Omelia del Patriarca nella S. Messa per i funerali di don Antonio Moro (Chiesa parrocchiale S. Lorenzo Giustiniani - Mestre, 09/10/2015)
09-10-2015
S. Messa per i funerali di don Antonio Moro
(Chiesa parrocchiale S. Lorenzo Giustiniani – Mestre, 09/10/2015)
Omelia del Patriarca mons. Francesco Moraglia
Carissimi,
mi rivolgo a tutti ma, in modo particolare, ai confratelli sacerdoti, agli amici e ai familiari di don Antonio.
Oggi siamo tanti in questa chiesa di cui don Antonio fu parroco dal 1963 al 2004, per oltre quarant’anni. Un periodo lungo, ricco di significativi accadimenti ecclesiali, una stagione in cui si sono succeduti fatti che hanno plasmato e ridisegnato la nostra società.
La liturgia della Parola che abbiamo appena ascoltata – nella prima lettura (san Paolo ai Romani) e nel Vangelo (Luca, i due di Emmaus) – ci propone l’essenziale della vita cristiana, ossia il battesimo e l’eucaristia. E l’essenziale ha accompagnato in maniera costante la vita di don Antonio.
Un parroco, con la sua gente, è testimone e, almeno per taluni versi, anche artefice delle mutazioni che accompagnano la vita della sua comunità parrocchiale e del quartiere. È colui che, per primo e in prima linea, è chiamato ad impegnarsi affinché la sua comunità diventi luogo d’incontro, iniziando proprio dal tenere aperte anche le porte materiali dell’edificio-chiesa; tale apertura è un bel segno, che non va disatteso nel suo chiaro significato di prima accoglienza. È triste, infatti, vedere una chiesa ridotta a museo o a edificio in cui è possibile accedere solo in brevi e circoscritti momenti della giornata.
Il parroco – come s’esprime la nostra gente – viene, non di rado, indicato con affetto come il “nostro prete” oppure il “il nostro don”. Infatti, il prete-parroco è  il sacerdote che porta in sé – nelle sue parole, nei suoi gesti, nel suo stile e nella sua vicinanza alle persone – una peculiare paternità per quella comunità presso la quale rende presente il Vescovo e, quindi, la Chiesa particolare; don Antonio fu, a pieno titolo, espressione di tale paternità.
La biografia di don Antonio ci dice, infatti, che egli fu soprattutto parroco. Una volta, dopo aver portato a termine l’incarico di vicario economo, con cui preparava l’ingresso come parroco di un confratello – si trattava della parrocchia di S. Giuseppe -, così si espresse: “I superiori hanno detto: abbiamo visto che non solo sei bravo nello studio e nell’insegnamento, ma sai anche gestire bene una parrocchia”. E ciò lo riempiva di gioia.
Amava molto lo studio, pur non rispondendo allo stereotipo del prete intellettuale che gode nel sentirsi riconoscere tale e, alla fine, è gratificato dei titoli accademici e dell’essere docente.
La paternità spirituale apparteneva a don Antonio che aveva avuto in dono una  umanità viva e capace di sentimenti profondi. Il meglio di sé lo dava nell’incontro con le persone, nella ricerca del dialogo; era solito curare con particolare attenzione l’omelia e la catechesi.
Don Antonio ha fatto il prete e il parroco con il cuore ma, anche, con la testa. Tanto che diceva: “È stato un vero dono essere il fondatore della parrocchia, così da crescere sacerdoti e laici, per formare la comunità”.
La sua gioia più grande è stata l’aver potuto accompagnare la vocazione di don Giacomo; amava l’Africa, seguiva da vicino ed aiutava queste terre così povere e bisognose di tutto e le aiutava con i suoi mezzi personali. Riteneva, inoltre, cosa normale che un prete si facesse carico, almeno parzialmente, del mantenimento di un seminarista.
