Predicazione del Patriarca all'incontro ecumenico di preghiera nella Chiesa valdese (Venezia/Palazzo Cavagnis, 18 gennaio 2015)
18-01-2015
Incontro ecumenico di preghiera nella Chiesa valdese
(Venezia/Palazzo Cavagnis, 18 gennaio 2015)
 
Predicazione del Patriarca mons. Francesco Moraglia
Carissimi fratelli e sorelle,
desidero ringraziare prima di tutto la comunità valdese e metodista ed in particolare la sua pastora Caterina Griffante per l’invito a tenere questa predicazione. La considero una vera grazia del Signore.
Spero con l’aiuto dello Spirito che l’ascolto comune della Parola di Dio segni un momento di crescita in vista della piena comunione che è dono che solo Dio può concedere e che noi dobbiamo invocare attraverso la comune conversione.
            All’inizio della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani vorrei partire da alcune parole attuali e urgenti, sia per la nostra vita personale sia per quella delle nostre comunità.
Sono le parole che la pastora Caterina considerava prioritarie assumendo il suo servizio pastorale: “Gesù Cristo, risurrezione, salvezza per sola grazia. Parole – precisava – che non siamo più capaci d’intendere nella loro forza originaria, ma che sono il centro e il perno della nostra vita”. In esse ritroviamo il cuore del cristianesimo: “Gesù”, “risurrezione”, “salvezza per sola grazia”.
Subito dopo segue l’amara constatazione, ossia la fatica ad intendere nella loro forza e nella loro realtà originaria queste parole: “Gesù”, la sua “risurrezione” e la sua salvezza offerta “per sola grazia”, doni che dobbiamo porre sempre e di nuovo al centro della nostra vita di fede.
Non percepirli più come fondanti la nostra vita significa aver smarrito il significato di cosa voglia dire esser uomini e donne salvati dal puro dono di Dio e, per usare un’espressione cara a papa Francesco, dalla tenerezza di Dio.
            La tenerezza di Dio non è vocabolo astratto, un vuoto nome privo di consistenza, ma piuttosto quella espressione che ci ricorda la realtà più vera, più bella e che, nello stesso momento, fonda ogni altra realtà, come ci ricorda l’evangelista Giovanni nella sua prima lettera: “Dio è Amore” (cfr. 1Gv 4, 8.16).
Al di fuori di “Gesù”,della sua “risurrezione” e della “salvezza per sola grazia” noi miniamo la stessa fede cristiana che, appunto, si fonda su Gesù, la risurrezione e la salvezza per pura grazia.
            Qui abbiamo il nucleo ineludibile e vincolante del buon annuncio; qui abbiamo l’evangelo cristiano che, seppur in modo sempre nuovo, siamo chiamati ad accogliere nella fede e a proclamare dinanzi al mondo prendendo le distanze da ogni sapere umano e dai poteri del mondo. Si tratta, con le mani nude e i piedi scalzi, di diventare puro strumento della grazia.
            Ciò che conta, allora, è la “dotta ignoranza” che appartiene a chi sperimenta, nella vita, la forza della grazia e che si manifesta, in modo pieno, nella Parola crocifissa, ossia nella via crucis che sempre è, anche, via resurrectionis.
            Siamo chiamati a guardare al sì di Maria, alla sua pura fede, alla sua totale obbedienza e lode a Dio; Maria è la prima discepola e la prima credente, la cui fede guarda e prende la forma dalle promesse del Regno ed è attesa di liberazione per i poveri (v. il canto del Magnificat).
Nella sua Dogmatica ecclesiale uno dei massimi teologici del XX secolo, il pastore riformato svizzero Karl Barth, scrive: “Il tema, la fonte e il contenuto del messaggio che la comunità cristiana riceve e proclama è essenzialmente il libero atto della fedeltà di Dio che, in Gesù Cristo, assume la causa perduta dell’uomo (il quale avendo negato il proprio creatore ha precipitato se stesso, sua creatura, nella perdizione) e la conduce a buon fine, affermando e manifestando così la sua gloria nel mondo” (Karl Barth, Dogmatica ecclesiale, IV/1; tesi del § 571).
