29-09-2014
Messa solenne per la Festa di S. Michele Arcangelo
patrono di Mestre (Duomo S. Lorenzo, 29 settembre 2014)
Omelia del Patriarca Mons. Francesco Moraglia
Rivolgo un particolare saluto al parroco don Gianni Bernardi e alla comunità di San Lorenzo, al commissario straordinario Vittorio Zappalorto, agli uomini e alle donne della Polizia di Stato guidata dal Questore, al Prefetto e alle altre autorità civili e militari, ai confratelli sacerdoti, ai fedeli qui presenti e all’intera città di Mestre; a tutti l’augurio di una buona festa di San Michele.
Quest’anno guardiamo alla città che – prima d’essere un insieme di quartieri, di strade, di case – è l’intrecciarsi di relazioni umane. Si tratta di persone chiamate a entrare in relazione fra loro; in ultima istanza, possiamo dire che la città è affidata ai suoi abitanti. Essa esprime e traduce le relazioni personali destinate a diventare sociali; in fine è dal cuore dell’uomo – lì dove sorgono i pensieri e le decisioni – che si costituisce una città accogliente, ospitale, capace di solidarietà.
Ecco quanto dice, in proposito, Papa Francesco nell’Evangelii gaudium: “Come sono belle le città che superano la sfiducia malsana e integrano i differenti, e che fanno di tale integrazione un nuovo fattore di sviluppo! Come sono belle le città che, anche nel loro disegno architettonico, sono piene di spazi che collegano, mettono in relazione, favoriscono il riconoscimento dell’altro!” (Papa Francesco, Esortazione apostolica Evangelii gaudium, n. 210).
La città, quindi, esprime esteriormente ciò che l’uomo è nel suo intimo, il suo orientamento, le sue scelte che si traducono nel “comune modo di sentire” e poi in leggi, regolamenti e prassi. La città, alla fine, esprime la nostra capacità o incapacità di relazionarci; tutto parte dalle nostre scelte etiche.
La Genesi ci presenta Caino che per invidia distrugge, nel modo più radicale, la relazione fraterna. Ebbene, Caino è il fondatore della prima città: “Ora Caino conobbe sua moglie, che concepì e partorì Enoc; poi divenne costruttore di una città, che chiamò Enoc, dal nome del figlio” (Gen 4,17-18). La Genesi ci ricorda ancora come la città sia il luogo in cui si manifesta il cuore dell’uomo e, proprio nella pianura di Sinar – Babele -, l’orgoglio umano esce allo scoperto, prende forma e si sostanzia nel progetto dell’affermazione dell’ “io”, sopra ogni cosa e a qualsiasi prezzo.
“Si dissero [gli uomini] l’un l’altro: “Venite, facciamoci mattoni e cuociamoli al fuoco”. Il mattone servì loro da pietra e il bitume da malta. Poi dissero: “Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo, e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra”. Ma il Signore scese a vedere la città e la torre che i figli degli uomini stavano costruendo…” (Gen 11,3-5).
La storia sacra, però, oltre a presentarci la città come luogo in cui si afferma l’“io” egemone, ossia come luogo di prevaricazione, ci prefigura la città anche come luogo in cui si compie la salvezza. E si serve proprio della città per indicare la Gerusalemme celeste che discende dal cielo, da Dio.
L’umanità salvata e riconciliata si esprime di nuovo attraverso la città ma, questa volta, le relazioni umane appaiono serene, armoniche e pacificate. E tutto ciò che è umano, in questa città salvata, viene prima riconosciuto, poi sanato e, infine, portato a pienezza. Il testo dell’Apocalisse va inteso secondo lo stile simbolico.
“E le dodici porte sono dodici perle; ciascuna porta era formata da una sola perla. E la piazza della città è di oro puro, come cristallo trasparente. In essa non vidi alcun tempio: il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello sono il suo tempio. La città non ha bisogno della luce del sole,
né della luce della luna: la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello. Le nazioni cammineranno alla sua luce, e i re della terra a lei porteranno il loro splendore. Le sue porte non si chiuderanno mai durante il giorno, perché non vi sarà più notte. E porteranno a lei la gloria e l’onore delle nazioni. Non entrerà in essa nulla d’impuro, né chi commette orrori o falsità, ma solo quelli che sono scritti nel libro della vita dell’Agnello” (Ap 21, 21-27).
né della luce della luna: la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello. Le nazioni cammineranno alla sua luce, e i re della terra a lei porteranno il loro splendore. Le sue porte non si chiuderanno mai durante il giorno, perché non vi sarà più notte. E porteranno a lei la gloria e l’onore delle nazioni. Non entrerà in essa nulla d’impuro, né chi commette orrori o falsità, ma solo quelli che sono scritti nel libro della vita dell’Agnello” (Ap 21, 21-27).
