Omelia nella S. Messa in occasione della festa di S. Camillo de Lellis (Istituto S. Camillo / Venezia - Alberoni, 10 luglio 2014)
10-07-2014
S. Messa in occasione della festa di S. Camillo de Lellis
(Istituto S. Camillo / Venezia – Alberoni, 10 luglio 2014)
Omelia del Patriarca mons. Francesco Moraglia
 
 
Carissimi,
a 400 anni dalla morte, san Camillo ci viene incontro con tutta la sua attualità e freschezza. Guardando alla sua vita viene spontaneo mutare il noto detto “Corruptio optimi pessima est” nel suo opposto, vale a dire “Conversio pessimi optima est”. Certamente ogni santo è il frutto della Grazia: è così per ogni santo ma per alcuni ciò è vero in modo particolarissimo. Per san Camillo questo è vero all’ennesima potenza.
A 20 anni Camillo – che aveva ricevuto questo nome dalla mamma che lo aveva partorito in età molto avanzata – era considerato dai più come “fantastico, liberotto, bizzarro” che, non lasciamoci ingannare, nel linguaggio dell’epoca voleva dire “scriteriato, violento, imprevedibile”. Eppure Camillo era capace pure di grandi gesti di generosità anche se non sbagliava chi – umanamente parlando – considerava Camillo, ad appena 24 anni, un uomo finito.
Si racconta che, di compagnia in compagnia, scenderà sempre più la scala della dignità anche militare, arruolandosi in bande malfamate, e nel 1574, appena scampato da un naufragio e sceso a terra a Napoli, fu preso da una tale frenesia da giocarsi letteralmente tutto: la liquidazione del congedo, la spada, l’archibugio, il mantello… Letteralmente perse anche la camicia e finì randagio come un cane, vagabondando senza meta, con vergogna, rubando, elemosinando davanti alle chiese con “infinito rossore”.
Alla fine dovette adattarsi a lavorare per la costruzione di un convento di cappuccini, conducendo due giumenti carichi di pietre, calce ed acqua per i muratori. Rifiutava la fatica con tale violenza da mordersi le mani per la rabbia ma la vicinanza di quei frati, appena riformati e ancora nel pieno del loro fervore, non gli era indifferente. Già nel passato, quando si era preso in battaglia qualche terribile spavento, aveva fatto un mezzo voto subito rimangiato, di farsi frate.
            Dio, però, evidentemente non lo voleva tra i figli riformati di san Francesco tanto che i cappuccini, più volte, respinsero la sua richiesta. Una dolorosissima piaga, che si era aperta nella gamba e che non voleva guarire, lo portò a conoscere parecchi ricoveri, quelli che allora erano gli ospedali. In una cronaca del ‘600 ci viene dato uno spaccato eloquente della situazione disastrosa di chi era ricoverato in tali luoghi, lasciato alla “cura” di mercenari, di persone che non avevano altra possibilità di guadagnarsi da vivere o, ancora, di delinquenti costretti per forza a prestare la loro opera in quei luoghi da cui tutti rifuggivano con orrore.
Quei luoghi, insomma, potevano essere considerati tutto fuorché luoghi di cura, di accoglienza, di conforto. Ma la grazia muta, trasforma, rigenera e Camillo fu strumento di cui Dio si servì per far comprendere come in ogni epoca e ad ogni latitudine ciò che fa la differenza non è la struttura, che viene in un secondo momento, ma l’anima, il cuore, con cui si fanno le cose. Camillo faceva non per qualcosa ma per qualcuno.
Si narra che una notte Camillo era inginocchiato davanti “a un povero infermo ch’aveva un così pestifero e puzzolento canchero in bocca, che non era possibile tollerarsi tanto fetore, e con tutto ciò esso Camillo, standogli appresso a fiato a fiato, gli diceva parole di tanto affetto, che pareva fosse impazzito dell’amor suo, chiamandolo particolarmente: Signor mio, anima mia, che posso io fare per vostro servigio? Pensando egli che fosse 1’amato suo Signore Gesù Cristo…”. E un testimone diceva: “L’ho visto più volte piangere per la vehemente commozione che nel poverello fosse Cristo, cosicché adorava l’infermo come la persona del Signore”. E ogni tanto gridava: “Più cuore, voglio vedere più affetto materno”. Oppure: “Più anima nelle mani”.
Ancora si racconta che non voleva giorni di riposo e, quando lo obbligavano, perché non si sfinisse, tornava di nascosto.         Si portava addosso attaccato alla veste tutto ciò che poteva servire ai suoi malati: dall’acqua benedetta al libro per raccomandare l’anima degli agonizzanti, all’acqua da bere, agli orinali; e perfino una “concolina di rame dove potessero, senza loro incomodo, sputare”. Erano davvero i paramenti e gli strumenti della sua liturgia.
A volte, mentre imbocca i malati, Camillo racconta loro i suoi peccati perché è convinto di raccontarli direttamente al Signore. Ecco un’altra testimonianza: “Quando pigliava alcuno di loro in braccio per mutargli le lenzuola, lo faceva con tanto affetto e diligenza che pareva maneggiare la persona stessa di Gesù Cristo”. E non lasciava mai un malato che aveva servito senza baciargli le mani o il volto. Non sapeva più cosa fare per loro!
Chi lo ha conosciuto diceva che “se cento mani havesse egli havuto, tutte e cento le avrebbe impiegate e occupate in quel servizio”. Anche se non sempre riceveva riconoscenza, anzi… Divenuto vecchio, infatti, dirà ai suoi frati: “Ho ricevuto spesso pugni, schiaffi, sputi e villanie di ogni genere dagli infermi, con mio grande contento del resto e allegria, perché gli infermi mi possono non solo comandare ma far bravate, dirmi ingiurie e villanie come miei legittimi padroni”.
L’azione di Camillo non era, come non di rado avviene, l’incontro tra una “malattia” e una “competenza”, ma piuttosto tra chi è povero e bisognoso e chi sa di essere arricchito, in questa vita e nella vita eterna, da quella povertà e da quel bisogno.
            Al termine della sua vita Camillo avrà fondato 14 conventi, avrà preso la responsabilità di otto ospedali (di 4 completamente) e avrà con lui 80 novizi e 242 religiosi professi. Ormai vecchio si ritira da ogni incarico di superiore e chiede di potere abitare e morire nell’ospedale di “Santo Spirito” per poter chiudere gli occhi tra i suoi poverelli. Al generale dei Carmelitani Scalzi che va a trovarlo dirà: “Sono stato un gran peccatore, giocatore e uomo di mala vita”. Ma potrà anche dire di sé: “Da che Dio mi ha illuminato e chiamato al suo servizio non mi ricordo, per grazia del Signore, d’aver mai commesso peccato mortale e neppure veniale volontario”.
L’attualità di san Camillo, a 400 anni dalla sua morte, è più che mai viva e pulsante. Ed è qualcosa che non si pone in alternativa alla competenza e all’intelligenza ma le completa, con l’anima e il cuore. Senza anima e cuore, la competenza e l’intelligenza rimangono le grandi incompiute dell’uomo, insufficienti e carenti di fronte alle domande di chi – proprio nel tempo della malattia – rivendica la sua umanità che mai preclude dal cuore e dall’anima.