Omelia nella S. Messa in occasione dei giubilei sacerdotali (Venezia – Basilica della Salute, 5 giugno 2014)

05-06-2014
S. Messa in occasione dei giubilei sacerdotali
(Venezia – Basilica della Salute, 5 giugno 2014)
Omelia del Patriarca mons. Francesco Moraglia
 
 
Carissimi confratelli nel sacerdozio,
mi rivolgo a tutti ma particolarmente a quanti oggi festeggiano il loro giubileo sacerdotale.
Grazie per il dono della vostra vita al Signore nel servizio fedele della Chiesa; il mio augurio è che conserviate in voi la stessa gioia del momento dell’ordinazione e che tale gioia sia arricchita dalla consapevolezza d’aver operato sempre e solo per il bene della Chiesa, come Gesù ci ha insegnato e ha fatto prima di noi. E se per questo aveste provato sofferenze, causate non da difetti personali o da umane aspettative, allora sappiate che tale sofferenza è un valore aggiunto del vostro sacerdozio.
Il Vangelo appena ascoltato ci ha proposto le parole di Gesù ai Dodici; sono gli ultimi istanti in cui Egli parla come uomo libero. Lo sguardo di Gesù è rivolto anche al futuro della Chiesa e così anche noi siamo presenti in questa preghiera dalla quale siamo ben introdotti nella ccelebrazione odierna dei giubilei sacerdotali.
‘Non prego solo per questi, ma anche per quelli che crederanno in me mediante la loro parola:perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato’ (Gv 17, 20-21).
Gesù parla con grande affetto e tenerezza. Nulla è lasciato al caso; tutto è soppesato; tutto è detto con carità e verità.
Gesù chiede al Padre di custodire i discepoli. Essi non dovranno fuggire dal mondo ma dovranno testimoniare e il processo contro Gesù continuerà proprio nei loro confronti; essi dovranno rimanere nella comunione del Padre e del Figlio con carità e verità.
Verità e carità, nel Vangelo, non possono esser separate: insieme stanno, insieme cadono. Costituiscono un binomio inscindibile: la verità senza la carità non è la verità cristiana, mentre la carità senza la verità non è più la carità di Cristo.
Le scorciatoie non sono praticabili; enfatizzare l’una a scapito dell’altra è comodo e ci rende graditi ma ci porta fuori del Vangelo.
Ricordiamo come Gesù risponde di fronte a Pilato: ‘‘per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce‘ (Gv 18, 37).
E l’apostolo Paolo, nella lettera agli Efesini, parlando di carità e verità chiede di agire sempre secondo verità nella carità (cfr. Ef 4,15) e quando scrive ai Corinti sottolinea che la carità si rallegra della verità (cfr. 1Cor 13,6).   
Ritorniamo al Vangelo appena letto: ”la gloria che tu hai dato a me – dice Gesù –, io l’ho data a loro, perché siano una sola cosa come noi siamo una sola cosa. Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità e il mondo conosca che tu mi hai mandato e che li hai amati come hai amato me ‘ (Gv 17, 22-23).
Il compito della Chiesa, attraverso i Dodici e coloro che succederanno a loro nel ministero apostolico, è annunciare al mondo il Vangelo, ossia che Dio, da sempre, ama l’uomo e desidera che sia felice.
 La salvezza cristiana non è un sapere ma è un dono, anzi, il dono per eccellenza: il dono che Dio-Padre fa del Figlio-Unigenito e che Questi, a sua volta, fa di sé, all’umanità. Lo Spirito Santo, infine, è il dono comune del Padre e del Figlio.
La salvezza consiste nell’entrare in questo dono gratuito, per noi accessibile nel mistero della Croce che è essenzialmente evento trinitario; in essa, infatti, il Padre dona il Figlio e il Figlio, a sua volta, si affida (dona) totalmente al Padre e tutto si compie nell’effusione gratuita (dono) dello Spirito.
