S. Messa per le ordinazioni presbiterali
(Venezia / Basilica della Madonna della Salute, 27 giugno 2020)
Omelia del Patriarca Francesco Moraglia
Carissimi don Augusto e don Daniele,
oggi, con vera gioia, celebriamo nel Santuario di Santa Maria della Salute la liturgia della vostra ordinazione presbiterale.
La Basilica della Salute è, dal 1817, Cappella del Seminario Patriarcale; i preti veneziani degli ultimi duecento anni si sono formati sotto lo sguardo materno di Colei che ha salvato la città, nel 1630, dalla pandemia che provocò la morte di metà della popolazione. I fatti e gli eventi, molte volte, si ripetono.
Il grazie che oggi diciamo, come Chiesa che è in Venezia, è rivolto innanzitutto al Padre che è nei cieli – è da Lui, infatti, che proviene ogni paternità – e poi ai vostri genitori che, nel piano di Dio, sono coloro che hanno espresso la divina genitorialità. Desidero, inoltre, ringraziare tutte le comunità e le persone che, in modi differenti, ma con amore e passione, vi hanno accompagnato a questo giorno che, per sempre, cambierà la vostra vita.
Ringrazio anche le persone che, sparse in tutto il mondo e delle più svariate condizioni, soprattutto umili, pregano ogni giorno per le “sante vocazioni”: i loro volti sono noti solo al Padrone della messe, ma sono realtà preziosissima!
Carissimi neopresbiteri, il momento che state vivendo vi riguarda personalmente ma è e rimane, soprattutto, un momento di Chiesa. Il sacerdozio ordinato è dato alla persona non per sé, ma per il bene della Chiesa universale che si realizza nella Chiesa particolare e dell’intera umanità.
Il Concilio Vaticano II insegna che il sacerdozio di Cristo riguarda tutto il popolo di Dio eppure si realizza in modalità differenti. “Nostro Signore Gesù… – leggiamo nella Presbyterorum Ordinis – ha reso partecipe tutto il suo corpo mistico di quella unzione dello Spirito che egli ha ricevuto: in esso, infatti, tutti i fedeli formano un sacerdozio santo e regale…. Ma lo stesso Signore, affinché i fedeli fossero uniti in un corpo solo, di cui però «non tutte le membra hanno la stessa funzione» (Rm 12,4), promosse alcuni di loro come ministri, in modo che nel seno della società dei fedeli avessero la sacra potestà dell’ordine per offrire il sacrificio e perdonare i peccati, e che in nome di Cristo svolgessero per gli uomini in forma ufficiale la funzione sacerdotale” (Concilio Ecumenico Vaticano II, Decreto Presbyterorum Ordinis, n.2).
La Chiesa non è soltanto una comunità ma è un corpo, con un capo e delle membra differenti fra loro, e, per questo, il compaginarsi della famiglia umana in un solo corpo realizza la missione sacerdotale.
Di fronte al dono di due preti, la nostra Chiesa oggi si sente particolarmente amata dal Padre ed è Lui, il Padrone della messe, il solo che può mandare operai a prendersi cura di quanto Lui stesso, il Padrone del campo, ha seminato e continua a seminare silenziosamente.
Carissimi, lasciamoci guidare dalla liturgia della Chiesa e, in particolare, dalla preghiera della colletta con cui abbiamo iniziato questa celebrazione: “Signore nostro Dio, che guidi il popolo cristiano con il ministero dei sacerdoti, concedi a questi diaconi della tua Chiesa, eletti al ministero presbiterale, di perseverare nel servizio della tua volontà, perché nella vita e nella missione pastorale cerchino unicamente la tua gloria”. Bisogna perseverare cercando unicamente la gloria di Dio, non di se stessi.
Carissimi don Augusto e don Daniele, siete chiamati – come abbiamo appena ascoltato – a guidare l’intero popolo di Dio, al quale sarete mandati, servendolo. Sì, vi viene richiesto di guidare il popolo servendo o, se preferite, di servirlo guidandolo.
La preghiera della colletta parla di “ministero” sacerdotale, ovvero di “servizio”, perché “ministero” è sinonimo di “servizio” e, quindi, rimanda al “servo”. Il prete è servo, non è un signore; non è padrone di nulla e di nessuno.
