Omelia nella S. Messa per l'ordinazione presbiterale di don Davide Carraro (Venezia, Basilica Patriarcale di S. Marco - 15 giugno 2013)
15-06-2013
S. Messa per l’ordinazione presbiterale di don Davide Carraro
(Venezia, Basilica Patriarcale di S. Marco – 15 giugno 2013)
Omelia del Patriarca mons. Francesco Moraglia
 
 
 
Carissimo don Davide,
fra poco, attraverso l’imposizione delle mani del vescovo, tu entrerai in un rapporto nuovo con Gesù, un rapporto sostanzialmente diverso rispetto a quello che, fino ad ora, ti ha unito a Lui.
Col battesimo sei stato costituito figlio nel Figlio, fratello tra fratelli, sei entrato a far parte della Chiesa e ne sei diventato uno dei suoi membri.
D’ora in poi quelli che, fino ad oggi, ti sono stati fratelli continueranno ad esserlo, ma per loro tu inizierai ad essere – in modo vero e reale – padre, ossia in te troveranno quel dono (potestas) specifico e caratteristico che – attraverso il sacramento dell’ordine – ti viene conferito come servizio, come dedizione, come dono gratuito.
L’essere padre chiede di prendere l’iniziativa, di farsi carico e di aprire la strada percorrendola, per primo, con forza e dolcezza, e testimoniandola a quanti – forse più per abitudine che per convinzione – si rivolgeranno a te chiamandoti padre.
Caro don Davide, essere padre oggi non è facile perché viviamo in un’epoca in cui tutto si produce, tutto si fabbrica, tutto è il risultato congiunto dell’opera della scienza e della tecnica.
La paternità – al contrario – non produce, non fabbrica e non opera secondo i criteri della produzione scientifica e tecnica, poiché la paternità genera nell’amore.
Ecco perché, carissimo Davide, al di là del potere che oggi ti viene conferito – e, come ben sai, ti è donato in modo gratuito – tu sei chiamato ad essere capace di generare la tua comunità – i singoli e la collettività – nell’amore.
Il prete, innanzitutto, è chiamato ad esprimere questo amore paterno che genera nella comunione ecclesiale con un atto d’amore semplice e indiviso; tutto ha inizio dal rapporto sacramentale col Signore Gesù, nel legame col vescovo – fondamento del sacerdozio – e con i confratelli.
Caro don Davide Davide, fra poco rinnoverai le promesse che già hai fatto durante l’ordinazione diaconale, l’impegno del celibato o castità perfetta e dell’obbedienza proprio perché, in te, tutto – attraverso questa duplice donazione – sia scelta indivisa e definitiva per Dio e i fratelli.
Gesù, nel conferire a Pietro la pienezza del potere sacerdotale, non si accontenta di qualcosa, non si ferma a metà strada, non chiede unicamente qualcosa: chiede tutto.
La richiesta di Gesù è chiarissima. Egli chiede senza misura, domanda tutto: ‘Quand’ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pasci i miei agnelli». Gli disse di nuovo, per la seconda volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pascola le mie pecore». Gli disse per la terza volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?». Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli domandasse: «Mi vuoi bene?», e gli disse: «Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene». Gli rispose Gesù: «Pasci le mie pecore. In verità, in verità io ti dico: quando eri più giovane ti vestivi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi». Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E, detto questo, aggiunse: «Seguimi»’ (Gv 21, 15-19).
            Gesù si dona senza misura fino al dono totale di sé: è questo il suo stile. Uno stile che domanda all’apostolo la stessa logica, il dono totale di sé.
Essere padre significa tenere il posto e il luogo di chi ama, di chi perdona, di chi incoraggia, di chi guida. Sì, nella vocazione e nel ministero sacerdotale, è determinante la paternità.
E la paternità del sacerdote è quella che l’apostolo Paolo rivendica per sé dinanzi alla situazione di forti contrasti e divisioni nella comunità di Corinto. Paolo così si esprime: ‘Non per farvi vergognare vi scrivo queste cose, ma per ammonirvi, come figli miei carissimi. Potreste infatti avere anche diecimila pedagoghi in Cristo, ma non certo molti padri: sono io che vi ho generato in Cristo Gesù mediante il Vangelo’ (1Cor 4, 14-15).