Così la città è (può essere) tanto quella di Caino, che si esprime nella torre di Babele, quanto la comunità pacificata che scende da Dio, dal cielo, e che esprime le buone relazioni fondate a partire da quella portante che regge le altre: la relazione con Dio. Ma la nostra situazione è quella che scorre tra il già e il non ancora della storia; viviamo immersi nel tempo, tra i contrasti della storia, e il nostro cuore fatica a ritrovarsi in quelle scelte capaci di costruire il futuro regno di Dio.
Se la persona non viene più intesa come immagine di Dio, allora tutto diventa possibile e la città, le sue strade e le sue piazze sono le prime a risentirne e in esse la vita diventa umanamente impossibile: tutto finisce per avere un prezzo, tutto si trasforma in valore economico o ad esso assimilabile e colui che, per primo, ne patisce è proprio l’uomo.
La città si muove nella storia, ovvero nel tempo, fra il “già” e il “non ancora”,e tutto è lasciato alla libertà dell’uomo, chiamato a rispondere alla grazia di Dio e ad esprimersi in scelte quotidiane, non sempre facili e non sempre condivise dalla maggioranza.
In tale situazione è importante che la comunità ecclesiale sia consapevole d’aver qualcosa di buono e di valido da dire alla città e questo a partire dalla concezione che essa ha dell’uomo, ossia la sua dignità, i valori, i reali bisogni, resistendo al pensiero unico-dominante e alle culture che sono espressione della tecnoscienza la quale sembra avere – come unico criterio etico – la possibilità di fare o di non fare una cosa e la logica del mercato.
E’ decisivo, quindi, per la comunità ecclesiale essere presente nella città con una fede amica della ragione, capace d’incontrare l’uomo riconoscendone, rispettandone e portandone a compimento l’umanità.
Grazie a una fede che non si aggiunge dall’esterno a ciò che è umano e che non fa violenza all’uomo ma lo riconosce e lo rende pienamente tale, la comunità cristiana è chiamata, così, a diventare soggetto “critico” o memoria “pericolosa” che si adopera ad instaurare relazioni personali e sociali virtuose in rapporto al bene comune.
Secondo tale logica dobbiamo ripensare, nel nostro quotidiano, i grandi temi della dottrina sociale cristiana. Ora, se i suoi grandi principi sono concretamente vissuti, la vita di una società, di una famiglia, della singola persona cambiano. Al centro vi è sempre la persona, cui fanno corona il principio di solidarietà e sussidiarietà – la vera carità si gioca su questi due principi -, il riconoscimento del principio della destinazione universale dei beni; solo dopo si dà il diritto al possesso.
Impegnarsi e lavorare per una società che sia più giusta è servizio proprio della comunità dei credenti, a partire dalla visione che hanno dell’uomo. La fede non è realtà confessionale ma aperta all’uomo reale, concreto, al di fuori di ogni visione asservita al pensiero dominante.
L’uomo non è un prodotto delle culture dominanti; egli sempre rimane un essere preventivamente dato che precede le differenti culture, fornito di una natura specifica e precostituita e, quindi, un essere inviolabile per la sua dignità personale. Insomma, l’uomo è persona, soggetto libero, non culturalmente manipolabile, seppur vive all’interno di differenti e determinate culture, dalle quali, per certi aspetti, pur dipende.
L’attenzione ai grandi temi della politica, dell’economia, del lavoro, della pace, della salvaguardia del creato – che oggi non vanno sottovalutati – non devono però far dimenticare che, nell’epoca della tecnoscienza, la questione decisiva è quella antropologica, ossia la domanda: qual è il tipo d’uomo che ci sta dinanzi?
Siamo di fronte ad una vera metamorfosi antropologica: ecco, allora, l’importanza dei temi etici riguardanti l’inizio e la fine della vita dell’uomo, la procreazione che avviene attraverso la generazione e che è ben diversa dalla riproduzione in laboratorio.