La preghiera, però, sottolinea anche che Dio è la guida del popolo cristiano attraverso i sacerdoti. Guidare e servire stanno insieme; ecco perché, insieme alla “stola”, il prete deve sempre portare con sé il “grembiule” della lavanda dei piedi che non è solo un indumento liturgico che s’indossa il Giovedì santo ma ogni giorno.
Gesù ci domanda di ragionare non secondo la logica del mondo, perché tale modo di pensare è incompatibile – ossia “non sta insieme” – con la logica del Vangelo.
Secondo la logica del mondo o si serve o si guida. Qui, invece, le due cose stanno insieme e questo ci ricorda che il prete non può essere rinchiuso in logiche e criteri mondani. Comprendere il prete, allora, vuol dire andare oltre la logica del mondo e questo non dovrebbe stupire più di tanto, se non gli ingenui. Guidare è sempre un servizio delicato, perché si ripercuote in bene o in male su tutta la Chiesa che è il sacramento – ossia il segno efficace – di Cristo, il suo corpo.
Rimane vivo, per ogni battezzato, e in particolare per i ministri ordinati – diaconi, presbiteri, vescovi -, quanto Gesù ha detto e l’evangelista Giovanni riporta nei discorsi dell’ultima cena: “Non prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li custodisca dal Maligno. Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. Consacrali nella verità. La tua parola è verità. Come tu hai mandato me nel mondo, anche io ho mandato loro nel mondo; per loro io consacro me stesso, perché siano anch’essi consacrati nella verità” (Gv 17,15-19).
Il testo giovanneo ruota attorno a Gesù, agli apostoli, alla loro missione, al mondo, al Maligno e alla Verità per la quale Gesù consacra se stesso; la verità, talvolta, è la cosa più scomoda che si possa dare ma anche quella di cui abbiamo più bisogno. Il dialogo col mondo è essenziale, è parte dello stesso annuncio cristiano; deve essere però “vero” dialogo, come già insegnava il Papa san Paolo VI nell’enciclica Ecclesiam Suam.
Desidero allora richiamare quello che san Paolo VI scriveva nell’enciclica Ecclesiam Suam, perché possiate sempre più discernere il dialogo, che è testimonianza ed annunzio, rispetto a ciò che, invece, è solo, un parlare fine a se stesso.
Si tratta, per la Chiesa, d’essere fedele al mandato ricevuto, ossia, in grado di poter “dire” e poter “dare” Colui che, per la Chiesa, è il Salvatore, la gioia, la verità e l’amore, Colui che solo è in grado di dare senso alla vita di ogni uomo. Noi, nel dialogo, dobbiamo annunciare Gesù; fa parte del dialogo anche pregare per le persone con cui si dialoga.
Scriveva san Paolo VI: “Se la Chiesa acquista sempre più chiara coscienza di sé, e se essa cerca di modellare se stessa secondo il tipo che Cristo le propone, avviene che la Chiesa si distingue profondamente dall’ambiente umano, in cui essa pur vive, o a cui essa si avvicina” (Paolo VI, Lettera enciclica Ecclesiam Suam, n. 60).
È il Vangelo ad evidenziare la differenza fra la logica del mondo e la logica di Gesù. Di fatto, gli uomini o si illudono pensando che, con le loro sole forze, potranno essere in grado di salvarsi oppure, di fronte ai propri vizi e peccati, finiscono per cadere nello scoramento e nel pessimismo; altre volte, invece, reagiscono considerando i loro vizi e peccati come inguaribili o, addirittura, arrivano a celebrarli come se esprimessero una maggiore autenticità e più grande libertà!
Alla luce di quanto detto, è opportuno chiedersi come oggi, nel necessario dialogo col mondo, sia possibile essere – come chiede Papa Francesco – ponti che uniscono e non muri che separano, rimanendo fedeli al mandato ricevuto dagli apostoli: “Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato” (Mc 16,15-16).
Un dialogo, che voglia essere serio ed onesto, mira a far in modo che gli interlocutori comprendano gli uni le posizioni degli altri, trovino un’intesa o spieghino con amabilità le proprie diverse posizioni per giungere – quando possibile – ad una verità condivisa che potrà essere ripresa, rimodulata e ripensata secondo una più grande fedeltà al Vangelo e sempre più approfondita per andare insieme verso una verità – che è più grande di me e del mio interlocutore – al momento magari non ancora raggiunta ma, presto, conseguibile.
