Omelia del Patriarca mons. Francesco Moraglia
in occasione dell’apertura diocesana
dell’Anno della Fede (Venezia, 14 ottobre 2012)
Introduzione
Carissimi,
iniziamo l’Anno della Fede con l’ascolto di una parola difficile, la pagina del Vangelo secondo Marco appena letto e che non ci chiede tanto di essere poveri ma di considerare Gesù come l’unica ricchezza. Questo è l’invito rivolto oggi alla Chiesa di Venezia.
L’Anno della Fede è dinanzi alla nostra Chiesa e a ciascuno di noi come grazia, opportunità, compito; il desiderio è viverlo al meglio per essere viva Chiesa del Signore.
Benedetto XVI – nella lettera apostolica Porta fidei che ha indetto l’Anno – riprende l’apostolo Paolo che, al termine della vita, scrive al discepolo Timoteo e lo esorta a ‘cercare la fede (cfr. 2Tm 2,22) con la stessa costanza di quando era ragazzo (cfr. 2Tm 3,15)’ (PF, 15).
E, poi, continua: ‘Sentiamo questo invito rivolto a ciascuno di noi, perché nessuno diventi pigro nella fede: Essa è compagna di vita che permette di percepire con sguardo sempre nuovo le meraviglie che Dio compie in noi‘ (PF, 15).
Questo invito è rivolto alla Chiesa che è in Venezia, al patriarca, ai presbiteri, ai diaconi, ai consacrati, alle consacrate, ai giovani, agli anziani, ai sani, ai malati, a tutti: nessuno escluso. L’Anno della Fede è, innanzitutto, un anno di conversione.
1. L’Anno della Fede: una grazia di conversione
Crescere nella fede vuol dire, semplicemente, appartenere a Dio e testimoniare con la vita battesimale il Signore Gesù; per questo necessitano occhi nuovi che sappiano guardare oltre il momento presente, liberi nel coglierlo secondo la verità e la giustizia.
Ora, la domanda ‘venga il tuo Regno’‘ (Mt. 6,10) – che Gesù pone all’inizio del Padre Nostro – non è, per il cristiano, una via di fuga dinanzi a un presente che, talvolta, può anche esser faticoso. Al contrario, ci invita a compiere qualcosa di concreto attraverso una vita di fede più attenta e generosa con cui, rispondendo alla grazia, si possa vivere il tempo presente comunicandogli il respiro dell’eternità, considerando i piccoli semi di verità e di giustizia che sono intorno a noi.
In questo tempo di grazia – che è l’Anno della Fede – pastori e fedeli sono chiamati a testimoniare personalmente e comunitariamente quanto l’apostolo Paolo, al termine della vita, scrive a Timoteo: ‘So’ in chi ho posto la mia fede e sono convinto che egli è capace di custodire fino a quel giorno ciò che mi è stato affidato‘ (2Tm 1,12).
L’Anno della Fede – indetto da Benedetto XVI per celebrare i cinquant’anni dall’apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II e i vent’anni della promulgazione del Catechismo della Chiesa Cattolica – ci chiama personalmente in causa assieme alla comunità ecclesiale, invitando all’esame di coscienza sul modo in cui vivere e professare la fede oggi.
Benedetto XVI, all’inizio della Lettera apostolica Porta fidei con cui promulga per la Chiesa l’Anno della Fede, così si esprime: ‘La ‘PORTA DELLA FEDE’ (cfr. At 14,27) che introduce la vita di comunione con Dio e permette l’ingresso nella sua chiesa è sempre aperta per noi. E’ possibile oltrepassare quella soglia quando la Parola di Dio viene annunciata e il cuore si lascia plasmare dalla grazia che trasforma. Attraversare quella porta comporta immettersi in un cammino che dura tutta la vita. Esso inizia con il Battesimo (cfr. Rm 6, 4), mediante il quale possiamo chiamare Dio con il nome di Padre’‘ (PF, 1).
Una revisione di vita che voglia essere vera conversione deve qualificarsi, innanzitutto, in termini di critica ‘generosa’, ossia in termini di autocritica. Il che significa: non puntare il dito contro nessuno.
Bisogna superare le recriminazioni, forse anche espressioni di animi ‘storicamente’ amareggiati, certamente di animi non ancora capaci di perdono generoso. Se è il caso, contrastiamo tali stati d’animo con più coraggio, con più fiducia, con più amore, con umiltà e desiderio di riconciliazione. L’Anno della Fede deve cominciare qui.
La questione decisiva, o ‘caso serio’ nel nostro personale cammino verso una fede più matura, richiede di fare nostre sine glossa – ossia senza interpretazioni di comodo – le pagine difficili del Vangelo, cominciando proprio da quelle sul perdono e da quella di Marco che abbiamo appena ascoltato.
Si tratta di far esodo verso la verità di Dio, premessa per ricostruire vere relazioni personali e comunitarie.
Un’idea di tolleranza non fondata sulla verità, alla fine, risulta fuorviante e destinata a condurre prima all’indifferenza e poi alla reciproca estraneità…
(Il testo integrale dell’omelia è contenuto nel file in calce allegato)