Omelia per l'ordinazione presbiterale di don Alberto Vianello (Venezia, 16 giugno 2007)
16-06-2007

BASILICA PATRIARCALE DI SAN MARCO EVANGELISTA
ORDINAZIONI PRESBITERALE
Venezia, 16 giugno 2007

2Sam 12, 7-10.13, Sal 31; Gal 2, 16.19-21; Lc 7, 36 ‘ 8, 3

OMELIA DI S.E.R. CARD. ANGELO SCOLA, PATRIARCA DI VENEZIA

1. Carissimo Don Alberto, presentato dal Rettore Mons. Lucio Cilia e da tutta la Comunità seminaristica, accompagnato dalle sorelle e dai fratelli della Piccola Famiglia della Risurrezione guidata da Don Giorgio Scatto, dai fedeli delle parrocchie e dalla variegata comunità del Marango, dai familiari, dagli amici e da tutta la comunità diocesana del Patriarcato che oggi Ti fa corona, sei giunto qui, in questa Basilica dove si raccoglie la storia millenaria della nostra Chiesa, per aderire definitivamente alla voce del Signore che Ti chiama, mediante il sacramento dell’Ordine, ad una specifica «partecipazione nel sacerdozio e nel lavoro apostolico del vescovo» (Lumen gentium 28).
Il radicale carattere di dono dell’Ordine che stai per ricevere è ben espresso dalle parole pronunciate poco fa dal Patriarca: «Con l’aiuto di Dio e Gesù Cristo nostro Salvatore noi scegliamo questo figlio per l’ordine del Presbiterato». Nessuno può scegliersi da sé. Ogni presbitero lo sa: la sua vocazione e la sua missione scaturiscono dalla chiamata del Signore Gesù, che per la potenza dello Spirito, in questo modo edifica la Sua Chiesa.

2. Ad approfondire la natura di dono del gesto sacramentale che stiamo celebrando ci aiutano in modo efficace le letture dell’odierna liturgia.
Chi non si commuove ogni volta davanti all’intensità con cui San Luca racconta l’incontro della donna peccatrice con Gesù? «Venne con un vasetto di olio profumato; e stando dietro, presso i suoi piedi, piangendo cominciò a bagnarli di lacrime, poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di olio profumato». È un succedersi di gesti che esprimono il desiderio di colmare e guarire il proprio cuore e, nello stesso tempo, l’amore pieno di gratitudine di chi percepisce con stupore che nonostante la sua miseria non solo non viene rifiutato, ma viene abbracciato dalla misericordia prima ancora che venga pronunciata una sola parola.
La casa del fariseo diventa, così, in forza della presenza misericordiosa di Gesù, una dimora in cui ogni uomo è certo di trovare Chi può lenire le proprie colpe. Dimora di misericordia è anche la comunità cristiana che, in modo paradigmatico ‘ cioè come un segno particolare dato per favorire la memoria di tutti ‘ vive nella realtà del monastero. Infatti la stabilità del monastero, che si edifica sul fondamento dell’obbedienza cordiale ad un hic et nunc particolari, trova il suo respiro nell’orizzonte universale della Chiesa. Il popolo di Dio non esiste perché possano sorgere monasteri, ma sono questi ‘ in quanto espressioni concrete di diversi carismi elargiti dallo Spirito ‘ che nascono per rivitalizzare e rigenerare l’intero popolo di Dio. Nella storia della Chiesa i monasteri sono sempre stati luoghi ‘medicinali’ per eccellenza, luoghi di accoglienza soprattutto dei feriti tentati di disperare della propria guarigione. Non mancano pagine della tradizione spirituale e letteraria che con grande forza espressiva descrivono la potenza medicinale della dimora monastica. Come quando l’abate del Miguel Mañara di Milosz dice al cavaliere penitente: «Sei venuto. Sei qui. E tutto va bene».
La dimora della Piccola Famiglia della Risurrezione è stata donata alla nostra Chiesa locale quale dimora di misericordia. Autentica cura materna per introdurre ed accompagnare, secondo i ritmi che l’incontro tra la grazia di Dio e la libertà degli uomini detta persona per persona, all’appartenenza ecclesiale, alla vita della famiglia dei figli di Dio. Come ci insegna proprio la grande tradizione monastica, la misericordia non fa sconti, non teme di «predicare e annunciare la buona novella del Regno di Dio» (Vangelo) senza ridurre minimamente la portata della fede e delle sue esigenze morali che, anche quando sono dure, sono sempre in favore della verità del cuore dell’uomo.