Qui siamo condotti nel mistero di Dio, ovvero il mistero della sapienza cristiana; qui ritroviamo la dimensione irrinunciabile dell’essere cristiani: “il libero atto della fedeltà di Dio che, in Gesù Cristo, assume la causa perduta dell’uomo…”. Ed è esattamente quanto evoca la triade: “Gesù”, “risurrezione” e “salvezza per sola grazia”.
Tale pensiero – tratto dalla opera fondamentale di Barth, Dogmatica ecclesiale – ci introduce bene nel dialogo fra Gesù e la samaritana al pozzo di Sicar (cfr. Gv 4,1-42). La pericope ci è proposta in occasione della “Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani” di quest’anno.
            Si tratta, appunto, del lungo dialogo di Gesù con la donna giunta al pozzo nell’ora più calda del giorno; la samaritana esprime il nostro modo di pensare, di parlare, di essere e di vivere.
In lei, però, le parole di Gesù mettono in crisi le sue false sicurezze e incoerenze; così, gradualmente, poco alla volta, nel cuore della donna tutto viene riconsiderato alla luce della parola di Dio che risuona sulle labbra di Gesù. E, in tal modo, in lei tutto viene rivisitato a partire dalla pura Parola che Gesù le rivolge.
Alcuni temi possono aiutarci in questo nostro incontro che ci vede coinvolti, perché tutti – seppure in modi diversi – siamo la donna di Samaria che con la sua storia, le sue ferite, le sue attese e il suo bisogno di salvezza si reca al pozzo di Sicar.
            Tutti portiamo, dentro di noi, molto della donna che va al pozzo, quasi di nascosto, a mezzogiorno, nell’ora più calda della giornata, quando nessuno vi si reca; è, infatti, l’ora in cui si preferisce stare a casa propria al riparo dai raggi roventi del sole. E invece questa donna, proprio in quel momento, va al pozzo.
            Ci va a quell’ora forse per non essere vista, per non incontrare nessuno, perché è una donna ferita da una storia che non le è stata favorevole, che l’ha condotta dove forse ella non voleva andare, dove non ha saputo o potuto dire di no. D’altra parte, oggi, quante donne – a motivo di una società troppo maschilista – si trovano nella situazione di quella donna di Samaria di duemila anni fa.
Incontriamo questa donna mentre va al pozzo con le sue attese ma ignara di chi la sta aspettando. La grazia di Dio sorprende sempre!
Ascoltiamo allora, di nuovo, quei versetti che – possiamo dire – riassumono l’intera pericope: “Intanto una donna della Samaria viene al pozzo a prendere acqua. Gesù le dice: «Dammi un po’ d’acqua da bere» (…). Risponde la donna: «Perché tu che vieni dalla Giudea chiedi da bere a me che sono Samaritana?» (Si sa che i Giudei non hanno buoni rapporti con i Samaritani). Gesù le dice: «Tu non sai chi è che ti ha chiesto da bere e non sai che cosa Dio può darti per mezzo di lui. Se tu lo sapessi, saresti tu a chiederglielo, ed egli ti darebbe acqua viva»” (Gv 4,7.9-10).
Qui, in Gesù, si dà un superamento delle idee religiose allora vigenti e vincolanti. E il testo risulta attualissimo. Gesù, infatti, si rivolge a una donna – sì, una donna! – e in più ad una donna che appartiene a un stirpe diversa dalla sua – sì, ad una razza diversa! -; si tratta di una donna samaritana, mentre Gesù è giudeo, e quindi di un’etnia che ha tradito l’alleanza mosaica; si tratta di un gruppo di eretici.
