Omelia nella S. Messa per l'ordinazione presbiterale di don German Montoya (Venezia, Basilica Patriarcale di S. Marco - 14 giugno 2014)
14-06-2014
S. Messa per l’ordinazione presbiterale di don German Montoya
(Venezia, Basilica Patriarcale di S. Marco – 14 giugno 2014)
Omelia del Patriarca mons. Francesco Moraglia
Carissimo don German,
 oggi, festa della Santissima Trinità, ricevi il sacramento dell’ordine nel grado del presbiterato, una grazia che corrisponde ad un amore particolare del Signore nei tuoi confronti e di tutta la Chiesa. È un dono che ti coinvolge personalmente, interiormente ed esteriormente; d’ora in poi, nella tua vita, nulla sarà più come prima.
Caro don German, tu sai che preti lo si diventa. E si rimane per sempre prete. Non lo si è per un po’ di tempo, fino a quando uno se la sente o ne ha voglia’ Preti lo si è, e tali si rimane, in eterno. Al momento dell’ordinazione presbiterale, qualcosa di nuovo, di radicalmente nuovo, ‘accade’ nella propria vita e la modifica in maniera definitiva.
 L’ordinazione presbiterale rappresenta un momento d’arrivo, in un certo senso è un traguardo ma, soprattutto, è una novità, una vera e propria novità che deve intendersi come inizio o principio.
Da quel momento, infatti, le parole e i gesti che prima non avresti potuto proferire o compiere in modo efficace, ora diventano non solo possibili ma reali in forza di un potere che ti viene dato non come  possesso personale, per gratificare la tua persona, ma come servizio a favore del popolo e della gente che, di volta in volta, verrà affidata alle tue cure sacerdotali.
Così, caro German, la Chiesa pone nelle tue mani il ministero del sacerdozio nel grado del presbiterato perché tu possa essere in mezzo ai fratelli  ‘segno efficace di Gesù’. Per questo oggi tu vieni ordinato prete.
 Le tue parole e i tuoi gesti saranno – come si dice – parole e segni ‘sacramentali’ ovvero capaci di realizzare quanto Cristo ha compiuto a favore dell’umanità. In tal modo tu servirai Gesù rendendolo presente in mezzo ai fratelli e servirai i fratelli dando loro, attraverso il tuo ministero, Gesù stesso.
L’ortodossia e l’ortoprassi presbiterale vanno verificate semplicemente chiedendosi se tutto corrisponde a questo servizio a Cristo e alla comunità, rendendo presente l’unico, vero ed eterno sacerdote.   
Le parole e i gesti del presbitero – lo ripeto – non si limitano a descrivere o ad auspicare comportamenti ma hanno la forza sacramentale di compiere ciò che significano. Quando tali parole sono dette e quando i gesti sono posti, allora, si crea qualcosa di nuovo.
Nel caso del sacramento della penitenza o riconciliazione, le parole del sacerdote – ‘Io ti assolvo dai tuoi peccati ‘ – realizzano il perdono; nel caso dell’eucaristia, culmine della vita ecclesiale, le parole pronunciate dal prete sul pane e sul vino – ‘Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue‘ – ci donano realmente il Cristo risorto.
Ma tutto questo – giova ribadirlo – non è un atto di puro potere o un semplice gioco di prestigio, come neppure un’affermazione dell’io personale del ministro.
Non è quindi il tuo sapere teologico o la tua carità personale che possono conferire efficacia alle tue parole e ai tuoi gesti, piuttosto è il sacerdozio di Cristo che si è radicato e ‘vive’ nel presbitero, come puro dono, a renderlo idoneo a dire e a compiere i gesti sacerdotali del Cristo capo e sposo della Chiesa.
Carissimo don German, fra poco tu potrai pronunciare queste parole in modo reale, efficace e lo farai in forza del sacramento dell’ordine che oggi ti viene dato per i fratelli, per il tuo popolo, per la tua gente.
 Nel pronunziarle, ricordati sempre della tua piccolezza e della grandezza di Dio, soprattutto della Sua infinita misericordia che sempre si esprime in una verità che sia capace di amore e in un amore che sia ricerca della verità, ossia capace di verità.
Un amore che non tradisce se stesso smarrendo la verità e, per contro, una verità che mai minimizza l’errore e che tutto sa dire con carità.     
