Omelia nella solennità di S. Marco (Venezia, 25 aprile 2013)
25-04-2013
Solennità del patrono San Marco Evangelista (25 aprile 2013)
Basilica Patriarcale di San Marco – Venezia
Omelia del Patriarca mons. Francesco Moraglia
 
 
 
  
Carissimi confratelli nel sacerdozio, consacrati e consacrate, fedeli laici, gentili autorità, signor Sindaco,
celebrare in quest’Anno della Fede la festa dell’evangelista Marco, che appartiene alla schiera dei grandi missionari dell’epoca apostolica e da sempre identifica la città di Venezia e le genti venete, ci chiede di riflettere sul nostro modo di vivere e di annunciare la fede.
La preghiera di Colletta, con cui abbiamo iniziato la celebrazione eucaristica, esprime bene tutto questo: ‘O Dio, che hai glorificato il tuo evangelista Marco con il dono della predicazione apostolica, e lo hai dato alle genti venete come segno della tua protezione, fa che alla scuola del Vangelo impariamo a seguire fedelmente Cristo”.
Marco, nel suo Vangelo, non ci propone una fede comoda; al contrario, è una fede provata e provocata da difficoltà e scelte non facili da parte di coloro che, per usare l’espressione di cui si serve l’evangelista al termine del suo Vangelo, hanno scelto il battesimo sia come inizio sia come espressione di fede: ‘Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo” (Mc 16,16).
Marco, il secondo evangelista – le cui spoglie mortali riposano sotto l’altar maggiore di questa Patriarcale Basilica Cattedrale -, è stato per dodici secoli, il protettore della Repubblica di Venezia; per questo il leone alato ha segnato i territori in cui la Serenissima primeggiava e ovunque la sua flotta giungeva. L’essere stati e l’essere tuttora terra di san Marco, ossia terra del secondo evangelista, ci domanda – proprio in quest’Anno della Fede – una ferma riflessione su ciò che oggi significa essere credenti.
Mi soffermo su un episodio della vita di Marco che ci può aiutare in tale riflessione. Gli Atti degli Apostoli ci presentano Giovanni, detto Marco, nipote di Barnaba: è l’evangelista Marco. Durante il primo viaggio missionario di Paolo, il giovane e inesperto Marco – giunto a Perge in Panfilia – si separa dagli altri; non ha la forza di proseguire il viaggio difficile verso Antiochia di Pisidia (cfr. At 13,13).
Abbiamo un’immagine per nulla idealizzata del futuro evangelista che – posto di fronte ai disagi, alle fatiche e alle asprezze dell’evangelizzazione – si arrende, viene meno e ritorna sui suoi passi. Il giovane Marco, in questo suo venir meno, in questo suo non farcela, si mostra fragile e insicuro. Ma tale debolezza che – con la grazia del Signore – chiede d’essere vinta, appartiene proprio al cammino che ogni evangelizzatore è chiamato a fare, misurandosi con le asprezze e le difficoltà della missione, con i propri timori e le proprie fragilità.
È questa un’indicazione che ci aiuta a comprendere la situazione personale dell’evangelizzatore, chiamato ad essere luce per le genti ma facendo sempre i conti con i limiti della sua persona. L’evangelizzatore conosce la fatica, sperimenta le prove, percorre la via della solitudine e, alla fine, può anche cedere alla tentazione e venir meno.
Il futuro evangelista abbandona la missione, causando l’amarezza di Paolo, rientra a Gerusalemme (At 13,13), vive nella comunità ecclesiale, recupera coraggio e forza e, alla fine, lo troviamo a fianco dell’apostolo Pietro che, nella sua prima lettera, lo definisce suo figlio (cfr. 1Pt 5,13).
La Chiesa si pone sempre (anche in questa circostanza personale che ha riguardato l’evangelista Marco) come il grembo materno che ci aiuta – se c’è volontà di conversione – a recuperare il coraggio di credere e la forza di un amore purificato da ogni fragilità umana. Così, anche nella vicenda dell’evangelista Marco, si dà qualcosa di simile a quanto aveva caratterizzato la vita dell’apostolo Pietro che, innanzi al pericolo, venne meno e solo dopo, al canto del gallo, fu riportato drammaticamente a prendere coscienza, con dolore, della sua fragilità e paura.
