Omelia nella S. Messa per la dedicazione della chiesa Cuore Immacolato di Maria (Jesolo, 8 maggio 2014)
08-05-2014
S. Messa per la dedicazione della chiesa Cuore Immacolato di Maria
(Jesolo, 8 maggio 2014)
 
Omelia del Patriarca mons. Francesco Moraglia
Carissimi fedeli della Parrocchia del Sacro Cuore di Jesolo,
oggi stiamo compiendo un gesto che riveste un significato particolarissimo nella vita di una comunità e che è destinato a rimanere nel tempo. Giunge a coronamento un ‘sogno’ pastorale ed ecclesiale che risale a più di quarant’anni fa e che ci rimanda alla bella figura di don Francesco Castorina – ‘fondatore’, padre e, a lungo, parroco di questa comunità – di cui ricorderemo, fra non molto, il decennale della morte.
La consacrazione di questa nuova chiesa – intitolata al Cuore Immacolato di Maria – e del suo nuovo altare è stato poi voluta fortemente da don Italo Sinigaglia che, insieme a tanti parrocchiani, si è impegnato affinché, dopo i muri, tutto si completasse al meglio e si giungesse alla celebrazione liturgica con il rito della consacrazione.
Ringrazio perciò – sentitamente – tutti coloro che, in vario modo, hanno prestato la loro opera o offerto un contributo perché si arrivasse, finalmente, alla sua realizzazione.
Si tratta – come dicevo – di un gesto ricco di significati. L’invito è semplice: lasciar parlare la liturgia, ossia mettersi in ascolto orante delle sue parole, dei suoi segni e dei suoi gesti per comprendere ciò che per molti è ignoto o appare come un mondo inesplorato. Dopo questa celebrazione – credo – sarà possibile, per tutti noi, ricavare un nuovo e più fecondo modo di partecipazione personale e comunitaria alle celebrazioni liturgiche.
La consacrazione di una chiesa e di un altare è un momento unico nella vita di una comunità parrocchiale e offre l’opportunità di fare una riflessione comune sull’adesione al Signore Gesù che, nella sua persona, è il vero tempio. In Lui, infatti, abita – come ci ricorda l’Apostolo Paolo – ‘corporalmente’ la pienezza della divinità: ‘È in lui che abita corporalmente tutta la pienezza della divinità, e voi partecipate della pienezza di lui, che è il capo di ogni Principato e di ogni Potenza’ (Col 2, 9-10).
L’evento della consacrazione della nuova Chiesa è, quindi, occasione per ricentrare la vita dei singoli e dell’intera comunità su di Lui, il Signore Gesù, l’Eterno Sacerdote, l’unico vero Mediatore tra Dio e gli uomini; è da Lui che tutto assume senso e compimento.
Certo, dinanzi a Dio, tutto è sacro poiché tutto viene dalle Sue mani e, alla fine, tutto è a gloria del Suo nome, ma per noi uomini – segnati dal peccato e che viviamo in un mondo distaccato da Dio o che addirittura vede in Dio un antagonista, Qualcuno che limita la libertà dell’uomo – tale evidenza originaria non è più tale; al contrario, risulta appannata se non, addirittura, compromessa.
 
