«Tu mi guardi dalla croce». Cristo destino dell'uomo Intervento del Patriarca card. Angelo Scola
Belluno, 3 aprile 2004
03-04-2004

«Tu mi guardi dalla croce»
Cristo destino dell’uomo

Belluno, 3 aprile 2004

Angelo Card. Scola
Patriarca di Venezia

1. «Dammi il cuor»
«Tu mi guardi dalla croce/questa sera mio Signor,/ed intanto la tua voce/mi sussurra: ‘Dammi il cuor’».
Lo sguardo serenamente stravolto del Redentore dipinto dall’Angelico ci rivolge dalla Croce, con la melodia di Mozart, questo singolare invito: «Dammi il cuor». Cioè, dammi tutto te stesso. Cos’è, infatti, il cuore, se non il centro del mio io? Il luogo del bisogno-desiderio che mi costituisce, destato in ogni istante dalla realtà che lo urge ad un continuo coinvolgimento? Il cuore è l’autentica molla di ogni mio atto di libertà. Il sussurro del Volto crocifisso (la tua voce mi sussurra) ci sorprende questa sera.
Ma un crocifisso non è uno sconfitto? Come può rivolgermi una richiesta così ardita?
Tanto più che il mio cuore, come quello di ogni uomo, è attraversato dall’insopprimibile inquietudine di cui parla Sant’Agostino.
«Vivo come un uomo scacciato dalla propria personalità più profonda e nello stesso tempo condannato ad indagarla fino in fondo» . Così, fin dalla prima battuta messa sulle labbra del suo Adamo, uno dei protagonisti di Raggi di paternità, Karol Wojtyla individua questo dramma costitutivo del cuore di ogni uomo. Ognuno di noi si percepisce lontano da sé («scacciato dalla propria personalità») e contemporaneamente presso di sé («condannato ad indagarla a fondo»). E questa inquietudine che attraversa ogni nostro istante è generata da una tensione essenziale. Il nostro essere uno di due poli. Uno di anima e di corpo. Ci duole un dente (corpo) e subito diventiamo melanconici (spirito). Siamo uno come uomo e come donna: fin dalla nascita, anzi, fin dal concepimento ‘ ne diveniamo coscienti in età matura ‘ questo orizzonte costitutivo della nostra sfera affettiva (il rapporto uomo/donna) ci esalta e ci tende, simultaneamente (inquietudine). Infine siamo uno di individuo e di comunità. In ogni atto siamo inesorabilmente bisognosi di dire Io per non dissolverci e, nello stesso tempo, siamo immersi nella rete plurale dei rapporti che sono per noi vita, certo, ma sempre anche prova.
Cosa può dire un Crocifisso sconfitto agli occhi del mondo ad un cuore, cioè ad un io strutturalmente inquieto e ancor più ‘ se è possibile ‘ provato dalla complessità contraddittoria del contesto socio-culturale in cui oggi siamo chiamati ad affrontare il talora faticoso ‘mestiere di vivere’? Un Crocifisso si rivolge ad un cuore inquieto’ non è l’incontro di due problemi, la somma di due negativi? Cosa può mai venirne di buono?
Eppure, per quanto possa essere alienato dal proprio cuore – cioè dal centro del proprio io – l’uomo deve sempre fare i conti con la domanda delle domande che, come l’erba selvaggia a primavera sbuca anche dal più fitto cumulo di detriti. È genialmente espressa dal Leopardi nel Pastore errante dell’Asia: «Ed io che sono?» . Cosa cerca questa domanda? Insegue affannosamente quella pace in cui il nostro inquietum cor possa infine trovare riposo. «Quando uno dorme male domanda e non sa che cosa. Vorrebbe domandare eternamente, non dormire significa domandare; se uno avesse la risposta, dormirebbe» (Kafka).
Perché allora non accettare l’invito amoroso che da duemila anni irresistibile promana da quell’Uomo singolare che si è lasciato drizzare sul palo ignominioso della croce. Da duemila anni schiere di uomini, ma soprattutto intere generazioni dei nostri padri, hanno risposto positivamente al sussurro dell’Uomo della croce. Forse sul Golgota si è aperto un crinale perché l’inestirpabile domanda del Leopardi, che si agita sul fondo del nostro cuore ‘ «Ed io che sono?» ‘ trovi risposta.