In Pietro Gesù ha voluto affidare la sua Chiesa a un apostolo che non era perfetto, non certamente impeccabile e non in grado di dominare situazioni o resistere alle persone. Al contrario, Gesù ha scelto un uomo fragile che aveva dolorosamente sperimentato, fino in fondo, la sua insufficienza, il suo peccato. E proprio da qui aveva iniziato il suo nuovo cammino di apostolo.
Ogni evangelizzatore, ogni missionario, ogni battezzato deve sapere che – se si affida unicamente alle sole sue forze – sarà, ineluttabilmente, destinato a venir meno e a fallire. Chi evangelizza e annuncia la salvezza, invece, ha bisogno d’esser consapevole che Gesù non è ‘un di più’, non è Colui di cui si possa anche fare a meno, magari attraverso qualche forma di relativismo culturale e teologico. Al contrario, Gesù è l’unico necessario perché, senza di Lui, non si può fare nulla.
Come già detto, troveremo il futuro evangelista Marco a fianco dell’apostolo Pietro che lo chiama ‘figlio’ e, poi, ancora tra i fidati collaboratori di Paolo. Così Marco è citato nella lettera ai Colossesi (cfr. 4,10) e in quella a Filemone (cfr. 23). Infine, nella seconda lettera a Timoteo, quando Paolo domanda al discepolo prediletto di recarsi a Roma portando con sé proprio Marco dal quale attende aiuto nella predicazione: ‘Prendi con te Marco e portalo, perché mi sarà utile per il ministero’. E, poco dopo, continua: ‘Nella mia prima difesa in tribunale nessuno mi ha assistito; tutti mi hanno abbandonato’ (1Tim 4, 11.16). Ma Paolo aveva richiesto poco prima la presenza e l’aiuto di Marco e, quindi, Marco – l’incidente di Perge era ormai chiuso – è fra coloro ai quali Paolo chiede (e ottiene), in un momento di grave difficoltà, la presenza coraggiosa e la collaborazione.
A ben vedere, la consapevolezza dei propri limiti e debolezze è ciò che permette al discepolo di ritemprare le fragili forze in un cammino di umiltà e conversione. Ricordiamolo nell’Anno della Fede. Ancora l’apostolo Paolo ci ricorda che, proprio quando ci sentiamo fragili, deboli e sconfitti è allora che siamo forti e proprio nella grazia – la forza e la tenerezza di Dio – siamo veramente i vincitori (cfr. 2Cor 12, 9-10). Proprio la consapevolezza dei nostri limiti e delle nostre insufficienze personali introducono l’evangelizzatore in quello che è il suo vero compito: servire la salvezza, che non è frutto delle nostre alchimie pastorali culturaleggianti ma è ottenuta da un Altro, il Signore Gesù, dalla croce.
Possiamo dire, quindi, che la prima consapevolezza dell’evangelizzatore consiste nell’annuncio che ogni uomo – nessuno escluso – è un salvato, al di là delle proprie possibilità e risorse umane. Non a caso, il Vangelo di Marco termina con queste parole che, certamente, sono anche frutto della vicenda personale dell’evangelista: ‘Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio. Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la parola con i segni che l’accompagnavano’ (Mc 16, 19-20).
Carissimi, in quest’Anno della Fede – come si chiede nella preghiera successiva alla Comunione – tutti possiamo essere confermati nella fedeltà al Vangelo che san Marco ha trasmesso alla Chiesa. E, come per il passato, anche in questa situazione di difficoltà economica e sociale – a causa della perdurante crisi – san Marco benedica la nostra amata città di Venezia e le terre venete, a lui così legate. All’intercessione di san Marco affidiamo la nostra Italia, perché possa usufruire di un tempo di concordia politica e sociale in vista del bene comune.
A tutti coloro che portano il nome di Marco l’augurio di ogni bene nel Signore; un particolarissimo augurio, a nome di tutta la Chiesa veneziana, rivolgo al Patriarca emerito card. Marco Cè chiedendo per lui dal Signore il dono della salute e della pace. Infine il mio augurio a tutti voi e a quei gruppi presenti in Basilica per la festa di san Marco e che vengono anche da territori e Stati lontani.