Santa Messa in occasione del 100º anniversario del ritorno dei monaci a Praglia
Abbazia Benedettina Santa Maria Assunta
26-04-2004

SANTA MESSA IN OCCASIONE DEL 100º ANNIVERSARIO DEL RITORNO DEI MONACI A PRAGLIA

SOLENNITÀ DELLA DEDICAZIONE DELLA CHIESA

ABBAZIA BENEDETTINA SANTA MARIA ASSUNTA
Praglia 26 aprile 2004

OMELIA DI S.E.R. ANGELO CARD. SCOLA, PATRIARCA DI VENEZIA

1. «Beato chi abita la Tua casa: sempre canta le Tue lodi!» (Sal 83, 5). Forse niente meglio delle parole del Salmo 83, con cui poco fa abbiamo pregato, riesce ad esprimere ciò che Padre Marino Frattin e Fra’ Antonio Cantarutti provarono, quel 26 aprile 1904, giungendo a Praglia per riprendere possesso della parte del monastero che si era riusciti a riacquistare. «Beato chi abita la Tua casa»: la promessa di beatitudine annunciata duemila fa dal Redentore ai Suoi si compiva ancora una volta nel ritorno dei monaci all’Abbazia di Santa Maria Assunta.

Eccellenza Reverendissima,
Reverendissimo Padre Abate della Congregazione Sublacense (o suo rappresentante),
Reverendissimi Padri Abati Priori e carissimi Membri della Comunità monastica,
Reverendi Sacerdoti, Fratelli e Sorelle in Cristo Signore,
Vi sono molto grato dell’invito che avete avuto la bontà di rivolgermi a presiedere questa Solenne Concelebrazione nell’anniversario del ritorno dei monaci a Praglia e in occasione della Festa della Dedicazione della Chiesa abbaziale. Posso così condividere con Voi l’azione di grazie rivolta al Padre attraverso lo Spirito di Gesù Cristo per i tanti doni che ha voluto elargire, lungo la sua secolare storia, a questa abbazia.

2. «Vidi anche la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo» (Ap 21, 2). «Come una sposa»: così l’Apocalisse descrive in estrema sintesi la Chiesa e, quindi, ogni sua espressione particolare. In un certo senso la Chiesa non può essere pensata a prescindere dalla sua natura essenzialmente femminile. Generata dal costato del Redentore, squarciato sulla Croce, attraverso l’acqua, il sangue e lo Spirito, frutto eminente della Pasqua, la Chiesa è la Sposa vergine e feconda del Signore. Essa diviene così Madre della moltitudine dei credenti, nostra madre. Nel mistero della Chiesa si attua, per la libera iniziativa della Trinità, la pienezza della cooperazione dell’umana libertà all’opera della redenzione. Siccome non c’è cooperazione senza personale e libera adesione, la Chiesa è comprensibile solo a partire dal sì di Maria Immacolata che, quale madre e ‘sposa’ del Suo Signore, ne costituisce il nucleo incandescente. Ad un tempo il suo prototipo ed il suo compimento.
La Chiesa è comunione perché a partire da Maria ‘avviene’, per l’iniziativa della grazia (Battesimo) che si intreccia alla libertà di ogni fedele. Come non vedere nel monaco, innestato nella sua comunità, l’esemplare del fedele cristiano? La vocazione monastica infatti pone con stabilità nella storia del popolo di Dio, quasi dagli albori dell’era cristiana, una convincente forma di risposta verginale al dono di grazia del Risorto. Una risposta che fa trasparire nella pienezza di vita monacale, personale e comunionale, di quanti sono chiamati, la fedeltà della promessa del Signore: «Ecco la dimora di Dio con gli uomini. Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno suo popolo ed Egli sarà il ‘Dio con loro’» (Ap 21, 3). Nel mistero inscindibile della morte e Risurrezione di Gesù Cristo il Padre si è impegnato definitivamente con gli uomini. Egli rimarrà eternamente con i Suoi figli, nulla potrà far venir meno la Sua compagnia all’uomo: «non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affano, perché le cose di prima sono passate» (Ap 21, 4).
Maria, madre perché vergine, nella sua Assunzione, mistero cui è dedicata questa vostra Chiesa abbaziale, è convincente caparra di questo indistruttibile legame del Risorto con ogni cristiano. Nella Sua morte la nostra morte, ma anche nella Sua risurrezione la nostra corporale risurrezione. Si capisce allora che popolo cristiano abbia, oggi più che mai, bisogno della vita monastica come stabile punto di riferimento della novità che Cristo ha introdotto nella storia. La vita del monaco provoca permanentemente la libertà di ogni fedele a riconoscere il porro unum necessarium. Con incomparabile forza espressiva scrive in proposito Miguel de Unamuno: «La verginità del monaco insegna all’uomo del mondo la verginità del desiderio» (Diario intimo, Quaderno 2). Cosa sarebbe del nostro popolo se non avesse la possibilità di ascoltare e vedere concretamente nella vita comune di uomini totalmente dedicati a Dio che solo il Padre sa compiere definitivamente quanto il cuore desidera? La verginità del desiderio, a cui la vostra vocazione educa, è la coscienza libera e grata che solo il possesso di Cristo soddisfa l’inquietum cor di ogni uomo.