Come sappiamo, il vangelo di Giovanni – come sappiamo – è tutto orientato all’ora di Gesù e l’ora di Gesù è la croce; infatti, nel momento della morte, Gesù grida ‘tutto è compiuto’ e, reclinando il capo, dona lo Spirito (cfr. Gv 19, 30).
La sacramentalità cristiana si attua proprio nel dono, nel dono fondamentale della croce. Cristo è il sacramento originario e fontale: ‘Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità e il mondo conosca che tu mi hai mandato‘ (Gv 17, 23).
Da Cristo, poi, si origina la sacramentalità della Chiesa (cfr. Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione dogmatica Lumen gentium, n. 1)
Il ministero ‘sacerdotale’ – ricordiamo – ha il suo significato ultimo a partire dal dono di Cristo e, quindi, da Lui; consiste in un invito personale, una sequela unica a cui Gesù chiama alcuni fra i discepoli.
Il sacerdote, in forza del sacramento dell’ordine, è segno di Cristo in mezzo ai fratelli; è da qui che bisogna partire per valutare il senso teologico-spirituale del celibato, che viene prima dei dati storici e delle valutazioni degli uomini.
Torniamo alle parole di Gesù durante l’ultima cena, poco prima di scendere con i Dodici nel giardino del Getsemani. In quell’ora Gesù avverte la necessità di rivolgersi al Padre per coloro che gli erano stati accanto e lo avevano seguito.
Papa Francesco – nel corso dell’ultimo viaggio in Terra Santa, lunedì 26 maggio – nell’Orto degli Ulivi e nella chiesa del Getsemani, dove ha incontrato sacerdoti, religiosi, religiose e seminaristi della Terra Santa, ha proposto questo discernimento spirituale: ”qui, al Getsemani, la sequela si fa difficile e incerta; c’è il sopravvento del dubbio, della stanchezza e del terrore. Nel succedersi incalzante della passione di Gesù, i discepoli assumeranno diversi atteggiamenti nei confronti del Maestro: atteggiamenti di vicinanza, di allontanamento, di incertezza. Farà bene a tutti noi, vescovi, sacerdoti, persone consacrate, seminaristi, in questo luogo, domandarci: chi sono io davanti al mio Signore che soffre? Sono di quelli che, invitati da Gesù a vegliare con Lui, si addormentano, e invece di pregare cercano di evadere chiudendo gli occhi di fronte alla realtà? O mi riconosco in quelli che sono fuggiti per paura, abbandonando il Maestro nell’ora più tragica della sua vita terrena? C’è forse in me la doppiezza, la falsità di colui che lo ha venduto per trenta monete, che era stato chiamato amico, eppure ha tradito Gesù? Mi riconosco in quelli che sono stati deboli e lo hanno rinnegato, come Pietro? Egli poco prima aveva promesso a Gesù di seguirlo fino alla morte (cfr Lc 22, 33); poi, messo alle strette e assalito dalla paura, giura di non conoscerlo. Assomiglio a quelli che ormai organizzavano la loro vita senza di Lui, come i due discepoli di Emmaus, stolti e lenti di cuore a credere nelle parole dei profeti (cfr Lc 24, 25)? Oppure, grazie a Dio, mi ritrovo tra coloro che sono stati fedeli sino alla fine, come la Vergine Maria e l’apostolo Giovanni? Quando sul Golgota tutto diventa buio e ogni speranza sembra finita, solo l’amore è più forte della morte‘ (Papa Francesco, Meditazione nell’incontro con sacerdoti, religiosi, religiose e seminaristi durante il viaggio in Terra Santa, 26 maggio 2014).
Queste parole del nostro Santo Padre Francesco dobbiamo meditarle a lungo, perché sul quadrante della nostra storia personale risuonano le ore della vicinanza ma anche quelle dell’allontanamento e dell’incertezza.