Nell’omelia della Messa crismale di quest’anno (2014), il Santo Padre, per delineare la figura del presbitero, si è servito di una realtà materiale – l’olio – e di un atteggiamento dello spirito – la gioia -; si tratta di due realtà che, col loro profondo simbolismo, troviamo ricorrenti nella storia della salvezza.
 Papa Francesco parla della gioia che ‘unge’ i presbiteri; ecco le sue parole: ‘Unti con olio di gioia per ungere con olio di gioia. La gioia sacerdotale ha la sua fonte nell’Amore del Padre, e il Signore desidera che la gioia di questo Amore «sia in noi» e «sia piena» (Gv 15,11)‘ (Papa Francesco, Omelia nella S. Messa del Crisma, 17 aprile 2014).
L’olio penetra, scende in profondità, s’insinua e, con la sua densità, tutto impregna, tutto permea. Per questo l’olio, mentre pervade, ‘fa propria’, prende possesso della realtà.
Poi, il Papa delinea, con ‘tratti’ inusuali, l’identità del prete: ‘Una gioia che ci unge. Vale a dire: è penetrata nell’intimo del nostro cuore, lo ha configurato e fortificato sacramentalmente’ La grazia ci colma e si effonde integra, abbondante e piena in ciascun sacerdote. Unti fino alle ossa’ e la nostra gioia, che sgorga da dentro, è l’eco di questa unzione’ (Papa Francesco, Omelia nella S. Messa del Crisma, 17 aprile 2014).
Tale modo d’esprimersi non appartiene al linguaggio teologico, ma dice, in modo vivo, un messaggio che viene reso attraverso lo stile omiletico; non siamo di fronte, infatti, a parole ‘tecniche’ della filosofia o della teologia.
Sono parole che rispondono ad un’altra logica, ad un’altra prospettiva ma, nello stesso tempo, intendono ribadire che il prete – nella sua persona – è la presenza sacramentale di Cristo.
Il testo di Papa Francesco, che riprendiamo, è chiaro e oltremodo eloquente: ‘Una gioia che ci unge. Vale a dire: è penetrata nell’intimo del nostro cuore, lo ha configurato e fortificato sacramentalmente‘ (Papa Francesco, Omelia nella S. Messa del Crisma, 17 aprile 2014).
Sì, il Papa parla di una gioia che ‘unge‘ penetrando ‘fino alle ossa‘ e che configura il presbitero a Cristo e lo segna nell’intimo; è un’immagine eloquente che, pur non rispondendo ai canoni del linguaggio metafisico -mutazione ontologica – ne esprime il senso.
L’odore delle pecore (espressione cara a Papa Francesco) è – in ultima istanza – il buon profumo di Cristo testimoniato e sacramentalmente trasmesso dal presbitero che, poi, ritorna a lui arricchito dalla ‘storia’ – gioie e dolori – della sua gente, attraverso una vita condivisa realmente e concretamente col suo popolo.
Ma già il Concilio Ecumenico Vaticano II nel decreto sul ministero e la vita dei presbiteri – Presbyterorum ordinis – insegnava: ”il sacerdozio dei presbiteri (‘) viene conferito da quel particolare sacramento per il quale i presbiteri, in virtù dell’unzione dello Spirito Santo, sono segnati da uno speciale carattere che li configura a Cristo sacerdote, in modo da poter agire in nome di Cristo, capo della Chiesa’‘ (Concilio Ecumenico Vaticano II, Decreto Presbyterorum ordinis, n. 2).
Qui, in termini differenti, ritorna quanto il Papa ha detto nella messa crismale di quest’anno: ‘Una gioia che ci unge’ penetrata nell’intimo del nostro cuore, lo ha configurato e fortificato sacramentalmente‘ (Papa Francesco, Omelia nella S. Messa del Crisma, 17 aprile 2014).
 Il Santo Padre ribadisce poi ciò che contribuisce all’identità del presbitero: la sua appartenenza al popolo di Dio. La separazione, infatti, determina, nella sua coscienza, l’indebolimento della sua identità e smarrire il senso dell’appartenenza al popolo di Dio diventa, per il presbitero, uno dei danni più rilevanti; la mancanza del rapporto con il popolo arriva, quindi, a snaturare il presbitero.