3. Ma occorre che questa verità edifichi la vita degli uomini, occorre poterla vedere, occorre che gli uomini e le donne del nostro tempo la incontrino concretamente. «Voi siete il campo di Dio, l’edificio di Dio» (1Cor 3, 9). L’apostolo Paolo ricorda ai Corinzi la verità più profonda del loro volto. Più forte delle divisioni che possono emergere, più profonda di ogni diversità tra i membri della comunità, è la loro appartenenza comune all’edificio costruito sull’unico fondamento «che già vi si trova, che è Gesù Cristo» (1Cor 3, 11).
Così nell’edificazione della Vostra comunità non esiste urgenza più grande che il rapporto di ognuno di Voi col fondamento, col Crocifisso Risorto che Vi ha chiamati e Vi costituisce in unità come Suo Tempio. Con l’abbazia di Praglia, infatti, lo Spirito costruisce «fra le nostre case una dimora» (Prefazio). Questo santo tempio di pietre che ogni giorno e con fedeltà frequentate per l’opus Dei, è segno della verità più acuta della vostra vocazione: «in questo luogo santo, tu ci edifichi come tempio vivo e raduni e fai crescere come corpo del Signore, la Tua Chiesa diffusa nel mondo, finché raggiunga la sua pienezza nella visione di pace della città celeste, la santa Gerusalemme» (Prefazio). Essere tempio vivo in mezzo le case degli uomini: ecco in estrema sintesi la Vostra vocazione e missione, che non è altro se non quella della Chiesa.

4. Di fronte ad un tale compito è inevitabile che il cuore di ognuno di noi, in un certo senso, sia trepidante e pieno di timore. Qual è la strada per diventare un tale tempio nella storia? Questa domanda si fa più pressante alla luce delle parole di Gesù nel Vangelo appena proclamato: «è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità, perché il Padre cerca tali adoratori» (Gv 4, 23). Queste parole del Vangelo di Giovanni, lungi dal vanificare l’utilità del tempio e dell’abbazia per la missione della Chiesa di oggi, ne richiamano la vera natura. Infatti, il tempio di cui ogni uomo ed ogni donna hanno bisogno è il tempio vivo formato da coloro che sono stati rigenerati dallo Spirito. Solo chi è stato rigenerato dal dono dello Spirito nel battesimo può adorare il Padre in spirito e verità. E può farlo perché è stato reso ‘figlio nel Figlio’ Gesù Cristo, perché è stato incorporato al Suo Corpo che è la Chiesa e può, in Cristo, rivolgersi a Dio col nome di Padre.
La vita dell’abbazia a partire dalla stabilitas, se capace di sapiente fedeltà alla traditio, testimonia in modo convincente questa nuova parentela inaugurata dal Crocifisso risorto.
Affetti, lavoro e riposo esaltano la libertà del monaco per due ragioni. Anzitutto perché il monaco si lascia plasmare dalla comunione come dono a priori dell’uno all’altro. Non perché il confratello mi corrisponde lo scelgo, ma riconosco, in obbedienza al disegno di un Padre, che chiunque mi è dato mi corrisponde. Al di là del suo e del mio temperamento, al di là della sua e mia fragilità, perfino se mi diventa nemico, se mi è dato è per il mio bene. Su questa base, che trasfigura verginalmente gli affetti della carne e del sangue, l’amore rigenera l’io nel quotidiano, rendendolo capace di edificazione, cioè di lavoro. Ed il riposo stesso, ove il ritmo della libertà e perciò del desiderio è stimolato, diventa privilegiato fattore di equilibrio tra affetti e lavoro. Non è di questo che le donne e gli uomini di oggi hanno bisogno? E non è precisamente questo amore, ad un tempo verginale e nuziale, questa capacità di lavoro edificatore, questo riposo veramente rigenerativo che la stabilitas del monastero propone allo sguardo assetato e confuso dell’odierna umanità?
Spes unica in reditu. I cento anni del ritorno a Praglia si attualizzano così nel ritorno dell’ora et labora fecondo e missionario della vostra comunità, per diventare segno efficace (quasi sacramento) di quel progressivo ritorno al Padre che è la nostra vita. Ritorno come compimento, come riuscita di ciascuno ove la stessa morte corporale diviene il luogo dell’abbraccio della Trinità.
La vita monastica, paradigma privilegiato della vita cristiana, anticipa allora la vita eterna, la Gerusalemme celeste, il seno della Trinità che già ospita l’Umanità santissima di Gesù Cristo Risorto e della Sua Beatissima Madre, in attesa che, per la misericordia di Dio, i nostri corpi mortali si rivestano di immortalità. Amen.