Gesù, nel discorso della missione, dopo aver nominati uno ad uno i Dodici – il ministero è sempre personale -, consegna loro una sorta di “carta dell’apostolato”, ne cito un passo e chiedo a voi, carissimi Augusto e Daniele che oggi entrate in modo nuovo a far parte della successione apostolica, di meditare frequentemente il capitolo decimo del Vangelo di Matteo perché il contatto vivo e quotidiano con la Parola di Dio – letta nella Chiesa e con la Chiesa – diventa, insieme alla vita di presbiterio e alla preghiera messa a fondamento della vostra vita, il modo per mantenere vivo e gioioso il vostro sacerdozio che ricevete per la Chiesa e non per voi.
Dice Gesù: “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date (e gratuitamente vuol dire non cercare il successo nè dominare l’altro). Non procuratevi oro né argento né denaro nelle vostre cinture, né sacca da viaggio, né due tuniche, né sandali, né bastone, perché chi lavora ha diritto al suo nutrimento. In qualunque città o villaggio entriate, domandate chi là sia degno e rimanetevi finché non sarete partiti. Entrando nella casa, rivolgetele il saluto. Se quella casa ne è degna, la vostra pace scenda su di essa; ma se non ne è degna, la vostra pace ritorni a voi. Se qualcuno poi non vi accoglie e non dà ascolto alle vostre parole, uscite da quella casa o da quella città e scuotete la polvere dei vostri piedi” (Mt 10, 8-14). Gesù se ne intendeva di pastorale, più di tanti centri attuali di pastorale…
L’apostolo è mandato a testimoniare, annunciare, predicare e ha coscienza d’essere – nella sua persona – umile collaboratore della verità (cfr. 3 Gv 1,8); nello stesso tempo sa di non poter esser più del suo maestro (cfr. Mt 10, 24). Talvolta, invece, si rischia di insegnare a Gesù Cristo come si fa ad essere Gesù Cristo!
Cosa vuol dire, allora, vivere la novità del Vangelo? Cosa vuol dire essere guide sagge? Raccogliere l’invito alla conversione, intesa non solo come qualcosa che riguarda la vita morale ma anche quella intellettuale e spirituale. Per il discepolo non è vero, non è reale, non è possibile solo quello che appare tale, ma anche quello che è vero, reale e possibile per la rivelazione cristiana e che si mostra tale nella Parola di Dio.
È necessario dire a noi, e a quanti a noi si rivolgono, che la conversione non è qualcosa di automatico ma qualcosa che cresce, si arricchisce e approfondisce con la vita, le sue prove, le sue sfide, le sue gioie.
Fratelli e sorelle della Chiesa che è in Venezia, innalziamo insieme il ringraziamento ed anche la nostra supplica alla divina Misericordia: per l’intercessione di Maria – modello di vita evangelica ed apostolica, dalle cui mani passa ogni grazia – nel cuore di questi nostri cari sacerdoti novelli e di tutti gli altri, che portano il peso di una fatica apostolica che si prolunga negli anni, siano custoditi i grandi doni del Signore: la pace, il fervore, la dolcezza, la fraternità sacerdotale, l’ardente carità pastorale, la comunione ecclesiale, il servizio quotidiano ai poveri.
Perché con la buona dottrina, offerta con carità, sia dato nutrimento al popolo di Dio; con la buona testimonianza di una vita umile e povera siano elargiti sostegno e conforto; con la celebrazione credente dei divini Misteri cresca il vero tempio di Dio che è la santa Chiesa: le persone, soprattutto i più fragili, i bambini, gli adolescenti, gli anziani che ci vengono affidati.
E, oggi, che inizia il viaggio del vostro ministero presbiterale, nella valigia, riponete con amore la “stola” per la celebrazione e il “grembiule” per la lavanda dei piedi, usando tutte e due ogni giorno, vivrete in pienezza il dono che oggi ricevete.
La Vergine della Salute, che ha vegliato su di voi in questi anni di formazione al sacerdozio, sempre vi accompagni.
Carissimi don Augusto e don Daniele, buon viaggio!