Saluto del Patriarca al Convegno “Pena, recupero, riparazione. Fatiche degli operatori ed impegno sociale” (Zelarino - Centro pastorale Card. Urbani, 13 febbraio 2019)
13-02-2019

Convegno “Pena, recupero, riparazione. Fatiche degli operatori ed impegno sociale”

(Zelarino / Centro pastorale Card. Urbani, 13 febbraio 2019)

Saluto del Patriarca Francesco Moraglia

 

 

Saluto i presenti e ringrazio gli organizzatori,

il mio intervento mi permette di tornare a riflettere su un tema che, da qualche tempo, è per me occasione di confronto, approfondimento e che, d’altro canto, risulta sempre più come esplicitazione delicata e fondamentale nella concezione della giustizia e della sua amministrazione.

Il legame tra pena, recupero e riparazione è presente già nel titolo dell’incontro odierno. Sappiamo bene, infatti, che la pena non è erogata innanzitutto per scoraggiare il condannato o semplicemente per punire, ma per ristabilire una giustizia violata e, quindi, pure per redimere-rieducare il colpevole.

Il valore della pena (e la sua dimensione) va collegato, quindi, ad un bene comune più grande, che parte dal bene delle singole persone e della comunità e non è mai una mera sommatoria di beni individuali.

Una giustizia che sia realmente tale è, certo, una giustizia che sa anche punire, in quanto ciò appare opportuno e salutare nei confronti di chi ha commesso uno o più reati e ha danneggiato le persone e la comunità. Allo stesso tempo, però, uno Stato – quando esercita tale funzione – deve riflettere anche su tutte le conseguenze, iniziando ad esempio col chiedersi “dove” il condannato sconterà la pena e “come” la sconterà.

Sapete meglio di me – sono qui presenti molti uomini e donne di diritto –  che l’articolo 27 della Costituzione parla della pena come una sorta di “via” educativa – o, meglio, rieducativa – e anche l’articolo 13 afferma l’inviolabilità della libertà personale e la punizione di ogni forma di violenza fisica e morale sulle persone sottoposte a restrizioni della libertà.

Ecco allora la necessità di riaffermare un fatto: a tutti – sì, veramente a tutti – deve stare a cuore che la giustizia sia realmente equilibrata e adeguata al caso concreto; che non sia, per usare un linguaggio accessibile a tutti, né buonista né crudele perché in entrambi i casi sarebbe ingiusta, ossia non-giustizia.

Sorgono, così, immediatamente, le domande conseguenti, implicite o sottointese anche nelle finalità di questo Convegno – “Pena, recupero, riparazione. Fatiche degli operatori ed impegno sociale” -, ossia: a quale sistema penitenziario consegniamo il condannato? Che cammino gli stiamo prospettando? Si tratta di un vero cammino di accompagnamento ed educazione?

In questo ambito entrano in funzione i molteplici strumenti previsti dal vigente ordinamento giuridico, dagli sconti di pena alla detenzione domiciliare, dall’affidamento in prova ai servizi sociali alla semidetenzione e alla libertà controllata, sempre da inglobare in questo contesto e cammino.

In precedenti occasioni ho avuto modo di soffermarmi sul rapporto tra giustizia e misericordia ma, anche senza scomodare il tema – per noi cristiani decisivo – della misericordia, va da sé l’importanza di perseguire una giustizia realmente “umana”, aperta all’uomo concreto, sul quale è chiamata a decidere.

Credo si possa tutti pacificamente convenire sul fatto che una giustizia “umana”, vera e buona, non può certamente consegnare colui che è stato giustamente condannato ad un sistema penitenziario non dignitoso della persona o lesivo dei suoi diritti e, di conseguenza, privarlo del fondamentale cammino educativo; in tal modo – ne siamo tutti convinti, credo – si realizzerebbe piuttosto una reale ingiustizia.

C’è poi anche un passo ulteriore da compiere. La pena deve essere certa e commisurata al reato, ma deve sempre tener conto che la persona non va costretta nel suo passato, anche criminale, e va considerata sempre come una persona chiamata a responsabilità. Di fronte ad un reato commesso bisogna, insomma, prenderne atto e fare – come singoli e come società – un cammino di progressiva maturazione che garantisca la sicurezza delle persone e della collettività, appunto la certezza della pena e anche la dignità di chi ha sbagliato e che può venire lentamente aiutato a capire l’errore fatto.

È perciò importante che l’espiazione diventi anche rieducazione della persona, che la giustizia trovi dei reali profili “riparativi”, sappia aprire e non chiudere strade “riparative”; è il vero investimento che la società può fare non accontentandosi di una sentenza, anche passata in giudicato, ma aprendo un percorso in cui non si tralascia la pena, non si trascurano mai le vittime e le esigenze loro (o dei loro familiari) ma ci si prende cura del colpevole.

Lo Stato, dunque, deve garantire la pena ma avere, nello stesso tempo, uno sguardo rieducativo più ampio che significa dare alla persona una responsabilità più grande. Col passare del tempo gli uomini possono anche indurirsi nel male ma è altrettanto realistico immaginare e concretamente verificare che ci siano delle persone che sanno fare un cammino inverso. Non tutti i condannati – anche a pene importanti – sono uguali; alcuni, anche se non tutti, iniziano un reale cammino di presa di coscienza e, conseguentemente, di distanza dal proprio passato criminale.

E per questo lo Stato – proprio perché è Stato – garantendo in modo reale e obiettivo la certezza della pena e tutelando i diritti violati delle vittime, deve rimanere aperto ad una possibilità di riparazione e rieducazione.

“Proprio i tempi e i modi in cui la giustizia viene amministrata toccano la carne viva delle persone – lo ricordava pochi giorni fa Papa Francesco ai magistrati italiani –, soprattutto di quelle più indigenti, e lasciano in essa segni di sollievo e consolazione, oppure ferite di oblio e di discriminazione. Pertanto, nel vostro prezioso compito di discernimento e di giudizio, cercate sempre di rispettare la dignità di ogni persona… La giustizia che amministrate diventi sempre più “inclusiva”, attenta agli ultimi e alla loro integrazione: infatti, dovendo dare ad ognuno quanto gli spetta, non può dimenticare l’estrema debolezza che riveste la vita di tanti e ne influenza le scelte…” (Papa Francesco, Discorso all’Associazione Nazionale Magistrati, 9 febbraio 2019).

Infine, sono lieto che – in questo contesto e nel nostro territorio veneziano e triveneto – avvenga la presentazione di quel testo atteso che è il documento base “Per una pastorale della giustizia penale”.

Si tratta di un testo “collettivo”, non solo perché frutto di più mani, ma perché offre elementi di riflessione e strumenti di lavoro a tutti colore che vivono e lavorano in questo settore. E poi perché richiama e racconta l’opera quotidiano della nostra Chiesa italiana in questo ambito; è l’impegno e il frutto di tante persone – i cappellani, innanzitutto, e poi i tanti operatori e volontari, consacrati, consacrate e laici – che vogliamo qui pubblicamente ringraziare per il servizio all’uomo e al bene comune che rendono ogni giorno alla società civile, al nostro Paese.