 E’, quindi, una donna di sangue diverso, che appartiene a un gruppo ereticale e che vive una situazione matrimoniale complicata: “Le disse Gesù: “Hai detto bene ‘non ho marito’; infatti hai avuto cinque mariti e quello che tu ora hai non è tuo marito; in questo hai detto il vero…” (Gv 4, 18).
Qui, Gesù si pone come dono per tutti, nessuno è escluso; in Lui, veramente, Dio si dona oltre la logica umana, oltre i saperi umani e oltre il potere degli uomini. Così, soltanto l’incontro con Gesù può segnare l’inizio di un nuovo cammino, un cammino che dischiude la via della salvezza.
 Poco alla volta, infatti, la donna samaritana percepisce il suo bisogno d’esser salvata, un bisogno che solo progressivamente scopre, aprendosi a quanto Gesù le dice. Poco alla volta, per pura grazia, coglie la chiamata di Dio che le viene donata. Solo l’incontro con Gesù ha la forza di abbattere, in lei e in noi, le barriere del peccato e ogni resistenza che deriva da esso.
Ma ritorniamo a quei versetti che abbiamo posto all’inizio della predicazione, perché – rileggendoli – possiamo comprendere che la logica umana viene “sopraffatta” dalla grazia che previene, accompagna e compie il sì dell’uomo conducendolo alla salvezza.
“Una donna della Samaria viene al pozzo a prendere acqua. Gesù le dice: «Dammi un po’ d’acqua da bere» (…). Risponde la donna: «Perché tu che vieni dalla Giudea chiedi da bere a me che sono Samaritana?» (Si sa che i Giudei non hanno buoni rapporti con i Samaritani). Gesù le dice: «Tu non sai chi è che ti ha chiesto da bere e non sai che cosa Dio può darti per mezzo di lui. Se tu lo sapessi, saresti tu a chiederglielo, ed egli ti darebbe acqua viva»” (Gv 4,7. 9-10).
Mentre il colloquio procede, Gesù parla di un nuovo culto, di un culto diverso da quello che si innalza dal monte Garizim e da Gerusalemme, un culto che si celebra nell’adorazione e che solamente lo Spirito sarà in grado di suscitare e sarà celebrato nel vero tempio, il corpo di Gesù Cristo crocifisso e risorto.
Durante questo dialogo, aprendosi alla pura grazia, la donna di Samaria diventa testimone e annunciatrice del dono ricevuto; il Vangelo si trasmette per irradiazione, è annuncio da persona a persona, un annuncio che avviene a tu per tu.
E l’evangelista annota: “Molti Samaritani di quella città credettero in Lui per la parola della donna, che testimoniava: «Mi ha detto tutto quello che ho fatto» (sappiamo, infatti che i samaritani avevano l’idea di un Messia con la caratteristica di rivelare le cose nascoste). E quando i Samaritani giunsero da lui, lo pregavano di rimanere da loro ed egli rimase là due giorni. Molti di più credettero per la Sua parola e alla donna dicevano: «Non è più per i tuoi discorsi che noi crediamo, ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo»” (Gv 4,39-42).
Riflettiamo su questo passo nel cammino ecumenico: siamo chiamati fare la nostra parte, poi è Lui che salva.
Riascoltiamo e custodiamo questa Parola nel nostro cuore affinché – come ci ha ricordato Karl Barth – dopo esser stata accolta dalla comunità possa germogliare in essa e possa entrare in ogni situazione di smarrimento, di fragilità e di timore dell’uomo: “Il tema, la fonte e il contenuto del messaggio che la comunità cristiana riceve e proclama è essenzialmente il libero atto della fedeltà di Dio che, in Gesù Cristo, assume la causa perduta dell’uomo (il quale avendo negato il proprio creatore ha precipitato se stesso, sua creatura, nella perdizione) e la conduce a buon fine, affermando e manifestando così la sua gloria nel mondo” (Karl Barth, Dogmatica ecclesiale, IV/1; tesi del § 571).
Lo Spirito Santo ci aiuti a fare nostre queste parole.