Omelia nella S. Messa in occasione dei Giubilei di professione religiosa (Venezia - Basilica di S. Marco, 2 febbraio 2014)
02-02-2014
S. Messa in occasione dei Giubilei di professione religiosa
(Venezia – Basilica di S. Marco, 2 febbraio 2014)
Omelia del Patriarca mons. Francesco Moraglia[1]
 
Carissime, carissimi,
in noi l’amore dipende da quanto Dio vive ed è presente in noi. Solo in questa misura noi siamo capaci di amare, di donarci senza stanchezze, senza delusioni, senza limiti. E’ questo l’amore che si deve vivere in comunità, tenendo conto che non abbiamo scelto noi le persone con le quali viviamo. Se avessimo scelto noi avremmo, ovviamente, voluto persone gradevoli secondo la nostra sensibilità, persone simpatiche e piacevoli con le quali avevamo sintonia.
La prima questione che dobbiamo porci è, allora, proprio questa: …forse io ho cercato e sto facendo così, oppure…. allontano e avvicino alla mia persona chi mi è sgradito o gradito… naturalmente secondo quanto è in mio potere di fare…
Poniamo che questo non avvenga. Allora mi trovo a vivere con persone che spesso esigono che io eserciti la virtù della pazienza. Persone certamente buone ma un po’ difficili, scontente, brontolone, alle quali bisogna sempre adattarsi… Ma Dio ci chiede di amare non secondo la nostra logica ma secondo la sua!
Dio ci chiede di arrivare ad amarci con un amore che implica pazienza, umiltà, sacrificio di sé, senza stanchezze, nel quotidiano, nelle piccole cose di tutti i giorni; un amore, insomma, come il suo, preveniente e gratuito! Ma questo è l’amore cristiano, il suo e il nostro modo di amare.
La comunità – di cui molte volte diamo definizioni teologiche o psicologiche complicate e dotte – alla fine è questo vicendevole, reciproco, voluto amore. L’amore reciproco è ciò che costituisce la comunità. L’amore che si dona e che riceve risposta: la comunità è questo. L’amore che si dona e che non riceve risposta è amore cristiano, certo! Ma non crea la comunità!
Ora, la comunità non solo richiede amore vicendevole ma anche amore perseverante. A chi vive in comunità, infatti, non è mai concesso di sospendere l’amore verso gli altri. E’ diverso nei confronti di quanti non vivono con me: amo i poveri… ma, poi, quando ritorno a casa mia posso chiudere la porta… e non mi trovo più alla loro presenza.
Ma per chi vive in comunità non è possibile fare questo! Le sorelle ci sono sempre, anzi, fanno parte della mia vita… L’amore di chi ha scelto come regola di vita la comunità è un amore totale… fino alla morte! E’ veramente un dono totale di sé scegliere quello che non si conosce, entrare in una comunità che diventa l’ambito, lo spazio, in cui tu eserciti l’amore fino alla morte.
Di fronte a questa che è la realtà della vita comunitaria-religiosa, pensiamo a quanto è grande la responsabilità della consorella che non si apre a questo amore vicendevole. Al di fuori della facile retorica, alla consorella che impone alle altre sorelle la propria imperiosità, il proprio carattere egocentrico, il proprio umore ballerino, le proprie prepotenze (che, poi, vengono mascherate sotto la dicitura: la consorella ha una forte personalità! Mentre se ha un carattere energico: è volitiva, è fatta per comandare!), sarebbe più giusto e vero dire che la consorella è… strumento di vera santificazione, per tutti.
            A ben vedere, poi, la comunità non limita ma, al contrario, insegna ad amare perché solo nella comunità si impara l’amore per il prossimo. Questa è la scuola vera dell’Amore e proprio per questo san Francesco di Sales ha voluto che la carità si caratterizzasse appunto per l’amore, la dolcezza e l’umiltà reciproca.
Per questo il santo vescovo di Ginevra ha voluto sottolineare il tratto della carità come fine della comunità religiosa. Per lui, infatti, la vita contemplativa viene dopo; ciò che precede è la comunità dell’amore. La comunità dell’amore supera ogni altro fine nella vita religiosa: così è per san Francesco di Sales. La religiosa, allora, è espressione vera e reale o, meglio, deve diventare espressione vera e reale di una presenza di Dio ma lo è se – nella sua vita personale di religiosa – ella è in grado di creare la comunità.
            La comunità religiosa non è prodotta dalla legge; la legge può solo indicarne – in modo cogente – le caratteristiche e le norme, ma non la può produrre. Anche se la legge è necessaria e, in taluni casi, l’indicazione autorevole ultima a cui bisogna attenersi…
Detto questo a proposito della legge, ossia la sua necessità ma anche il suo limite, torniamo a ripetere che la vita religiosa è il risultato di un impegno d’amore umile, casto, paziente, mite e incline al perdono. E’ la risposta all’invito dell’Amore di Dio che si rende presente in chi si riunisce nel suo nome e si fida della sua Parola.
La vita comune, così, si costruisce come risposta libera e quotidiana – giorno dopo giorno – alla grazia del Signore. E la costruzione avviene attraverso l’intelligenza, il cuore, la volontà, la capacità – sia nel tempo della preghiera come in quello del lavoro – della “ricreazione”, ossia col dono totale di sé, in ogni momento della giornata, perché nella vita comune tutto concorre al bene e tutto diventa importante per il Regno di Dio.
San Paolo ci ricorda: “Nessuno di noi, infatti, vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo del Signore” (Rm 14,7-8). E ancora: “…sia che mangiate sia che beviate sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio” (1 Cor 10, 31).


[1] Il testo riporta la trascrizione dell’omelia pronunciata dal Patriarca in tale occasione e mantiene volutamente il carattere colloquiale e il tono del “parlato”.