Omelia nella S. Messa in occasione del saluto a mons. Brian E. Ferme (Chiesa parrocchiale S. Moisè / Venezia, 11 luglio 2014)
11-07-2014
S. Messa in occasione del saluto a mons. Brian E. Ferme
(Chiesa parrocchiale S. Moisè / Venezia, 11 luglio 2014)
Omelia del Patriarca mons. Francesco Moraglia
 
 
 
 
Carissimo Monsignore,
grazie della sua amicizia e del buon ricordo che lascia in ciascuno di noi dopo questi brevi, ma intensi, anni veneziani.
Per noi questo momento si caratterizza come un “saluto” e un “ringraziamento”, ma anche come un’ “opportunità” per riflettere: la nostra vita è fatta di incontri e, anzi, è una serie continua di incontri.
Innanzitutto l’incontro mi svela all’altro, in ogni incontro io dico all’altro chi sono, e poi di ogni incontro rimane un ricordo che è la sintesi, la somma, di quello che ciascuno di noi ha rappresentato e rappresenta per l’altro. ha detto e dice di sé all’altro.
Per un certo verso questo incontrarsi e condividere un tratto di strada insieme per poi.. ripartire costituisce – almeno in parte, non totalmente – la cifra della nostra vita.
Diventa allora decisivo il contenuto dell’incontro perché è proprio la qualità dell’incontro stesso che si sedimenta nel ricordo e, anzi, lo genera. Lasciare un buon ricordo, quindi, non è solo questione di forma o di furbizia (non si sa mai!) o di galateo… ma di vita, di buon vivere.
Il buon ricordo è l’esito del dono che ho saputo fare di me all’altro. Lasciare un buon ricordo di sé all’altro non significa aver fatto quello che l’altro si aspettava o, addirittura, pretendeva ma il grado di umanità, verità, giustizia, affabilità e competenze che ha saputo dire e dare! 
I nostri incontri ci plasmano, ci cambiano, ci rendono più umani. Appartiene all’uomo la storicità; nessuno di noi, infatti, è lo stesso di tre, cinque o dieci anni fa. Le mie esperienze (buone o cattive) e i miei incontri (mai indifferenti) concorrono a plasmare la mia storia, la mia vita, il mio io!
San Benedetto – di cui oggi celebriamo la festa liturgica – non ha recriminato lamentandosi che la sua era un’epoca di decadimento culturale, sociale e politico: la fine dell’Impero Romano d’Occidente.
No! Benedetto ha incontrato quest’epoca di crisi, di decadenza morale-valoriale, culturale, politico e ha cercato di travasare in essa la sua capacità di verità, di giustizia, di conoscenze-competenze, di affabilità.
La regola di Benedetto – ora et labora – è sintesi di totalità: l’uomo non è mai qualcosa di uni-dimensionale! Tante crisi di tipo esistenziale – anche in stagioni della vita in cui non lo immagineremmo – nascono da questa uni-dimensionalità dell’uomo.
Ora et labora: prega e lavora, che si può rileggere anche come fede e ragione, oppure grazia e responsabilità o grazia e natura. C’è una civiltà che sgorga da qui.
            Soffermiamoci ora qualche momento sulla figura di san Benedetto, il quale compì i primi studi a Roma ma poi, deluso dalla vita della città, si ritirò a Subiaco dove rimase per circa tre anni in una grotta – il “sacro speco” – dedicandosi interamente a Dio. A Subiaco, partendo dei ruderi della grande villa dell’imperatore Nerone e insieme ai suoi primi discepoli, costruì alcuni monasteri dando vita ad una comunità fraterna fondata sul primato dell’amore di Cristo, nella quale appunto la preghiera e il lavoro si alternavano armonicamente a lode di Dio. Alcuni anni dopo, a Montecassino, diede forma compiuta a questo progetto mettendolo per iscritto nella sua “Regola”.
“Tra le ceneri dell’Impero Romano, Benedetto, cercando prima di tutto il Regno di Dio, gettò, forse senza neppure rendersene conto, il seme di una nuova civiltà che si sarebbe sviluppata, integrando i valori cristiani con l’eredità classica, da una parte, e le culture germanica e slava, dall’altra. C’è un aspetto tipico della sua spiritualità… Benedetto non fondò un’istituzione monastica finalizzata principalmente all’evangelizzazione dei popoli barbari, come altri grandi monaci missionari dell’epoca, ma indicò ai suoi seguaci come scopo fondamentale, anzi unico, dell’esistenza la ricerca di Dio: “Quaerere Deum”. Egli sapeva che quando il credente entra in relazione profonda con Dio non può accontentarsi di vivere in modo mediocre all’insegna di un’etica minimalistica e di una religiosità superficiale. Si comprende, in questa luce, l’espressione che Benedetto trasse da san Cipriano e che sintetizza nella sua Regola (IV, 21) il programma di vita dei monaci: “Nihil amori Christi praeponere”, “Niente anteporre all’amore di Cristo”. In questo consiste la santità, proposta valida per ogni cristiano e diventata una vera urgenza pastorale in questa nostra epoca in cui si avverte il bisogno di ancorare la vita e la storia a saldi riferimenti spirituali” (Benedetto XVI, Angelus del 10 luglio 2005).
            Il nostro augurio, caro Monsignore, è quindi un augurio benedettino. A Roma – la città che deluse san Benedetto nei suoi anni giovanili e in cui attendeva ai suoi studi – Ella sappia intanto non rimanere deluso e poi, secondo la lettera e lo spirito della Regola, “Nihil amori Christi preponere”. Ossia: niente anteporre all’amore di Cristo.