Omelia del Patriarca nella S. Messa in occasione della Tredicina di Sant’Antonio e nella solennità della SS. Trinità (Padova / Basilica di Sant’Antonio, 4 giugno 2023)
04-06-2023

S. Messa in occasione della Tredicina di Sant’Antonio e nella solennità della SS. Trinità

(Padova / Basilica di Sant’Antonio, 4 giugno 2023)

Omelia del Patriarca di Venezia Francesco Moraglia

 

 

 

Cari fratelli e sorelle,

celebriamo questa sera la liturgia della domenica della Santissima Trinità e, nello stesso tempo, avanziamo nella Tredicina in preparazione alla festa di sant’Antonio.

Appena concluso il tempo pasquale, siamo rientrati nel tempo “ordinario”, il tempo in cui non si celebra un mistero particolare (come avviene a Natale o a Pasqua) ma, piuttosto, si vive nella liturgia e, quindi, nella vita della Chiesa, l’ordinarietà della salvezza donata dal Cristo risorto.

Nell’odierna festa della Santissima Trinità, la Chiesa fa memoria di quello che è il mistero per eccellenza e da cui ogni altro mistero proviene; è questo, infatti, il mistero fondante e tutto dipende da esso e lo presuppone. È, dunque, un messaggio chiaro quello che la Chiesa – attraverso l’anno liturgico – ci indica con l’odierna solennità.

Siamo, secondo la logica del libro dell’Apocalisse, nel tempo del “già e non ancora”: il “già” della salvezza acquisita da Cristo e il “non ancora” che riguarda la medesima salvezza che dobbiamo fare nostra e annunciare.

Il libro dell’Apocalisse evidenzia che, per il cristiano, questo è il tempo della testimonianza e della prova; è tempo di evangelizzazione, ossia di testimonianza nella tensione della continua “novità” di Dio che già abita la nostra storia e che, nella speranza, attende la sua manifestazione.

Andiamo, ad esempio, al capitolo 21 del libro dell’Apocalisse dove troviamo la visione di “cieli nuovi”, “terra nuova” ed anche della “nuova” città di Gerusalemme, che risplende come la città di Dio e del suo popolo redento: “Ecco la tenda di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro ed essi saranno suoi popoli ed egli sarà il Dio con loro, il loro Dio”. È una città in cui “il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello sono il suo tempio. La città non ha bisogno della luce del sole, né della luce della luna: la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello. Le nazioni cammineranno alla sua luce, e i re della terra a lei porteranno il loro splendore. Le sue porte non si chiuderanno mai durante il giorno, perché non vi sarà più notte“ (Ap 21, 3. 22-25).

Lo stesso libro dell’Apocalisse, in un’ideale congiunzione con le vicende pasquali narrate dai Vangeli e dagli Atti degli Apostoli, ci presenta il Signore come “il Primo e l’Ultimo, e il Vivente. Ero morto, ma ora vivo per sempre e ho le chiavi della morte e degli inferi” (Ap 1,17-18). Sì, il Signore ha le chiavi della storia ed ecco, allora, il mistero trinitario di Dio che è posto al centro della nostra vita nel momento in cui si passa dal tempo pasquale a quello “ordinario”.

La salvezza realizzata nella storia ha origine in Dio Padre che manda il Figlio nello Spirito Santo; è un’azione salvifica trinitaria (Padre, Figlio e Spirito Santo) e tutto ciò lo ricordiamo e rendiamo vivo in ogni Eucaristia quando, alla fine della preghiera del canone, chi presiede proclama: “Per Cristo, con Cristo e in Cristo, a te, Dio Padre onnipotente, nell’unità dello Spirito Santo, ogni onore e gloria per tutti i secoli dei secoli”.