Il Santo Padre, nel Messaggio indirizzato ai giovani in occasione della Giornata Mondiale della Gioventù che si svolgerà domani, cita un episodio della vita di Gesù con i suoi amici, impressionante nella sua potente semplicità. Lo racconta l’evangelista Giovanni: «Tra quelli che erano saliti per adorare durante la festa c’erano alcuni Greci. Essi abbordarono Filippo, quello di Betsaida di Galilea, e gli chiesero: ‘Signore, vogliamo vedere Gesù’. Filippo va a dirlo ad Andrea. Andrea e Filippo vanno a dirlo a Gesù» (Gv 12,20-22). Il desiderio di quei greci suscita una sorta di ‘reazione a catena’ nella comunicazione: da Filippo, ad Andrea, da questi due, insieme, a Gesù. La trama stessa dei rapporti tra gli uomini è, in un certo senso, messa in moto dal desiderio di vedere Gesù, di vedere il volto di Dio. «L’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente: quando verrò e vedrò il volto di Dio?» (Sal 41,3).
«Vogliamo vedere Gesù». In questa ‘pretesa’ ci riconosciamo anche noi tutti questa sera. E non solo perché essa legge il più profondo desiderio del nostro cuore, ma soprattutto perché è un primo timido tentativo di risposta al grido rivoltoci dall’amato Vescovo Vincenzo che di recente, invitandomi a tenere questa meditazione, mi aveva scritto: «Il nostro mondo, quello che abbiamo chiamato la città, come può essere raggiunto e quasi colpito dall’annuncio di Gesù, che l’inchiesta socio-religiosa ha documentato così dolorosamente lontano? C’è un sentiero per entrare in questa città con il nome di Gesù?»
È questa dolorosa lontananza che il sussurro del Sacro Volto insanguinato vuol colmare. È un sussurro, cioè una delicata proposta rivolta direttamente al tuo cuore. Non c’è forzatura, non c’è violenza, non c’è potere in questa voce: anzi, c’è impotenza, svuotamento, che sono però un’estenuata offerta. La domanda dei greci che si rivolsero a Filippo diventa allora la nostra domanda: ‘Vogliamo vederti, Gesù’. Può essere la prima risposta al suo invito: «Dammi il cuor».
Com’è possibile realizzare questo desiderio? Qual è la strada per riconoscere e vedere Gesù? «Per vedere Gesù occorre appunto lasciarsi guardare da Lui» ci risponde deciso e inequivocabile il Papa, commentando il brano giovanneo. E, in questo modo, ci introduce nel capovolgimento di metodo che la fede cristiana ha portato in questo mondo: non più la nostra ricerca del volto di Dio, ma il Suo sguardo sul nostro volto! «Tu mi guardi dalla croce, questa sera mio Signor».
Lasciarsi guardare da Gesù: ecco la strada perché la sete del nostro cuore venga saziata, perché il desiderio che ci costituisce sia compiuto. E così nel Volto di Gesù che ci guarda prende forma il nostro volto. Ogni uomo, infatti, prende forma dallo sguardo di quell’Uomo su di lui, che chiama la sua libertà ‘ vocazione ‘ a coinvolgersi con Lui.
La tradizione della Chiesa, esperta in umanità, ha conservato gelosamente il gesto amoroso di una donna che, tra le prime, Lo ha saputo accogliere. «Veronica (la vera-icona, nda) è ignota agli evangelisti. Ma ella esiste; non è una invenzione. Non può darsi che una donna abbia resistito al desiderio di asciugare quell’orribile faccia» . (Mauriac) «Nacque il tuo nome da ciò che fissavi» . (Wojtyla) Su questa profonda intuizione il genio artistico è tornato più volte lungo la storia. Pensiamo all’indimenticabile incrociarsi di sguardi tra Adamo e il Padre, nella creazione dell’uomo di Michelangelo nella Cappella Sistina, o a quello tra Gesù e Pietro del Masaccio, o ancora a quello, intensissimo, tra Gesù e Matteo del Caravaggio. Per finire allo straordinario volto di Cristo del Beato Angelico, che non possiamo questa sera non contemplare immergendoci nello sguardo moribondo con cui il Vescovo Vincenzo l’ha voluto in solitudine indagare. La sua preghiera si fa nostra preghiera: «Tu mi guardi dalla croce».

2. «Questo cuore sempre ingrato»

Il testo completo nel file allegato