Paternità vuol dire intimità; vuol dire conoscenza, presenza, frequentazione ma anche coraggio d’intervenire. Non è esercizio di vera paternità lasciare spazio al timore, che non vuole scomodità ed evita i contrasti; amare il proprio gregge vuol dire indicare la strada giusta, anche quando è la più scoscesa e faticosa da percorrere.
L’immagine del pastore che conosce le sue pecore e che porta in sé l’odore del suo gregge è bella, è realissima e si compie in quella, altrettanto bella, del pastore che spande fra le sue pecore il fragrante profumo di Cristo.
Queste due immagini sono belle e significative e ci consegnano una realtà profonda che deve diventare oggetto di riflessione ed esame di coscienza per ogni sacerdote che voglia essere vivo richiamo dell’unico Sacerdote, il Signore Gesù.
La frase che troviamo inscritta sull’altare maggiore della basilica vaticana – che sorge sulla tomba del principe degli apostoli – ‘hinc unitas sacerdotii exoritur‘, ossia ‘da qui scaturisce l’unità del sacerdozio’, come ha fatto notare il cardinale Leo Joseph Suenens si può anche tradurre ‘da qui inizia la più alta paternità della terra’ (cfr. L. J. Suenens, Chi è costei?, p.76).
Carissimo Davide, ricordati che la paternità, da oggi, appartiene alla tua persona. Essere padre deve essere il tuo impegno e la tua conquista di ogni giorno, anche quando ti capiterà – e non sarà cosa rara – di trovarti al fianco o dinanzi chi non vorrà esserti figlio.
Abbiamo ascoltato il testo della prima lettera ai Corinzi in cui l’apostolo Paolo si rammarica di chi si pone con spirito di ribellione subdola o dichiarata verso di lui, tanto che arriva a scrivere: ‘Come se io non dovessi venire da voi, alcuni hanno preso a gonfiarsi d’orgoglio. Ma da voi verrò presto, se piacerà al Signore, e mi renderò conto non già delle parole di quelli che sono gonfi di orgoglio, ma di ciò che veramente sanno fare. Il regno di Dio infatti non consiste in parole, ma in potenza. Che cosa volete? Debbo venire da voi con il bastone, o con amore e con dolcezza d’animo?’ (1 Cor 4, 18-21).
Sarà questo il momento dell’impegno e della dedizione che ti condurrà ad andare oltre la logica umana per aprirti a quella di Dio, la logica della gratuità che si dona.
La paternità sacerdotale nasce, ovviamente, dalla vera comprensione del sacerdozio inteso non come dominio o affermazione ma come espressione di un potere che sa d’essere tale e sa andare oltre se stesso per esprimersi con la tenerezza di Gesù, il quale dice di imparare da Lui che è mite e umile di cuore (cfr. Mt 11,29).
Il Vangelo secondo Luca esprime così la paternità e dedizione di Gesù che decide di salire a Gerusalemme dove si compiranno i giorni della sua elevazione: ‘‘egli prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme’ (alla lettera: indurì la sua faccia per andare verso Gerusalemme)’ (Lc 9,51).
Gesù consegna poi al gesto della lavanda dei piedi la sua mitezza, la sua umiltà e, insieme, la sua decisione ferma che piegherà anche la resistenza decisa e ribadita di Pietro.
Gesù sapeva, infatti, che quel gesto era essenziale per colui che doveva essere purificato e, quindi, non recede di fronte all’incomprensione ottusa di Pietro fino a quando l’apostolo si dichiarerà disponibile al gesto sacerdotale del maestro.
Gesù sa che il suo inginocchiarsi appartiene al progetto di Dio per la salvezza del mondo e, allora, non rinuncia a compiere quel gesto che, nell’abbassamento, innalza con sé tutta l’umanità.
Il sacerdote sa, quindi, che presiedere l’eucaristia – ossia il segno efficace di Colui che salva il mondo attraverso la croce – comporta la scelta dell’ultimo posto.
Ma così, a ben vedere, l’ultimo posto diventa il primo: il posto di Chi salva non con la potenza e la forza umana ma con ciò che il mondo considera stoltezza, debolezza e fragilità.
Carissimo don Davide, da oggi prenota sempre per te il posto di Gesù, ossia quello che domina il mondo dalla croce: sarai capace, così, di esprimere un sacerdozio ricco di idealità e di identità, non strumentalizzato da ideologie più o meno datate e comunque lontane dall’Evangelo cristiano.         

La Vergine Nicopeia ti guardi, ti benedica e ti accompagni sempre.