Ci unisce e ci rimanda a tutto ciò una frase di sant’Antonio, tratta da un suo Sermone in cui si riferisce ad Agostino, uno dei massimi Padri della Chiesa; annota Antonio: «Dice infatti Agostino: “Che io ti ricordi, che io ti comprenda, che io ti ami”. L’uomo è stato fatto ad immagine e somiglianza di Dio: immagine per la conoscenza della verità, somiglianza per l’amore della virtù. Quindi la luce del volto di Dio è la grazia della giustificazione, di cui viene insignita l’immagine creata. Questa luce è tutto e il vero bene dell’uomo, con il quale viene come contrassegnato, come il denaro lo è con l’effigie del re» (Sant’Antonio, Sermoni domenicali. Domenica XXIII dopo Pentecoste, paragrafo 10).

Sant’Antonio, innanzitutto, ci insegna ad attingere alla tradizione della Chiesa ritornando alla sapienza e alla grandezza dei Padri. Sì, insegna la dimensione ecclesiale della fede; dobbiamo ascoltare la Chiesa perché è in essa che riceviamo la rivelazione e, nella fede, rispondiamo. La Chiesa è così lo spazio in cui preghiamo bene, aprendoci al “noi” orante della Chiesa.

Il Santo prosegue, poi, la riflessione osservando che “l’uomo è fatto ad immagine e somiglianza di Dio: immagine per la conoscenza della verità, somiglianza per l’amore della virtù” (cit.). La grande sfida del nostro tempo della tecnoscienza (intelligenza artificiale ecc.) riguarda Dio ed è proprio qui che si dà la salvaguardia dell’umano e la ricostruzione dell’uomo.

Il Vaticano II – indicato come Concilio “ecclesiologico” – presenta la Chiesa “in Cristo” come il “sacramento, ossia il segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano” (Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione dogmatica Lumen gentium n. 1).

E ricordiamo che la prima costituzione del Concilio riguarda proprio la liturgia in cui l’adorazione è atto fondamentale e dove si afferma la centralità dell’Eucaristia come azione di grazie e lode a Dio per il dono di Cristo nello Spirito Santo (cfr. Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione Sacrosanctum Concilium n. 6), attraverso i segni del nutrimento: il pane cibo fondamentale e il vino simbolo della vita.

Il nostro tempo ha bisogno, proprio, di riscoprire Dio e, di conseguenza, la fede pensata, vissuta e annunciata: è la dimensione imprescindibile dell’antropologia cristiana, vale a dire l’uomo figlio di Dio, in comunione con Dio Trinità.

Antonio di Padova parla di “conoscenza della verità” e di “amore della virtù”. Nel nostro tempo, in cui appare evidente una crisi della ragione, sempre più tutto si riduce a ragione “calcolante”, a calcolo, a verifica sperimentale senza, però, mettere in questione la verifica e le sue conseguenze…

Vi è, quindi, una carenza nella ricerca e nella domanda autentica di verità, nella ricerca e nella scoperta del bene e del male. E sempre più si avverte la necessità di una ragione che sia capace di senso di giudizio morale, ossia sia in grado di farsi carico del bene e del male.

In una società che dà rilievo al sapere, in cui conta il conoscere, il posto riservato all’ “amore per la virtù” non può essere disatteso poiché senza virtù si giunge ad una ragione disumanizzante.

Le relazioni umane, infatti, non potranno fare a meno della misericordia e della solidarietà; in una parola, della virtù.

Il Vangelo di questa domenica riprende un frammento del dialogo di Gesù con Nicodemo: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio, unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16).

Ma, se leggiamo l’intero dialogo, Gesù parla a Nicodemo di un giudizio, di luce e di tenebre, di bene e di male. E aggiunge: “…chi fa la verità viene verso la luce” (Gv 3,21). Questo significa che non basta sapere la verità, bisogna “farla”.

C’è bisogno di una ragione capace di esprimere un sapere sensato, non solo “calcolante”, insieme ad una vita virtuosa, ossia buona; è la visione di uomo che anche oggi ci indica Antonio e che sgorga dalla Trinità di cui l’uomo è il riflesso.

L’immagine e la somiglianza di Dio sono fatte di verità e di amore, di virtù e valori umani; amore, verità, virtù e ragione aperte sul Mistero, nell’incontro con un Dio che è, insieme, Logos e Agape, Verità e Amore.