S. Messa solenne per la Festa del patrono S. Michele Arcangelo
(Mestre – Duomo S. Lorenzo, 29 settembre 2017)
Omelia del Patriarca mons. Francesco Moraglia
Stimate autorità, cari confratelli nel sacerdozio, diaconi, consacrati, fedeli laici,
ancora una volta il Duomo di San Lorenzo ci raccoglie per celebrare la festa del patrono di Mestre, l’arcangelo san Michele.
Ai mestrini rivolgo il mio augurio: sappiano cogliere nel patrono Michele un chiaro riferimento al primato di Dio nella loro vita. Mi Ka El significa, infatti, “Chi come Dio?”.
Un particolare augurio va alle donne e agli uomini della Polizia di Stato – san Michele è il loro patrono – e, insieme all’augurio, un ringraziamento per il servizio quotidiano svolto, con professionalità, per il bene e la sicurezza della nostra convivenza in questi tempi non facili.
L’arcangelo Michele ci ricorda che non vi sono altri signori al di fuori di Dio, il Padre del Signore nostro Gesù Cristo; tutte le altre creature – umane e angeliche – sono solo creature. E Gesù – il Crocifisso Risorto, “Figlio dell’Uomo”– è il vero e unico Mediatore tra Dio e l’umanità; Lui è “la via, la verità e la vita” (Gv 14,6) che ricongiunge la terra e il cielo.
Nella lettura, appena ascoltata, viene così delineato: “Guardando ancora nelle visioni notturne, ecco venire con le nubi del cielo uno simile a un figlio d’uomo; giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui. Gli furono dati potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano: il suo potere è un potere eterno, che non finirà mai, e il suo regno non sarà mai distrutto” (Dn 7, 13-14).
E questa visione profonda della storia ci aiuta a fondare ogni autentico impegno – nei campi d’azione più svariati – per costruire relazioni più umane e la vita buona della città. Ciò vale, in particolare, per il contributo indispensabile che il cristiano e la comunità ecclesiale – in forma associata o nei singoli – sono chiamati ad offrire.
“Esperta di umanità, la Chiesa, lungi dal pretendere minimamente d’intromettersi nella politica (…), “non ha di mira che un unico scopo: continuare (…) la stessa opera del Cristo, venuto nel mondo per rendere testimonianza alla verità, per salvare, non per condannare, per servire, non per essere servito”. Fondata per porre fin da quaggiù le basi del regno dei cieli e non per conquistare un potere terreno, essa afferma chiaramente che i due domini sono distinti (…). Ma, vivente com’è nella storia, essa deve “scrutare i segni dei tempi e interpretarli alla luce del Vangelo”. In comunione con le migliori aspirazioni degli uomini e soffrendo di vederle insoddisfatte, essa desidera aiutarli a raggiungere la loro piena fioritura, e a questo fine offre loro ciò che possiede in proprio: una visione globale dell’uomo e dell’umanità” (Paolo VI, Lettera enciclica Populorum progressio, n. 13).
Così si esprimeva – riecheggiando le parole del Concilio Vaticano II – il Santo Padre Paolo VI nella lettera enciclica Populorum progressio che è datata 1967 e, quindi, risale esattamente a cinquant’anni e con voi vorrei riprendere e riconsegnare idealmente a ciascuno di Voi. Un documento importante ed attuale: se fosse stato ascoltato di più, oggi ci renderebbe molto più agevole affrontare le urgenze politiche e sociali di questo periodo.
Consiglio la lettura meditata di questo testo, non perché c’è un anniversario da ricordare ma per la carica profetica epocale e la forza delle considerazioni in essa contenute, oltretutto in un tempo in cui l’economia e la politica globalizzata, il fenomeno strutturale delle migrazioni e gli esiti – prima di tutto etici e poi ecologici – della tecnoscienza non si erano ancora imposti nella loro, a volte terribile, evidenza come oggi.
Accade talvolta – quando fa sentire la sua voce in ambito sociale – che le parole della Chiesa vengano considerate il risultato di una visione “idealista” – se non ingenua – o addirittura “ideologica”; invece, non di rado, precorrono i tempi poiché oltre a partecipare a un sapere umano e divino si esprimono nei termini di una vera e reale laicità, riferendosi sempre al principio di ragione e di natura (cfr. Benedetto XVI, Lettera enciclica Deus caritas est, nn. 25-28).
