Pellegrinaggio a Roma nell'Anno della Fede / Omelia durante la Liturgia della Parola nella basilica di S. Paolo fuori le Mura (7 settembre 2013)
07-09-2013
Pellegrinaggio a Roma nell’Anno della Fede
 
Liturgia della Parola
nella basilica di S. Paolo fuori le Mura (7 settembre 2013)
 
Omelia del Patriarca mons. Francesco Moraglia
Siamo oggi nella grande basilica di S. Paolo e domani saremo nella grande basilica di S. Pietro. Pietro e Paolo, i due apostoli della città di Roma.
S. Ireneo, vescovo di Lione, ad un certo punto nei suoi scritti dice: ‘Ho conosciuto Policarpo, vescovo martire, il quale era stato educato dagli apostoli’. La testimonianza di Ireneo è molto antica ed è sempre molto importante perché, pur morendo nell’attuale Francia, è considerato un testimone dell’Oriente e dell’Occidente e, quindi, di tutta la Chiesa antica.
Ireneo dice di Roma che è una Chiesa è fondata e costituita da due gloriosissimi apostoli: Pietro e Paolo. Questi due apostoli non debbono essere visti e considerati come antagonisti, in alternativa l’uno all’altro, in opposizione l’uno all’altro. Pietro e Paolo, con i loro carismi particolari ed anche con le loro vocazioni differenti all’interno della Chiesa, sono entrambi al servizio dell’unica Chiesa: Pietro rappresenta il fondamento della Chiesa, Paolo ne esprime soprattutto la missionarietà.
La Chiesa è questa realtà viva, vivente, voluta da Gesù e che dovrà dire fino alla fine dei tempi un’unica cosa, un’unica realtà: Gesù è il Salvatore del mondo! Ecco la trasmissione della fede apostolica, l’ansia missionaria. Non è che Pietro non fosse missionario, ma incarna soprattutto questa realtà di fondazione. Paolo cercherà sempre la sua legittimazione ecclesiale ma con quella propensione ad andare ad annunciare il Vangelo dove il Vangelo non era ancora stato annunciato.
Paolo – ci soffermiamo soprattutto su di lui adesso – ha incontrato Gesù Cristo sulla via di Damasco e non tralascerà mai occasione per ricordare che lui il Vangelo non l’ha ricevuto da un altro uomo, ma direttamente dal Signore. Ma il punto su cui vorrei attirare la nostra attenzione è questo: nonostante questo fatto – che il Vangelo lo abbia ricevuto dal Signore, e non dagli uomini o dagli altri apostoli – Paolo vuole, desidera e persegue un radicamento ecclesiale, ha bisogno di una conferma ecclesiale; il Vangelo lo ha ricevuto direttamente dal Signore ma andrà in un certo momento ad incontrare Pietro.
Paolo esprime quest’ansia missionaria, questo rapporto personale con il Signore, ma anche – insieme e sempre – un fortissimo bisogno di conferma ecclesiale e il desiderio di un riconoscimento del suo ministero. Andrà perciò a Gerusalemme per confrontarsi con le colonne della Chiesa. E il secondo capitolo della lettera ai Galati ribadisce proprio questo ricordo e assume poi, sempre nello stesso testo, un valore particolarissimo il cosiddetto ‘incidente di Antiochia’.
Scrive Paolo ai Galati: ‘Ma quando Cefa venne ad Antiochia, mi opposi a lui a viso aperto perché aveva torto. Infatti, prima che giungessero alcuni da parte di Giacomo, egli prendeva cibo insieme ai pagani; ma, dopo la loro venuta, cominciò a evitarli e a tenersi in disparte, per timore dei circoncisi’ (Gal 2, 11-12).
L’opposizione fra Pietro e Paolo – come è descritta da Paolo nella lettera ai Galati – non riguarda affermazioni dottrinali ma la mancanza di coerenza di Pietro che, di fronte ai giudeo-cristiani, fatica ad osservare quanto era stato stabilito dal Concilio di Gerusalemme in merito.
Paolo non contesta l’autorità di Pietro, il magistero di Pietro, l’insegnamento di Pietro, ma la debolezza di Pietro, la sua fragilità umana: in quel frangente, Pietro ebbe paura. E allora in questo ‘incidente di Antiochia’ abbiamo l’affermazione ulteriore del primato di Pietro. Basta leggere gli Atti degli Apostoli per vedere come la grande decisione di aprirsi ai pagani non è di Paolo ma è di Pietro. Basta leggere gli Atti degli Apostoli e vedere lì, in atto, l’epifania – la manifestazione – della guida di Pietro.
Vi preannuncio già che, a compimento dell’Anno della Fede, vi arriverà una lettera pastorale proprio sugli Atti degli Apostoli e che vuole proprio esprimere gli inizi della fede, gli esordi della vita della Chiesa; vedremo la figura di Pietro e quella di Paolo, parleremo di tante cose che ci possono aiutare anche oggi, rifacendoci alla Chiesa degli Apostoli, a vivere bene la continuazione dell’Anno della Fede.
Paolo, allora, non contesta il ruolo, il carisma, l’ufficio, il compito dell’apostolo Pietro ma la debolezza umana e la fragilità che in quel momento Pietro aveva manifestato. Eppure Paolo – lo ripeto – è preoccupato di confrontarsi con Cefa, racconta che va a Gerusalemme per incontrarlo e con lui vi sono anche Giacomo e Giovanni; la sua preoccupazione era quella di non correre invano.
