Omelia nella S. Messa in occasione dell'accoglienza a Venezia dell'urna di S. Giovanni Bosco (Basilica cattedrale di S. Marco - 12 dicembre 2013)
12-12-2013
S. Messa in occasione dell’accoglienza a Venezia dell’urna di S. Giovanni Bosco
(Basilica cattedrale di S. Marco – 12 dicembre 2013)
Omelia del Patriarca mons. Francesco Moraglia
Nella gioia di questa eucaristia che possiamo celebrare davanti alle venerate spoglie di S. Giovanni Bosco, desidero oggi soffermarmi su una sua capacità particolarissima: quella di circondarsi di persone dalle quali sapeva sempre tirar fuori il meglio.
Questo aspetto della figura di S. Giovanni Bosco, nel momento in cui siamo alle prese con la sfida educativa, è davvero attualissimo. Don Michele Rua e don Giovanni Cagliero sono due tra i tanti possibili esempi in una schiera innumerevole di ragazzi o, meglio, di amici di don Bosco diventati suoi collaboratori, suoi figli.
L’educazione – soprattutto in questo decennio che la Chiesa italiana dedica proprio a questo tema -, sembra dirci don Bosco, non prescinde mai da un cuore amico; non prescinde mai dal desiderio sincero di fare in modo che una persona trovi la sua vocazione e questo avviene quando l’educatore sa dare fiducia ed investe su colui che è chiamato a guidare.
Giovanni Cagliero era dello stesso paese di Don Bosco. Erano così numerose le famiglie Caliero a Castelnuovo d’Asti che la famiglia di Giovanni aveva assunto – come succede spesso nei paesi – un soprannome, quello dei Prinzi. I genitori erano modesti contadini. Giovanni crebbe gioioso, sereno, educato religiosamente dalla sua famiglia fino a quando nel 1850 – aveva 12 anni – conobbe Don Bosco che, di frequente, tornava al paese a predicare tra i compaesani. In una di queste venute Giovanni Cagliero chiese a Don Bosco di portarlo con sé a Torino, all’oratorio, per diventare prete.
Ecco, dalla viva voce di Giovanni Caliero il ricordo di quel primo incontro: ‘Lo vidi per la prima volta nel 1850 sulle colline di Morialdo e di Castelnuovo d’Asti, mio paese. Avevo dodici anni. Era circondato dal signor Prevosto, dal mio maestro e da altri sacerdoti dei dintorni e mi accorsi che lo colmavano di attenzioni. L’impressione che io ricevetti fu quella di riconoscere in Don Bosco un sacerdote di merito secolare, sia per il modo e l’attrattiva con cui mi accolse sia per il rispetto e l’onore con cui veniva trattato dal mio Parroco e dai miei maestri, sia a Castelnuovo sia dagli altri sacerdoti. Impressione che in me non si cancellò ne diminuì mai ma crebbe sempre più nei trentadue anni che stetti al suo fianco’. Questa la prima impressione di Giovanni Cagliero.
I biografi riportano poi una simpatica conversazione tra don Bosco e la mamma Teresa.  Don Bosco: ‘Volete vendermi il vostro Giovannino?’. Alla domanda-scherzo di don Bosco la mamma rispose: ‘I bambini non si vendono, si regalano’.
Giovanni Cagliero scese così a Torino, a Valdocco. Fu accudito da mamma Margherita e, nonostante la sua vivacità, fu docile sempre agli insegnamenti di don Bosco. Divenne sacerdote a ventiquattro anni e per tredici anni fu un vulcano di idee, progetti, realizzazioni.
A trentasette anni don Bosco gli affidò le nascenti missioni salesiane di Patagonia, dall’altra parte del mondo. Don Bosco sapeva dare fiducia e capiva che, quando il legno è buono, la fiducia si può dare presto ed è inutile tergiversare in lunghe preparazioni se non ci sono le doti del cuore e dell’anima.
Don Cagliero aprì una parrocchia per gli emigrati italiani nella zona più povera di Buenos Aires; dopo nove anni di permanenza in Sudamerica fu consacrato vescovo, vicario apostolico per la Patagonia.
Dietro ad una battuta, dietro ad una conversazione scherzosa, dietro ad un sorriso c’è sempre il cuore di una persona. L’educazione, l’incontro che ti cambia una vita, all’opera in un cuore che vuole bene: questo è don Bosco.
La stessa logica – il cuore che ama e che, quindi, suggerisce una strada simpatica per superare la diffidenza, l’estraneità e la lontananza – è protagonista anche nell’incontro con don Michele Rua, che potremmo sintetizzare in questa frase di don Bosco: ‘Prendi Michelino, prendi!’.
Questo secondo incontro avviene nell’autunno del 1845, cinque anni prima del precedente. Siamo presso i molini in città, i ‘molassi’, nella zona di Porta Palazzo. Solo, in disparte, c’è un ragazzino di appena otto anni che porta una vistosa fascia nera al braccio; due mesi prima gli è morto il papà. Non ha voglia di scherzare. Don Bosco sta distribuendo le medaglie ai suoi ragazzi che si accalcano per riceverle. Michele non ne ha voglia, non si sente, non vuole intrufolarsi nel gruppo, rimane in disparte.
Finite tutte le medaglie, don Bosco tende la mano ormai vuota e dice a Michelino: ‘Prendi, prendi!’. E lui: ‘Ma prendo che cosa’. Quel prete ‘strano’ non da nulla a Michelino, perché la mano è vuota, ma a ben vedere gli sta dando la cosa più importante: la sua mano! E, mentre con la mano sinistra va verso quella di Michelino, con la destra fa il segno di tagliargliela in due e poi aggiunge: ‘Noi faremo sempre a metà di tutto!’.
Non sappiamo che cosa in quel momento don Bosco avesse intuito, avesse capito o abbia voluto dire. Di fatto, quel Michelino divenne il braccio destro di Don Bosco, il suo primo successore alla guida della grande famiglia salesiana allora nascente.
Carissimi, la sfida educativa: don Bosco, come fu l’oratorio, fu anche nella sua persona ‘progetto educativo’. La sfida educativa: imparare ad incontrare l’altro come amico con cui condividere tutto, pur rimanendo educatore. Questo è il grande messaggio, questo è il grande carisma di quell’uomo di cui abbiamo il corpo dinanzi a noi.
Un grazie sentito all’Ispettoria salesiana e all’Ispettore Maggiore per questa idea e per farci incontrare – in questo tempo che precede i duecento anni di anniversario di nascita del carissimo don Bosco – questo uomo, le sue idee, il suo coraggio, il suo cuore, la sua proposta evangelica ed umana. Grazie don Bosco.