Omelia nella S. Messa “in coena Domini” (Venezia / Basilica Cattedrale di San Marco - 17 aprile 2014)
17-04-2014
S. Messa “in coena Domini”
(Venezia / Basilica Cattedrale di San Marco – 17 aprile 2014)
Omelia del Patriarca mons. Francesco Moraglia
Gesù è la “vicenda umana” di Dio. Gesù, nella sua realtà di uomo, rivela – è pura rivelazione – del mistero di Dio. A Filippo – che aveva appena detto: «Signore, mostraci il Padre e ci basta» – Gesù risponde: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre» (Gv 13, 8-9). Possiamo dire che Gesù è andato in croce perché ha detto che Lui ed il Padre sono una cosa sola! Gesù è la vicenda pienamente umana di Dio. Tutto quello che Gesù dice e tutto quello che Gesù fa è finalizzato a dischiuderci il mistero di Dio e della salvezza.
E’ proprio a partire da questa premessa che noi possiamo intendere gli avvenimenti della passione ad iniziare dai gesti dell’Ultima Cena. Una cosa risulta chiara: Gesù non subisce la passione, anzi, gli eventi dell’Ultima Cena ci presentano Gesù come il vero dominus. E’ Lui che ha in mano la situazione, è Lui il signore di quello che sta per accadere intorno a Lui.
Sarebbe interessantissimo delineare gli atteggiamenti – anche dal punto di vista psicologico – di Pietro, Giovanni, Giuda… Giuda, visto che lo ebbero condannato – lo abbiamo ascoltato nella lettura del Passio di domenica -, si pentì e portò indietro il denaro. «A noi che importa? Pensaci tu!» (Mt 27,4), gli dicono. Sembra quasi che Giuda si fosse stupito della condanna di Gesù. Ma, come, …se lo hai tradito, se lo hai venduto tu?
Forse Giuda – che sembra avere in mano la passione del Signore – ha risposto, anche per sua responsabilità, all’azione di un altro. «Allora, dopo il boccone, Satana entrò in lui» (Gv 13, 27). E dopo aver pianificato la condanna di Gesù, quasi ne rimane stupito. Giuda ha giocato fino all’ultimo con il peccato e, alla fine, pensava di ricavarne un po’ di denaro e che quel “maestro” in cui lui, ormai già da anni, non credeva più avrebbe compiuto un miracolo… Lui avrebbe portato a casa il denaro e magari avrebbe continuato la sua discepolanza, ovviamente a suo modo.
Pietro, Giovanni, Giuda… Gli altri apostoli sembrano recitare una parte di cui hanno maggiore o minore consapevolezza. Pietro: «Signore, con te sono pronto ad andare anche in prigione e alla morte» (Lc 22,33). Ma poi: «O donna, non lo conosco!» (Lc 22,57). E poco dopo lo rinnega ancora…
Solo Gesù appare, invece, realmente come il padrone della situazione; padroneggia la scena in modo fermo e pacato. Gesù non può fare a meno di morire: il Principe di questo mondo viene, non ha nessun potere su di me, ma bisogna che il mondo sappia che Io amo il Padre! Gesù non può fare a meno di morire perché il Padre gli ha consegnato un mondo che dall’interno di se stesso si è allontanato da Dio. E Dio non fa le cose con “buonismo”. Ci vuole qualcuno che, da dentro il mondo, lo riporti con un atto di libertà al si a Dio. L’umanità di Gesù Cristo. L’io umano di Gesù nell’unica persona del Verbo incarnato: bisogna che il mondo sappia che Io amo il Padre.
Gesù domina la morte, ne sente tutto il peso, ne avverte tutta l’ingiustizia e incomincia a sudare sangue: «Padre, se vuoi, allontana da me questo calice!» (Lc 22,42). E qui abbiamo un insegnamento importante per la vita della Chiesa, per la vita del discepolo, dei discepoli del Crocifisso. Le situazioni della vita fino alla morte – che è un momento della vita – si affrontano cristianamente parlando e se ne esce vincitori non perché non feriscano, non perché non offendano, non perché non ci mettano alla prova ma perché – come ha fatto Gesù – ci abilitano a morire di quella morte da cui si dischiude la vera vita: «…se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv 12, 24). Morire come Gesù, di quella morte che abilita alla risurrezione, ci domanda di sapere – nella fede – accogliere la morte e trasformarla in dono e offerta.
Carissimi, l’eucaristia ci abilita a vivere quella vita capace di quella morte che è per la risurrezione; l’eucariestia non è mai soltanto la partecipazione rituale ma suppone il coinvolgimento della vita. Non si partecipa al banchetto eucaristico perché si è già buoni e neppure perché si è migliori degli altri ma perché si vuole essere capaci e abilitati a quella vita che ci consente e ci insegna a morire per la risurrezione.
Assume, così, importanza decisiva il gesto che Gesù compie prima di pronunciare le parole sul pane e sul vino: «Questo è il mio corpo… questo è il mio sangue». Gesù compie il gesto della lavanda dei piedi, che non è un’immagine folcloristica una tantum durante l’anno ma è l’interpretazione più vera, più coerente e più penetrante dell’eucaristia che siamo chiamati a celebrare ogni giorno.
Il senso del pane spezzato e del vino effuso si esprime in modo chiaro nel gesto eloquente di Gesù che si inginocchia e lava i piedi ai discepoli. Ecco quindi il chinarsi sull’altro, disponibili al servizio più umile, più nascosto; l’eucaristia ci rende capaci di vivere quel tipo di vita che abilita alla risurrezione. E noi celebriamo l’eucaristia per essere come Gesù, capaci di quella vita che ci conduce alla risurrezione.
Il servizio, innanzitutto, non è scegliere qualcosa – e su questo dovremmo essere più capaci di indirizzare un vero insegnamento alle persone – ma è lasciarsi scegliere, lasciarsi portare dove magari non si vuole andare. Pietro non voleva farsi lavare i piedi e, qualche giorno dopo, Gesù dirà a Pietro: quando sarai anziano, quando avrai completato la tua vita, sarai condotto dove non vorrai andare…
Essere servitori vuol dire essere presenti là dove c’è la necessità, non dove è gratificante andare, non là dove tutti vorrebbero essere, non dove gli eventi portano, ma dove realmente nessuno vorrebbe andare… Questo è il senso vero della lavanda dei piedi. E quando la Chiesa pone dei limiti alla condivisione dell’eucaristia non lo fa per porre qualche vincolo, ma per non vanificare il dono di Dio, per aiutarci a capire il vero senso del dono di Dio.
Pietro fatica a capire e non vuole che Gesù gli lavi i piedi ed allora Gesù lo avverte che non avrà parte con Lui. Non si può ricevere l’eucaristia e poi vivere come se ciò non fosse accaduto, a mio modo. L’eucaristia, come proclamiamo sempre nella celebrazione dopo la consacrazione, è  “annunciare la sua morte, proclamare la sua resurrezione nell’attesa della sua venuta”. E tutto questo richiede che Lui diventi la forma della nostra vita, lasciando che ogni nostro moto dell’anima e del corpo esprima la logica ed il gesto della lavanda dei piedi.