Il mio ricordo va a un libro che ebbi la fortuna di leggere durante i miei primi anni di sacerdozio; in esso erano raccolti gli appunti che il primate di Polonia, il cardinal Stefan Wyszyński, scrisse durante la sua prigionia protrattasi per oltre tre anni; appunti che volle risistemare poco prima della sua morte, avvenuta nel 1980.
   Il cardinale, nei tre anni d’internamento – dal settembre 1953 all’ottobre 1956 – esprime tutta la sofferenza e il dolore non solo per la libertà di cui era privato e l’incertezza della situazione ma soprattutto perché percepiva con forza la mancanza del suo popolo, della sua gente.
Ecco le parole del cardinale: ‘Il sacerdote deve avere Dio nelle sue mani per stare alla presenza del Padre avendo qualcosa. Ma deve avere anche accanto a sé il popolo. Si sente questa solitudine in modo così dolorosa come la mancanza dell’offerta nelle mani. Il sacerdote è posto pro hominibus. Durante la mia Messa solitaria prego per tutti coloro che la memoria mi riporta alla mente e soprattutto per coloro che così spesso e in ogni modo ho invitato a dire il rosario in onore della Madonna di Jasna Gora’ ‘ (Stefan Wyszyński, Appunti dalla prigione, Cseo Bologna 1983, pag. 31).
Qualche anno dopo – il 7 dicembre 1965 – il Concilio Ecumenico Vaticano II nel decreto Presbyterorum ordinis si esprimerà in questi termini: ‘‘[i presbiteri] sono tenuti, con speciale motivo, a non conformarsi con il secolo presente ma allo stesso tempo sono tenuti a vivere in questo secolo in mezzo agli uomini, a conoscere bene, come buoni pastori, le proprie pecorelle, e a cercare di ricondurre anche quelle che non sono di questo ovile, affinché anch’esse ascoltino la voce di Cristo, e ci sia un solo ovile e un solo pastore‘ (Concilio Ecumenico Vaticano II, Decreto Presbyterorum ordinis, n. 2).
Caro don German, come ci chiede autorevolmente il Concilio, conosci le tue pecorelle, vivi con loro e, nello stesso tempo, come sempre ci insegna lo stesso Concilio, non conformarti al secolo presente e guardati dal pensiero unico dominante che, a furia di parlare il linguaggio del buon senso degli uomini, finisce per farci perdere di vista Gesù Cristo, che è la verità di Dio.  
Ricordati che un discepolo non è di più del suo maestro (cfr. Mt 10, 24) e che la tentazione di andare oltre Cristo e la sua dottrina è già condannata nel Vangelo – ‘un servo non è più grande del suo padrone‘ (Gv 15,20) – e dalla seconda lettera di San Giovanni: ‘Chi va oltre e non rimane nella dottrina del Cristo, non possiede Dio. Chi invece rimane nella dottrina, possiede il Padre e il Figlio‘ (2 Gv 9).
Il potere di Cristo risorto – come tu sai bene – viene conferito al presbitero non per la sua personale gratificazione, quasi il sacerdozio ministeriale fosse un possesso personale; al contrario, viene dato perché si serva il Signore Gesù rendendolo presente ai fratelli e poi si serva i fratelli rendendo presente, in mezzo a loro, l’unico ed eterno sacerdozio di Cristo.
Caro German, ricorda sempre che la verifica del tuo sacerdozio, la sua verità e consistenza si manifestano in tale principio cristologico: renderlo presente attraverso i gesti del Cristo capo della Chiesa. Ogni tua scelta sacerdotale sarà realmente tale se esprimerà tale logica e renderà presente l’unico, vero, eterno sommo Sacerdote.
Persegui, infine, l’essenziale della vita e il distacco dai beni materiali; scoprirai, ben presto, che ne puoi fare a meno e che questo ti libera interiormente ed esteriormente. Ama i poveri e accoglili perché sono un segno particolare di Cristo; non avere mai paura della verità ma perseguila sempre nella carità che è paziente, benigna, longanime, mai gioisce del male altrui e sempre sa scusare e perdonare.
La Vergine Maria – venerata qui a Venezia, col nome di Nicopeia e della Salute, e in America Latina come Madonna di Guadalupe o, più confidenzialmente, ‘Lupita’– ti accompagni, benedica sempre e sostenga il tuo sacerdozio.