Omelia nella solennità di Ognissanti - S. Messa al Cimitero di Mestre (1 novembre 2013)
01-11-2013
Solennità di Ognissanti – S. Messa al Cimitero di Mestre (1 novembre 2013)
Omelia del Patriarca mons. Francesco Moraglia
Chi è il santo? Un uomo ed una donna che pensano, parlano e agiscono come Gesù avrebbe pensato, parlato e agito in quella circostanza. Alla fine della vita sarà poco importante quello che abbiamo fatto; sarà importante come lo abbiamo fatto.
Abbiamo ascoltato le beatitudini che, nella loro essenzialità, nella loro brevità, nella loro semplicità, sono la carta costituzionale del regno di Dio. Quando nel Padre nostro noi ci rivolgiamo a Dio con le parole che Gesù ha messo sulle nostre labbra per pregare, noi diciamo fondamentalmente una cosa: venga il Tuo regno. E allora bisogna fare come i santi. I santi hanno cercato di fare in modo che il regno di Dio venisse ed incominciasse a venire dentro di loro, che si manifestasse nel loro stile di vita.
E’ una giornata particolare questa, non solo perché precede la commemorazione di tutti i fedeli defunti (il motivo per cui siamo a celebrare la solennità dei Santi qui, nel cimitero, è proprio questa), ma è una giornata anche particolare per la nostra Chiesa di Venezia perché – al termine della Messa andremo su quella tomba – ieri è stata dichiarata Venerabile una suora che è vissuta qui. Ha vissuto brevemente (solo 33 anni) ed era nativa della provincia di Vicenza; alcuni momenti di vita, però, li ha passati qui a Mestre e allora la cosa su cui dobbiamo riflettere, fino in fondo, è proprio questa: la santità è in mezzo a noi. Forse alcuni dei presenti l’hanno anche incontrata – suor Olga Gugelmo è morta nel 1943 – magari non sapendo chi fosse’ Pensiamo, allora, che dei santi hanno attraversato queste strade, questi quartieri, ed hanno vissuto la loro santità che ora sta per essere riconosciuta dalla Chiesa; riconoscere la venerabilità di una vita, infatti, è un passo importante verso l’altare.
La santità è qualcosa che abita tra le nostre case, nei nostri quartieri, nelle nostre città. In uomini e donne che non hanno nulla di particolare: ci accorgeremo un giorno che quelle persone erano sante. Allora il grande ottimismo del cristiano non è quello di poter rivoltare la situazione sociale. Chi si occupa di bene comune sa che – nonostante la buona volontà – molte volte è faticoso, è difficile, fare anche dei piccoli passi e certe volte la tentazione è quella di ritirarsi in un privato personale. Come è difficile far crescere il bene comune!
Il grande ottimismo del cristiano è proprio questo: dentro di me – in me, nelle mie parole, nel mio modo di pensare, nei miei gesti – può iniziare la vera rivoluzione, quella della santità, che comunque sia, anche se non è riconosciuta, anche se non è apprezzata, anche se certe volte è addirittura derisa, qualunque sia, lascia il segno. Lo lascia, lo lascia magari nella memoria di persone che saranno toccate dalle parole e dallo stile di vita di questi santi anonimi, non conosciuti, e che magari un giorno cambieranno la loro vita per quell’incontro avvenuto decenni prima.
La santità ‘pesa’ sulla Chiesa, ed allora noi dobbiamo guardare alla festa di oggi, alla celebrazione liturgica di oggi, come a quella solennità che ci da l’ottimismo cristiano: molto dipende dalla nostra decisione personale, molto dipende dal nostro modo di parlare, di pensare, di assumere decisioni di un tipo piuttosto che di un altro. Dio, poi, al momento opportuno saprà servirsi anche di quelle parole e di quei gesti che, nel momento in cui sono state profferite o compiuti, sono passati magari disattesi.
Il cristiano guarda poi alla morte e la guarda in faccia per vivere bene, per non disperdersi negli anni che – se anche sono lunghi – sono sempre talmente brevi nell’esistenza terrena, dove è facile lasciarci prendere da cose che ci distolgono, come se camminando su una strada verso una meta perdessimo di vista dove stiamo andando e cominciassimo a girovagare… Questo, molte volte, è l’atteggiamento di chi non guarda la fine della vita. Noi dobbiamo guardare alla fine della vita per comprendere qual è ‘il’ fine della vita. Chi ha compreso il fine della vita vive la vita con un’agilità diversa, con una sapienza diversa.
Queste sono le giornate in cui siamo chiamati a compiere quell’opera di misericordia spirituale che è pregare per i vivi e per i defunti. Se noi vogliamo veramente bene alle persone che ci hanno lasciato, che hanno allungato il passo – come si dice -, che sono passate dall’altra parte, all’altra sponda, se noi vogliamo loro veramente bene, se vogliamo avere ancora un rapporto diretto con loro, vero e reale, dobbiamo riscoprire la dimensione della preghiera di suffragio.
E’ quella preghiera che mette in contatto diverso il nostro mondo con il loro; quella preghiera, quei sacrifici, quelle offerte, che ci permettono realmente, se ne avessero ancora bisogno, di far loro del bene. Sono in quell’attesa che purifica e noi li possiamo aiutare a far sì che quell’attesa purificatrice sia loro in qualche modo facilitata. Riscopriamo la realtà del Purgatorio, che è una realtà così umana in cui Dio veramente tiene conto di quello che noi siamo, volti verso il bene, ma molto fragili, certe volte indirizzati su strade sbagliate ma non solo per colpa nostra, non sempre per colpa nostra.
Il Purgatorio è quella realtà in cui Dio ci da la possibilità di raggiungere quella perfezione che sulla terra non è stata raggiunta. C’è stato un sì – questo è fondamentale – nei confronti della fede; c’è stato un sì fondamentale nei confronti del Vangelo, c’è stato un sì fondamentale nei confronti di Dio, ma c’è stata anche tanta fragilità e forse anche non c’è stato sempre quell’impegno e non c’è stata quella dedizione che potevano esserci.
Il dogma del Purgatorio: Dio conosce fino in fondo le nostre fragilità. Il Purgatorio è – come dice Santa Caterina da Genova, la più grande conoscitrice mistica del Purgatorio – il luogo della gioia e del dolore, il luogo della misericordia di Dio, il luogo dell’attesa in cui noi possiamo essere veramente ancora utili ai nostri cari defunti.