La dottrina sociale della Chiesa non è mai un sapere ideologico e si muove – va ribadito – nell’ambito di una obiettiva laicità; non è insegnamento confessionale. Su tale linea ritroviamo Paolo VI, san Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco, in particolare con l’enciclica Laudato si’ sulla cura della casa comune che – come ho avuto modo di affermare in altre occasioni – ha molto da dire al nostro peculiare (e unico) contesto ambientale in cui viviamo.
Desidero qui ricordare il beato Giuseppe Toniolo, di cui ricorrerà l’anno prossimo il centenario della morte, e il suo insegnamento socio-economico. Per il professore di Treviso l’etica non può mai rimanere esterna all’economia; l’economia è sempre, infatti, in funzione dell’uomo. Ed esiste una economia dal volto umano che è attenta all’uomo, e pur nulla cedendo alla sua scientificità, risulta impegnata a far sì che l’uomo raggiunga il suo fine e risponda sempre più alla vocazione personale. Escludendo l’etica non si può nemmeno parlare di sviluppo degno dell’uomo; infatti, in quanto immagine di Dio, l’uomo è il centro di tutto e, quindi, anche del discorso economico.
Paolo VI esprime tale pensiero nel corso dell’intera enciclica. “Lo sviluppo – osserva – non si riduce alla semplice crescita economica. Per essere autentico sviluppo, deve essere integrale, il che vuol dire volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo” (Paolo VI, Lettera enciclica Populorum progressio, n. 14).
La socialità, l’etica e la religione sono, alla fine, fra loro congiunte e proprio questo fattore unitivo permette di superare una visione riduttiva e solo “tecnica” dell’economia e, prima ancora, della società.
Paolo VI, parlando dell’uomo, a proposito della industrializzazione affermava anche: “Mediante l’applicazione tenace della sua intelligenza e del suo lavoro, l’uomo strappa a poco a poco i suoi segreti alla natura, favorendo un miglior uso delle sue ricchezze. Mentre imprime una disciplina alle sue abitudini, egli sviluppa del pari in se stesso il gusto della ricerca e dell’invenzione, l’accettazione del rischio calcolato, l’audacia nell’intraprendere, l’iniziativa generosa, il senso della responsabilità” (Paolo VI, Lettera enciclica Populorum progressio, n. 25).
Quanto avremmo bisogno, anche oggi, di riscoprire questa saggezza e queste doti – gusto della ricerca e dell’invenzione, accettazione di un rischio ma calcolato, audacia d’impresa, iniziativa generosa, grande senso di responsabilità (soprattutto!) – specialmente nel ripensare luoghi e spazi, momenti e occasioni di vita comune in un territorio davvero particolare come quello della città di Mestre e più in generale dell’area metropolitana veneziana, che necessita sempre di “riconversioni”, nuove pianificazioni e strategie per garantirne il rilancio e un costante sviluppo.
Con l’enciclica Populorum progressio diventa chiaro che la Chiesa non ha più innanzi solamente persone, famiglie, classi sociali; la prospettiva si fa planetaria e gli interlocutori sono i popoli, gli stati, la grande politica, i poteri forti. Così nel 1967, così oggi (2017): il bene comune e la sua attuazione non possono non confrontarsi con le divisioni, i conflitti e le tensioni di un mondo che – lo si rilevava cinquant’anni fa, in modo evidente e spietato – si suddivideva (e si suddivide) in Paesi ricchi e Paesi poveri, popoli della fame e popoli dell’opulenza, Nord e Sud del pianeta.
All’interno dell’enciclica Populorum progressio troviamo poi due grandi parti intitolate “Per uno sviluppo integrale dell’uomo” e “Verso lo sviluppo solidale dell’umanità”. Subito è da rilevare come il concetto di progresso venga inteso non come la crescita di una persona, di una classe o di un popolo, neppure di un intero continente, ma di tutti, nessuno escluso. Sì, il progresso – lo sviluppo, la crescita, il benessere – non deve escludere nessuno e deve essere sempre aperto a tutti.
Ma si deve porre attenzione pure alla qualità di questo sviluppo. È in gioco la crescita integrale dell’uomo e il vero umanesimo che – per esser realmente tale – deve riconoscere la totalità dell’uomo. La persona è sempre e insieme “identità e relazione”, un “tutto” strutturato anche “socialmente”. L’uomo non è un’isola e un uomo “solo” non esiste; è pura astrazione, in concreto non si dà.
