rapporto tra l’uomo e l’ambiente è eminentemente educativa sta nel fatto che essa richiede l’impegno morale dell’uomo. Lo esige soprattutto una corretta concezione dello sviluppo, attenta all’uso degli elementi, alla rinnovabilità delle risorse e alle conseguenze di una industrializzazione disordinata .
Questa dimensione ‘morale’ è ben evidenziata dalla formulazione genesiaca «perché lo coltivasse e lo custodisse» (Gn 2, 15), ove emergono i due binari fondamentali su cui corre il rapporto tra la comunità degli uomini ed il creato: il lavoro e la cura. Decisiva la prospettiva unitaria con cui procede il testo biblico. Coltivare e custodire il creato non sono attività separate, successive e tanto meno alternative! Costituiscono due dimensioni intrinsecamente connesse dell’unico rapporto tra la comunità degli uomini e il creato così come il Creatore l’ha voluto .
Occorre quindi riconoscere che «i gravi problemi ecologici richiedono un effettivo cambiamento di mentalità che induca ad adottare nuovi stili di vita» . Altrove ho approfondito un poco questo importante tema . Qui mi limito a richiamare che un autentico stile di vita deve esprimere in modo integrale l’esperienza elementare dell’uomo che è uno di anima/corpo, uomo/donna, individuo/comunità. Perciò deve partire dall’insieme dei diritti/doveri che garantiscano la vita buona ed un tempo personale e sociale armonizzata da un buon governo. In questo contesto non si può separare la vigile attenzione all’ambiente dalla promozione integrale della vita del singolo uomo dal concepimento alla morte naturale.

6. Dio Padre «tutto in tutti» (1Cor 15, 28)
Esposti in modo assolutamente rapsodico questi principi offerti dalla Rivelazione cristiana, sarebbe ora necessario mettere mano all’elaborazione dei criteri di giudizio e delle direttive di azione per il presente veneziano in merito al rapporto uomo-ambiente .
Mi limito a ribadire, a mo’ di enunciato, quanto vado ripetendo ormai da tempo: evitiamo che i problemi ecologici e democrafici di Venezia (e non sono propri solo del centro storico e della laguna!) generino una emergenza antropologica.
Questo compito non potrà essere adeguatamente svolto senza un ampio dibattito morale, sociale, culturale, economico e politico che porti a quel compromesso nobile (cum-promitto) che ha veramente a cuore il bene comune. L’impresa è tutt’altro che semplice . Non si può infatti dimenticare che affrontare questa delicata incombenza «richiede di elaborare modelli complessi e integrati fra le scienze dell’uomo e quelle dell’ambiente fisico e biologico. L’ambiente fisico e biologico non costituisce più una variabile indipendente rispetto ai comportamenti dell’uomo politico, economico e sociale» .
«L’universo è un inno meravigliosamente composto» . Questa convinzione di San Gregorio di Nissa è portatrice di una pace cosmica. Non è irenismo a buon mercato perché, come abbiamo visto, impone alla responsabilità della comunità degli uomini di farsi carico delle contraddizioni che essa stessa suscita in rapporto al creato. L’impegno testimoniale del cristiano con l’ambiente procede però dalla speranza certa che la venuta finale del Regno ‘ che non a caso la liturgia ci richiama in questi giorni anche con duri toni apocalittici – consiste nel ritorno (parusia) di Colui che ha «ricapitolato in sé tutte le cose» (cfr. Ef 1, 10) perché alla fine «Dio sia tutto in tutti» (1Cor 15, 28).