Omelia nella S. Messa in occasione dei giubilei sacerdotali (Venezia - Basilica della Salute, 7 giugno 2013)
07-06-2013
S. Messa in occasione dei giubilei sacerdotali
(Venezia – Basilica della Salute, 7 giugno 2013)
Omelia del Patriarca mons. Francesco Moraglia
Carissimi confratelli,
a voi che quotidianamente vi spendete nel ministero che vi è stato affidato dal Buon Pastore, il mio ringraziamento per quanto fate a servizio della Chiesa che è in Venezia.
In particolare, per voi festeggiati – che oggi ricordate i venticinque, i cinquanta e i sessant’anni di ordinazione – al ringraziamento si unisce la preghiera e l’augurio più cordiale. Un pensiero particolare va al Patriarca emerito Marco che ricorda i 65 anni di servizio al Signore.
Desidero innanzitutto precisare una cosa che mi sta molto a cuore: i giubilei sacerdotali o sono momenti di verità o non sono momenti degni di essere vissuti. Soprattutto, i giubilei sacerdotali non sono feste private per i singoli che li celebrano ma sono un momento di festa per l’intero presbiterio.
Dobbiamo ragionare così: siamo sacerdoti con gli altri, formiamo un presbiterio sotto la guida del vescovo. Ne starà meglio anche la nostra azione pastorale.
Tali ricorrenze sempre più devono essere colte in prospettiva ecclesiale; infatti, non si è preti per sé e non si è preti da soli, ma sempre insieme ai confratelli all’interno del presbiterio, si è preti per la gente a cui si è mandati. Invito tutti, me per primo, a fare su questo un esame di coscienza.
I giubilei sacerdotali, alla fine, sono un evento ecclesiale che riguarda l’intera Chiesa particolare e, quindi, come tali, vanno compresi e vissuti.
 I venticinque, i cinquanta e i sessant’anni che oggi ricordiamo ci riportano al momento in cui – nella vita di alcuni fra i presenti – è iniziato un nuovo rapporto col Signore e coi fratelli.
I giubilei sono un momento di grazia che consente di verificare se, in noi, è viva tale consapevolezza. E, così, nel momento in cui ricordiamo questi anniversari possiamo dire il nostro ringraziamento al Signore per una grazia a noi data in modo del tutto immeritato.
 Con l’ordinazione sacerdotale, infatti, siamo stati posti non più solo nella Chiesa ma anche di fronte alla Chiesa (cfr. Pastores dabo vobis, n.16); infatti, assumendo una nuova e reale somiglianza nei confronti di Gesù capo e sposo della Chiesa, lo rendiamo presente tra i fratelli.
Nell’anniversario dell’ordinazione il sacerdote è chiamato, anzitutto, ad esprimere, senza simulazioni, la gioia d’essere prete; non la soddisfazione o l’appagamento per un particolare ufficio ricoperto ma, semplicemente, la gioia d’essere prete.
 Inoltre il giubileo sacerdotale condiviso, celebrato e festeggiato con i propri confratelli dice la gioia d’essere prete insieme a loro. Il sacerdozio, infatti, è qualcosa che si vive con i confratelli, nel presbiterio diocesano, a partire dal sacerdozio del vescovo che è, appunto, il grande sacerdote – il magnus Sacerdos – della Chiesa particolare; il suo sacerdozio, di primo grado, è strutturalmente necessario a quello del presbitero che è sacerdote di secondo grado.
Il rito dell’ordinazione richiama tutto ciò: il sacerdozio di secondo grado non si può pensare al di fuori della comunione con il vescovo (che non inizia e finisce solo col diritto canonico’) – il summus Sacerdos –  e con i confratelli – co-presbiteri – con i quali condivide l’unico sacerdozio.
Il legame col primo s’esprime, durante il rito di ordinazione, nel gesto del vescovo che impone le mani sul capo dell’ordinando e costituisce il nuovo presbitero e poi nella promessa d’obbedienza che il presbitero fa, liberamente, di fronte al suo vescovo e che lo impegna anche di fronte ai suoi successori, perché in lui si vede Cristo; così ci hanno insegnato fin dagli anni del Seminario.
Il legame con i confratelli s’esprime quando essi impongono, a loro volta, le mani sul capo del nuovo confratello e lo fanno in segno d’accoglienza nell’unico presbiterio diocesano.
Tenere desto tutto questo significa avere in sé vivi i fondamenti ecclesiali del sacerdozio. Vuol dire avere desto, in sé, il sensus Ecclesiae o il sensus communionis che non basta conoscere teologicamente ma vanno vissuti.