Che dire poi di una società che, al di là delle attuali difficoltà, sembra aver perso il gusto di procreare? Come è possibile che una tale società mantenga il gusto d’educare? L’educazione, infatti, porta a compimento l’atto generativo.
La comunità cristiana è chiamata a porre sempre più al centro il tema dell’uomo, considerato nelle sue forze e risorse, ma, anche, nelle sue povertà e fragilità; si tratta di ricuperare il senso del limite, dando spazio a quella memoria “pericolosa” che, con realismo, guarda al nostro tempo.
Papa Francesco – nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium – chiede alla comunità cristiana un preciso e visibile impegno sociale. Segnalo, in particolare, due paragrafi. Il primo, al n. 210, introduce il tema delle povertà e fragilità dell’uomo: “È indispensabile prestare attenzione per essere vicini a nuove forme di povertà e di fragilità in cui siamo chiamati a riconoscere Cristo sofferente, anche se questo apparentemente non ci porta vantaggi tangibili e immediati: i senza tetto, i tossicodipendenti, i rifugiati, i popoli indigeni, gli anziani sempre più soli e abbandonati…” (Papa Francesco, Esortazione apostolica Evangelii gaudium, n. 210).
Nel secondo, al n. 213, il Papa ci rivolge queste parole profetiche: “Tra questi deboli, di cui la Chiesa vuole prendersi cura con predilezione, ci sono anche i bambini nascituri, che sono i più indifesi e innocenti di tutti, ai quali oggi si vuole negare la dignità umana al fine di poterne fare quello che si vuole, togliendo loro la vita e promuovendo legislazioni in modo che nessuno possa impedirlo. Frequentemente – continua Papa Francesco –, per ridicolizzare allegramente la difesa che la Chiesa fa delle vite dei nascituri, si fa in modo di presentare la sua posizione come qualcosa di ideologico, oscurantista e conservatore. Eppure questa difesa della vita nascente è intimamente legata alla difesa di qualsiasi diritto umano. Suppone la convinzione che un essere umano è sempre sacro e inviolabile, in qualunque situazione e in ogni fase del suo sviluppo” (Papa Francesco, Esortazione apostolica Evangelii gaudium, n. 213).
Auguro alla città di Mestre – che si onora della protezione dell’arcangelo Michele – di guardare sempre all’uomo concreto così come l’uomo è, in carne ed ossa, non cedendo alle differenti derive culturali.
L’ideologia del riduzionismo – l’ideologia delle ideologie -, incapace di cogliere la totalità, è sempre in agguato; è comoda scorciatoia di fronte alla realtà che, di natura sua, è complessa e variegata. Di tale ideologia, di volta in volta, si può impadronire il potere forte di turno. Tale ideologia della riduzione tutto frammenta e frantuma e, così, porta l’uomo ad essere una caricatura di se stesso, qualcosa d’astratto, d’irreale, d’inesistente, rendendolo, alla fine, manipolabile secondo i propri scopi.
La questione fondamentale del nostro presente e futuro è, dunque, quella dell’uomo ma, nella nostra società dell’immagine e della comunicazione, essa chiama in causa anche i canali attraverso i quali avviene la comunicazione stessa, ossia i media. E qui si pone la questionedi una democrazia reale che voglia essere obiettivamente tale, vale a dire il problema di un’informazione realmente libera.
Su questo punto la nostra società gioca una battaglia decisiva; se, infatti, l’informazione si pone in termini di “formazione” del cittadino, tutto, allora, è in mano a pochi, anzi a pochissimi. E così cadiamo nel pensiero unico dominante e neanche ce ne accorgiamo! Siamo chiamati, allora, a valutare con serenità, ma anche con responsabilità e senso critico, l’impostazione dei media e di taluni telegiornali, rassegne stampa e approfondimenti della notizia che fanno, non poco, riflettere.
Tutto ciò, quando siamo sul terreno delicatissimo dei media, diventa decisivo per una democrazia che non voglia essere solo formale (e caricatura di se stessa) ma reale, per evitare, alla fine, che pochi decidano sulla questione fondamentale del nostro presente e futuro, ovvero la risposta alla domanda: quale uomo? quale antropologia? quale futuro mi attende?
San Michele ci aiuti e ci dia la forza per discernere e per offrire la nostra proposta alla società.