Queste parole oggi assumono per noi un valore particolarissimo. Infatti, i venticinque, i cinquanta, i sessant’anni di ordinazione ci spingono a leggere tutta la nostra vita a partire dalla somiglianza o meno a Cristo sommo sacerdote e buon pastore che conosce le sue pecore, una ad una, e non solo perché sta in mezzo a loro, il che sarebbe ancora insufficiente, ma perché – ed è questo a renderci o no simili a Lui – dona se stesso per loro.
Come sacerdoti – presbiteri e vescovi – siamo chiamati a dire e a dare Gesù con tutte le nostre forze, con tutto il nostro essere, anima e corpo; e qui ritroviamo un altro motivo a favore del celibato sacerdotale.
Dire e dare Gesù con tutta la vita e soprattutto, in modo unico, con i gesti e le parole sacramentali, ossia con quelle parole e con quei gesti che noi, da soli, non avremmo la forza di pronunciare e porre e che solo un ministro ordinato può pronunciare e porre.
E’ a questo livello specifico e insostituibile che si pone il servizio che siamo chiamati a rendere a Cristo e ai fratelli. E ciò non in forza di nostri meriti o doti; infatti, talvolta, i fedeli laici hanno più doti di noi.
Nella chiamata al ministero ordinato – episcopato, presbiterato, diaconato – non si dà una sorta di superiorità ma, ad un tempo, un mistero di grandezza divina (e, quindi, non nostra) e di piccolezza umana (che, invece, ci appartiene).
Si tratta di qualcosa che ci lascia stupiti e sorpresi e ci dischiude alla realtà del sacramento, ossia a parole pronunciate e a gesti compiuti in nome di un Altro; parole e gesti che, da noi stessi, non avremmo la forza di dire e porre in atto.  
Al ministro ordinato appartiene, quindi, tale grandezza divina e tale fragilità umana. Attraverso il sacramento dell’ordine il vescovo, il presbitero e il diacono partecipano di questa realtà, umana e divina; in loro si dà realmente qualcosa che va oltre l’uomo e che, però, sempre lo richiede. 
E tutto ciò è contenuto in quel misterioso ‘Seguimi’ che Gesù rivolge all’apostolo Pietro sulle rive del lago di Tiberiade, proprio all’apostolo che nella sua persona aveva sperimentato – in un rapporto particolarissimo col Maestro – tutta la sua umana fragilità insieme alla grandezza del dono ricevuto.
Pietro diventa così per noi icona non trionfale ma concreta e reale del nostro ministero al quale, nonostante le fragilità umane, siamo chiamati: ‘Quand’ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pasci i miei agnelli». Gli disse di nuovo, per la seconda volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pascola le mie pecore». Gli disse per la terza volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?». Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli domandasse: «Mi vuoi bene?», e gli disse: «Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene». Gli rispose Gesù: «Pasci le mie pecore. In verità, in verità io ti dico: quando eri più giovane ti vestivi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi». Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E, detto questo, aggiunse: «Seguimi»’ (Gv 21, 15-19).
Cari confratelli e cari amici, sosteniamoci a vicenda nella preghiera affinché quanto Dio Padre misericordioso ha disposto sulla nostra strada, per ciascuno di noi, sia accolto nello spirito di questo ‘Seguimi’ che Gesù ha detto duemila anni fa all’apostolo Pietro e che oggi rivolge anche a noi.
Per il vostro prezioso lavoro nella vigna del Signore, va il grazie della Chiesa che è in Venezia e del Patriarca.
A tutti auguro la gioia del discepolo che non pretende d’esser di più del suo Maestro – sarebbe utile riflettere sulla tentazione di un cristianesimo che vuol andare oltre Gesù Cristo -; un discepolo che, nella fedeltà piena alle promesse dell’ordinazione sacerdotale, vive con umiltà e coraggio il suo sacerdozio nella luce del sì di Maria di Nazareth.
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