Come già detto, amava lo studio e ne avvertiva il bisogno, mai lo tralasciò anche quando gli impegni pastorali erano diventati più intensi. Considerava lo studiare come necessario nella vita del prete, l’atto che gli consentiva di rispondere al meglio alla sua missione nel momento in cui la fede si univa all’esercizio critico della ragione; lo studio era, per lui, parte integrante del ministero, sia nell’incontro con i credenti sia con i non credenti alla ricerca di un senso nella loro vita.
Apprezzava le cose belle, le gustava e amava servirsi dell’arte per trasmettere la fede; ricordo, a tale proposito, le sculture di Aricò sulla creazione che volle donare proprio a questa chiesa. Fu assistente di movimenti cattolici: Fuci, Laureati cattolici, Maestri cattolici. E insegnò anche alla Scuola di Teologia per Laici.
Don Antonio fu docente di religione cattolica al Franchetti e in questo delicato servizio vi trasfuse tutta la passione che lo caratterizzava come prete. Era conscio che quell’ambiente, per taluni versi, era pregiudizialmente avverso alla fede, ma questo non lo scoraggiava ed anzi diventava, per lui, motivo di un impegno più grande. E al termine di questa esperienza ci teneva a dire: “Mai avuti problemi, né con gli insegnati, né coi colleghi…”.
In una conversazione mi disse che, dinanzi a questioni che lo interessavano e che voleva approfondire, era solito telefonare per chiedere lumi agli specialisti ma concludeva, con un lampo di ironia negli occhi e uno sguardo tra l’indagatore e il divertito, che – alla fine delle telefonate – i punti oscuri se non erano aumentati certamente non erano diminuiti e, a quel punto, sorridendo diceva (alludendo agli specialisti): “Allora… io mi chiedo…”. E quella frase – ricordo – è rimasta volutamente sospesa.
Nelle persone apprezzava l’intelligenza e l’umiltà, anche nei superiori. I suoi occhi erano vivaci, sempre in movimento, indagatori. Amava coinvolgere l’interlocutore, provocandone la reazione, forse con l’intento sacerdotale di conoscerne l’animo.
Nella Liturgia della Parola che abbiamo ascoltata, tanto la prima lettura quanto il Vangelo ci propongono l’essenziale della vita cristiana, ossia il battesimo e l’eucaristia e, proprio per questo, si adattano bene alla bella figura cristiana e sacerdotale di don Antonio. Il battesimo e l’eucaristia, infatti, sono l’essenziale nella vita del cristiano e del prete e don Antonio amava l’essenziale.
La prima lettura, inoltre, ci propone un passo che riproduce le ultime faticose settimane di don Antonio, durante le quali è stato veramente chiamato ad unirsi al Signore Gesù in croce: “Se infatti siamo stati intimamente uniti a lui a somiglianza della sua morte  – dice il testo ai Romani – , lo saremo anche a somiglianza della sua risurrezione” (Rm 6,6). Non sono stati semplici gli ultimi giorni di vita di don Antonio; sono stati, anzi, un  tempo di purificazione intensa nel dono totale di sé.
Fino a quando è stato capace di comunicare – con le parole e lo sguardo – don Antonio ha però sempre mostrato la sua fede. Anche se provato e affaticato, tutte le volte che lo si invitava a una preghiera lo faceva volentieri; mai ho colto, sul suo volto, impazienza o ribellione a quella sofferenza sempre più palpabile; tutto scrutava con lo sguardo che appariva sempre più lontano dalle persone e dalle cose.
Desidero qui ringraziare don Guido che lo ha accompagnato, passo passo, fino all’incontro col Signore; sì, giorno dopo giorno, come un amico, un fratello, un figlio. Sono belle e danno gioia queste testimonianze di vicinanza e di amicizia sacerdotale. Grazie, don Guido.
Caro don Antonio, arrivederci! La nostra fede ci impone questo saluto. E ricordaci al Signore, presso il quale speriamo che tu sia già nella gioia che ormai nessuno può toglierti.