 Passare sotto silenzio queste ricorrenze giubilari richiederebbe una spiegazione. I motivi potrebbero essere lo smarrimento, la stanchezza o – e voglio soffermarmi su questa ipotesi – confondere il proprio sacerdozio con una funzione, con un ufficio o un incarico. Il sacerdozio è ben altro rispetto all’ufficio che si è chiamati ad esercitare. Tale motivo comporterebbe l’impossibilità d’esprimere la propria gioia per il dono immeritatamente ricevuto del sacerdozio, un dono che ciascuno porta in sé.
Inoltre, festeggiare con gli altri – vescovo, presbiteri e fedeli – il proprio giubileo sacerdotale significa avvertire fortemente il bisogno di dire insieme, con gli altri, la bellezza di quel ‘dono-scelta’ che un giorno ci ha condotti a dire il nostro sì a Gesù e alla Chiesa.
Dietro un giubileo c’è, da una parte, il dono di Dio, la Sua iniziativa, e, dall’altra, la fedeltà dell’uomo, la sua risposta. Ma, come ben sappiamo, la fedeltà non è legata al mero passare del tempo, al succedersi degli anni o al meccanico scorrere delle stagioni della vita.
Al contrario, la fedeltà si dà quando il ‘sì’ cresce nel succedersi dei giorni, nei tempi avversi e in quelli favorevoli e felici; fedeltà, allora, è il nome che si dà all’amore nel tempo.
 L’uomo, a tutti gli effetti, è un essere storico, quell’essere che attende e tende verso il proprio compimento attraverso lo scorrere del tempo. L’essere umano è plasmato nella storia e dalla storia ed è proprio nella storia che l’uomo si caratterizza.
Noi ‘siamo’ la nostra storia: vi auguro di poterla ripassare, momento dopo momento, e di non arrossire.
Dinanzi al sì pronunciato da questi nostri confratelli – venticinque, cinquanta e sessant’anni fa – dobbiamo ribadire che lo scorrere del tempo non è qualcosa che impoverisce; al contrario, è qualcosa che arricchisce perché dice lealtà, dedizione, presenza e non di rado sacrificio.
San Paolo lo ricorda a tutti gli uomini ma ciò, nondimeno, vale anche per il prete: ‘Per questo non ci scoraggiamo, ma, se anche il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore invece si rinnova di giorno in giorno. Infatti il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria: noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili, perché le cose visibili sono di un momento, quelle invisibili invece sono eterne’ (2 Cor 4, 16-18).
Tutto questo Paolo lo dice per ogni uomo ma immaginiamo bene quanto sia ancor più importante per chi è chiamato a stare tra gli uomini indicando – nella sua persona, nei suoi gesti e nel suo stile – l’unico vero Sacerdote.
Proprio nell’anno in cui ricordiamo il cinquantesimo anniversario dell’apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II, desidero rimarcare quanto leggiamo nel decreto sul ministero e sulla vita sacerdotale a proposito dell’obbligo dei presbiteri a tendere alla perfezione, alla santità.
 La Presbyterorum ordinis – al n. 12 – ci richiama al fatto che i presbiteri s’incamminano verso la santità, ossia la perfezione della loro vita, attraverso i gesti sacerdotali che essi, quotidianamente, sono chiamati a porre in essere; è facendo il prete che mi realizzo e compio la mia risposta al Signore.
La teologia e la spiritualità del presbiterio, se perseguite con intelligenza e amore, diventano le grandi forze capaci di riformare e riformulare la vita sacerdotale della Chiesa diocesana.
Riscoprire la teologia e la spiritualità del presbiterio non limita e non blocca la realtà personale del nostro sacerdozio ma ci fa cogliere e vivere la dimensione vera del nostro sacerdozio che è dato a noi ma non è mai un possesso personale; esso, piuttosto, ci appartiene in quanto lo poniamo a servizio degli altri, lo offro ogni giorno agli altri.
Il presbiterio diocesano c’era prima di noi e ci sarà dopo di noi.
Impegniamoci a non immedesimare le nostre persone al dono sublime del sacerdozio che ci è dato, appunto come dono e come servizio, poiché il sacerdote o vive la spiritualità del chicco di grano che, morendo, produce molto frutto (cfr. Gv 12,24) oppure è simile all’albero di fico sterile che Gesù maledice perché non produce frutti ma solo foglie (cfr. Mc 11, 12-14).  Che il nostro sacerdozio non sia mai autoreferenziale.
La Vergine della Salute sostenga, illumini e benedica l’intero presbiterio della Chiesa di Venezia, il suo vescovo e, soprattutto, oggi, coloro che dicono il loro grazie a Dio per i venticinque, i cinquanta e i sessant’anni di sacerdozio.  
Il Buon Pastore illumini le nostre menti ma, soprattutto, dia forza ai nostri cuori perché siano veramente simili al cuore dell’unico, vero, sommo, eterno Sacerdote. A tutti il mio augurio, la mia preghiera, il mio grazie.