Concludo questa nostra meditazione su un punto che vorrei lasciare a me, ai miei confratelli nel sacerdozio e a voi; riguarda proprio la situazione degli evangelizzatori, dei missionari, di coloro che sono chiamati ad annunciare la parola di Dio perché per me, per i miei confratelli e per voi è facile perdersi nelle cose di poco conto o parlare di cose di cui sarebbe meglio non parlare. La fragilità di Pietro è anche la fragilità nostra; la fragilità di Pietro è anche la nostra possibile fragilità di  apostoli e di evangelizzatori, ognuno ha le sue fragilità.
La cosa su cui vorrei richiamarci è proprio questa: la conclusione del libro degli Atti degli apostoli con la prigionia di Paolo qui a Roma, a poca distanza da questo luogo. Paolo ha dato la testimonianza ultima del martirio – siamo nel capitolo 28 degli Atti degli Apostoli e si accenna anche a questo nella lettera pastorale che vi sarà consegnata alla fine dell’Anno della Fede e di cui vi anticipo qualcosa – e Paolo sta vivendo un momento difficile, a causa della sua dolorosa vicenda processuale. E’, potremo dire, agli arresti domiciliari.
Questa situazione è lo sfondo della chiusura degli Atti degli apostoli e questo messaggio, sottointeso al termine della vicenda terrena di Paolo, è molto chiaro e vorrei fosse considerato da noi con particolare attenzione in questo pellegrinaggio nell’Anno della Fede. Il messaggio di Cristo, l’annuncio del Vangelo, non è mai qualcosa di indolore: comporta sempre un pagare di persona. Paolo, infatti, chiude la sua testimonianza non come uomo libero ma come prigioniero, a motivo del Vangelo.
La sua è una testimonianza in catene e, fino alla fine, Paolo constaterà quanto il Signore gli aveva preannunziato attraverso Anania quando, sbalzato da terra sulla strada che portava a Damasco, diventa cieco e, soccorso, gli viene indicata una persona che lo aiuterà e gli farà muovere i primi passi nell’ambito della fede cristiana.
Anania crede di andare ad incontrare un persecutore, ma Dio spiega e dice ad Anania di andare da Paolo: «Va’, perché egli è lo strumento che ho scelto per me, affinché porti il mio nome dinanzi alle nazioni, ai re e ai figli d’Israele; e io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome» (At 9, 15-16).
Fintanto che l’evangelizzatore e l’apostolo – evangelizzatori ed apostoli sono innanzitutto i genitori cristiani, il papà e la mamma, i catechisti, i sacerdoti e i parroci in modo particolare, i vescovi, i papi – non entrano in questa logica del pagare di persona, non avranno uno sguardo essenziale su Gesù Cristo e si perderanno su cose inutili.
La grandezza di Paolo, allora, la dobbiamo misurare anche dalla sua sofferenza per il Vangelo, soprattutto dalla sua sofferenza per il Vangelo. E, allora, io plaudo a chi ha scelto le letture per questo incontro sulla parola di Dio perché sia nel profeta Isaia che negli Atti degli Apostoli e nel Vangelo di Luca esce fuori questa costante: la sofferenza per il Vangelo.
Il profeta Isaia viene inviato ma purificato dolorosamente attraverso il carbone acceso che purifica le labbra, il cuore e la mente perché veda l’essenziale della sua missione. Lo stesso troviamo negli Atti degli Apostoli, parlando di Paolo, e lo stesso abbiamo ascoltato nel Vangelo di Luca.  
Ripensiamo a quella frase di Paolo nella lettera ai Filippesi: ”riguardo a Cristo, a voi è stata data la grazia non solo di credere in lui, ma anche di soffrire per lui’ (Fil 1, 29). Soffrire per il Vangelo: vuol dire essere strumenti efficaci, non culturalmente idonei, non simpaticamente umani, ma efficaci annunciatori della parola del Vangelo. Ripeto: a voi è stata data la grazia non solo di credere ma anche di soffrire per il Vangelo.
E gli Atti si chiudono – come dicevo – consegnandoci l’immagine dell’apostolo Paolo tutto dedito all’annuncio missionario e che, fino alla fine della vita, fa l’esperienza gioiosa nel vedere che ci sono persone che accolgono il Vangelo e l’esperienza dolorosa nel continuare a vedere che ci sono persone – e ci saranno sempre nella nostra vita di evangelizzatori e di missionari – che rifiutano il Vangelo.
‘Dal mattino alla sera – leggo ancora dagli Atti degli Apostoli – egli esponeva loro il regno di Dio, dando testimonianza, e cercava di convincerli riguardo a Gesù, partendo dalla legge di Mosè e dai Profeti. Alcuni erano persuasi delle cose che venivano dette, altri invece non credevano’ (At 28, 23-24).
Questa è la chiusura degli Atti degli Apostoli, questa è l’immagine ultima che ci viene consegnata di un Paolo, ‘evangelizzatore in catene’, che non smette di annunciare il Vangelo del Signore;e gioisce nel vedere chi l’accoglie e soffre, fino alla fine, nel vedere che altri, invece, non credono. Questa passione, questa logica, questo progetto di vita appartengano anche alla nostra Chiesa di Venezia e a ciascuno di noi.