3. Il racconto evangelico prosegue riportando i pensieri di Simone, il fariseo: «Se costui fosse un profeta, saprebbe chi e che specie di donna è colei che lo tocca: è una peccatrice».
È un giudizio durissimo di condanna: Gesù non potrebbe essere l’Inviato da Dio perché non rispetta le norme di purità-impurità che esprimerebbero il rapporto di alleanza con il Signore. Un giudizio che nasce dalla pretesa di sapere fino in fondo chi è Dio e di dominare il rapporto con Lui, l’alleanza. Non è difficile scorgere il nesso oggettivo tra questo passaggio di Luca e la polemica paolina sulle opere della legge, a cui si è riferita la Seconda Lettura.
Tuttavia Gesù risponde con un preciso insegnamento sullo scopo stesso della profezia. Nulla come il perdono dei peccati manifesta la presenza di Dio in mezzo al Suo popolo; nulla rivela il cuore del Padre come l’abbraccio incondizionato nei confronti degli uomini peccatori. «Ho peccato contro il Signore» afferma Davide. «Il Signore ha perdonato’ non morirai», replica Natan.
Caro Don Alberto, quale ministro del sacramento della riconciliazione sei chiamato ad essere profeta della misericordia di Dio nel mondo. Qui è la sorgente di ogni denuncia del male e di ogni possibilità di cambiamento.
Come diventerebbero più veri i rapporti all’interno della comunità cristiana se fossimo più pronti a confessare il nostro peccato e nell’invocare il perdono del Signore!

4. Ma non c’è autentica profezia senza testimonianza, se uno non si espone in prima persona, come documentano, anche ai nostri giorni, i non pochi martiri cristiani. Come dice, senza mezzi termini, la Lettera ai Galati parlando di Gesù Cristo che «mi ha amato e ha dato se stesso per me». Il prezzo della profezia è la consegna totale della propria vita. L’espressione di Paolo richiama il linguaggio con cui i Vangeli ci parlano della Passione del Signore: non un semplice darsi, ma un vero e proprio consegnarsi. Come Giuda consegnò Gesù ai sacerdoti, e questi a Pilato, ed il governatore alle guardie perché Lo crocifiggessero. Ora è Gesù stesso a consegnarsi. Il culmine del Suo amore (mi ha amato) si rivela così nella consegna della Sua vita per me (ha dato se stesso per me).
Non ci sarà quindi profezia, né dimora di misericordia, senza consegna della vita. Anche in questo si intuisce la ragione del sacerdozio di Cristo, di cui noi siamo ministri ordinati.
Ma come possiamo noi essere capaci di una tale vertiginosa profezia? L’unica risposta che ci lascia pieni di pace è quella di Paolo: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me». Benedetto XVI a proposito di queste parole diceva a Verona: «Il mio proprio io mi viene tolto e viene inserito in un nuovo soggetto più grande, nel quale il mio io c’è di nuovo, ma trasformato, purificato, “aperto” mediante l’inserimento nell’altro, nel quale acquista il suo nuovo spazio di esistenza. Diventiamo così ‘uno in Cristo’ (Gal 3, 28), un unico soggetto nuovo, e il nostro io viene liberato dal suo isolamento. ‘Io, ma non più io’: è questa la formula dell’esistenza cristiana fondata nel Battesimo, la formula della risurrezione dentro al tempo, la formula della ‘novità’ cristiana chiamata a trasformare il mondo».
La novità della Tua vita, radicata nel Santo Battesimo, viene questa sera ulteriormente approfondita attraverso la configurazione sacramentale con Cristo Sacerdote, Capo della Chiesa: «In persona Christi capitis», dice la tradizione teologica. Una tradizione che è ben consapevole che una tale partecipazione è sempre e solo in funzione della vita del Corpo, che è la Chiesa.

5. Carissimi figli, la nostra Chiesa riceve questa sera il dono di un nuovo sacerdote. Don Alberto vivrà il suo ministero in comunione con il presbiterio diocesano e in obbedienza al Patriarca, e lo vivrà secondo il carisma della Piccola Famiglia della Risurrezione. Povertà, castità, obbedienza nel clima di silenzio e di fedeltà alla regola e, nel caso specifico del Marango, di condivisione pura a partire dai piccoli e dagli umili. E questo è un bene per ciascuno di noi, non solo per la sua comunità monastica ma per tutta la Diocesi.
Nella vocazione di Don Alberto ad essere monaco presbitero della Chiesa di Venezia abbiamo una prova singolare della bontà di Dio nei confronti della nostra comunità diocesana. La Trinità, infatti, non cessa di arricchire il popolo di doni gerarchici e carismatici perché la Chiesa lasci sempre più trasparire il volto benefico di Cristo sulle travagliate strade del nostro mondo.
La Vergine Nicopeja, ne siamo certi, intercede questa sera benigna per Don Alberto e per tutti noi. Amen.