Poiché ci siamo allontanati da Lui, abbiamo smarrito il senso del sacro che è via privilegiata alla santità. Nella Chiesa la sacra scrittura, i sacramenti e i ‘sacramentali’ hanno, infatti, come loro fine la santità dei fedeli e dell’intera comunità.
In realtà, il vero tempio – come abbiamo ascoltato dal Vangelo (Gv 2, 13-22) – è il corpo del Signore di cui l’antico edificio era solo velata profezia, semplice figura, lontano richiamo. L’episodio della cacciata dei venditori è occasione per riflettere su come anche l’edificio chiesa possa essere strumentalizzato rispetto al suo fine proprio, ossia, essere lo spazio fisico e spirituale dell’incontro con Dio. 
La preghiera del prefazio secondo il formulario della messa della dedicazione della Chiesa, si rivolge a Dio, creatore ed immenso, con queste parole: ‘Tu non rifiuti che noi ti dedichiamo una dimora costruita dalle mani dell’uomo per la celebrazione dei santi misteri’ (Prefazio per la dedicazione della Chiesa).
Certo, l’edificio-chiesa è solo una costruzione muraria e non è ancora il tempio vivo e pulsante costituito dalle pietre vive che sono i credenti; comunque – secondo la logica dell’incarnazione – non può esser disatteso il rapporto che unisce pietre, mattoni e Corpo Mistico (il Christus totus).
D’altra parte, anche Francesco d’Assisi iniziò la sua missione pensando di dover ricostruire la piccola chiesa di san Damiano che, per l’ingiuria del tempo e le dimenticanze degli uomini, stava cadendo a pezzi.
Correva l’anno 1205. Le narrazioni raccontano che, durante una sosta in preghiera davanti al Crocifisso della piccola e semidiroccata cappella di san Damiano, il nostro Santo avvertì che il Crocifisso gli rivolgeva questo invito: ‘Va’ e ricostruisci la mia Chiesa che è in rovina!’.
 Inizialmente, Francesco pensò che le parole di Gesù si riferissero al restauro dell’edificio di san Damiano che era quasi distrutto e così Francesco andò nella bottega del padre, prese alcuni tessuti, li vendette e portò il denaro al sacerdote di san Damiano, offrendosi di aiutarlo con le sue stesse mani nella ricostruzione della cappella.
La croce di san Damiano rimase, da allora, legata al Poverello di Assisi, tanto da essere conosciuta anche come ‘Croce di san Francesco’. Stare in contemplazione di essa ci pone nelle condizioni stesse del Poverello e anche a noi chiede di ricostruire la sua Chiesa.
E’ vero, il Crocifisso gli aveva detto: ‘Devi ricostruire la mia Chiesa’. Ma, quasi subito, Francesco comprese che quelle parole non gli domandavano tanto il restauro materiale della chiesa quanto quello spirituale; compito ben più difficile, perché riguarda le pietre vive, ovvero gli uomini e le donne di Chiesa.
Ora, affinché l’edificio sacro sia in grado di svolgere, al meglio, la sua funzione spirituale, tutto in esso deve esser disposto in maniera che la sacralità del luogo, degli arredi e delle celebrazioni diventi eloquente.
L’altare – va ribadito – è il luogo più sacro del tempio e il tabernacolo ne è il prolungamento. Per questo l’impegno dei pastori e dei fedeli dovrà fare in modo che questa chiesa, il suo altare e tabernacolo siano luoghi frequentati e che la comunità parta sempre da essi per annunciare la ‘buona notizia’ del Signore risorto.
 
La celebrazione eucaristica e l’adorazione sono i gesti ‘portanti’ per il cristiano; ogni altro gesto, nella vita del discepolo, è reso possibile da questi. Sì, perché nell’edificio-chiesa si entra per pregare Dio e se ne esce per amare gli uomini.  
Mi colpisce sempre, nella vita del Santo Curato d’Ars, il seguente episodio in cui si comprende come la chiesa, l’altare e il tabernacolo non sono spazi riservati soltanto ai preti, ai frati e alle suore ma sono destinati a tutti coloro che ricercano Dio e lo vogliono tenere presente nella loro vita quotidiana.
Ecco come s’esprime André Dupleix: ‘Conosciamo l’episodio del coltivatore Chaffengeon al quale il curato d’Ars, vedendolo regolarmente posare i suoi attrezzi ed entrare in chiesa, domandò: ‘Che fate amico mio?’ ‘Eh! Signor curato, guardo il Buon Dio ed Egli guarda me”. E Monsieur Vianney concludeva ammirato ogni volta che raccontava il fatto: Egli guardava il Buon Dio e il Buon Dio guardava lui! E tutto qui! L’abate Nodet ha, molto acutamente, riportato la frase al patois originale, nel quale suonerebbe così: ‘J’aveuse’ et il m’aveuse’, che significa guardare sapendo ciò che ha dentro, come lo sguardo che il contadino dà alla sua terra’ (André Dupleix, L’insistenza dell’amore. Il curato d’Ars, pagg. 116-117, Jaca Book 2009).
A tutti auguro d’entrare in questa nuova chiesa per guardare il buon Dio ed essere guardati da Lui.