Si può quindi parlare di un vero sviluppo sociale solo prendendo le distanze da ogni tipo di “riduzionismo”, iniziando da quello economico. E l’uomo che non può giungere a una sufficiente formazione culturale e spirituale non potrà esprimersi compiutamente sul piano umano con un linguaggio e un pensiero idonei, come l’uomo denutrito fisicamente, privo di forze e vitalità, non riesce più a vivere.
Tutti gli uomini necessitano allora di una formazione carica di “umanità”, in grado di esprimere valori morali, spirituali e cristiani fondati sulla ragione che è il mezzo più idoneo per incontrare chi non appartiene alla nostra cultura, ha una fede diversa dalla nostra o non ha addirittura fede.
Il mondo ha bisogno di uomini in grado di elaborare un pensiero antropologicamente fondato e, allo stesso tempo, saggiamente critico. Solo così le conoscenze tecnico-scientifiche (soprattutto in un epoca come la nostra, pervasa da una diffusa mentalità funzionalista) potranno essere aiutate e sorrette da un umanesimo fondato – tramite una reale mediazione filosofica del sapere umano -, alla fine, su Gesù Cristo vera speranza del mondo, come ci ha ricordato Papa Francesco nel discorso in occasione del V Convegno Ecclesiale della Chiesa Italiana a Firenze.
Tale umanesimo permetterà a noi – uomini e donne del Terzo Millennio – di non smarrire la nostra umanità; ci consentirà di coltivare e testimoniare valori realmente degni dell’uomo (umani e cristiani), come cinquant’anni or sono richiedeva Populorum progressio. Avremo così – a partire proprio dalla fede in Gesù Cristo -, la capacità di amare, la forza di instaurare limpidi rapporti di amicizia e guardare al bene sommo della libertà a partire dalla verità e dall’amore, incominciando dalla libertà che fonda ogni altra libertà, ossia quella religiosa.
Le ultime pagine dell’enciclica – sulla scia della Pacem in terris di san Giovanni XXIII (promulgata nel 1963) -, infine, ci ricordano come lo sviluppo sia il nuovo nome della pace e, quindi, che ogni ingiustizia da noi compiuta o avvalorata o non contrastata adeguatamente risulta, senza retorica, una vera e potenziale dichiarazione di guerra. Entrambi i testi ci insegnano che il bene grande della pace è affidato a uomini e donne chiamati a promuoverlo sempre, senza stancarsi. E la pace del Vangelo di Gesù Cristo è la pace che nasce dall’incontro con chi ci sta innanzi e viene riconosciuto e rispettato nella sua dignità di persona e popolo.
E sappiamo bene che l’incontro – anche e soprattutto nelle vicende quotidiane di una città, anche nel proprio condominio, a scuola, per la strada e negli spazi pubblici, nelle relazioni più semplici e “ordinarie” tra persone che hanno in comune lo stesso territorio pur avendo provenienze differenti – (quest’incontro) si dà tra quanti si impegnano nel non facile ma indispensabile cammino del dialogo e del rispetto, sapendo tener insieme diritti e doveri e riscoprendo e declinando senza stancarsi i principi della reciprocità, dell’accoglienza, della solidarietà, della legalità, della certezza del diritto, del realismo prudente, generoso e instancabile. Non il buonismo, ma il ragionamento di un cuore che ama!
Il messaggio di Populorum progressio può così essere, in sintesi, racchiuso in questa duplice affermazione: non vi è economia (e politica) che attraverso l’uomo e per l’uomo; nessun uomo o popolo può e deve essere deliberatamente escluso.
Il patrono san Michele Arcangelo ci aiuti a tradurre, con le attenzioni e le modalità più adeguate e necessarie, questa sapienza che appartiene all’insegnamento sociale cristiano. E ci dia la forza per vivere al meglio i compiti e le responsabilità che spettano ad ognuno di noi, mettendo tutti di fronte ai loro doveri e ai loro diritti, per discernere con sapienza dov’è e qual è il vero bene – qui, oggi a Mestre -, per realizzare un’accoglienza che sia amante della legalità e del diritto e, quindi, per offrire a questa città e a tutti una degna proposta e testimonianza di vita buona.