Basilica Patriarcale di San Marco
Domenica di Pasqua
Venezia, 23 marzo 2008
1. «Corse allora ed andò da Simon Pietro‘» (Gv 20, 2). «Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro‘» (Gv 20, 4). Un fatto imprevedibile è capitato. Un fatto clamoroso: il sepolcro di Gesù è aperto e vuoto. Da qui la corsa della Maddalena, di Pietro e di Giovanni.
La Maddalena, gettato un colpo d’occhio, registra il dato. La donna corse ad informarne Pietro e Giovanni: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove lo hanno posto» (Gv 20, 2). La sua corsa, però, non nasce ancora dalla meravigliata commozione per l’incredibile evento della Risurrezione. E ciò vale anche per la corsa di Pietro, che pure registra indizi decisivi per riconoscere il grande evento: «’entrò, ‘e osservò i teli posati là, e il sudario ‘ che era stato sul suo capo ‘ non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte» (Gv 20, 6-7). L’evangelista sottolinea la ragione dell’atteggiamento della Maddalena e di Pietro: «Non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè doveva risorgere dai morti» (Gv 20, 9).
Diversamente stanno le cose per il discepolo che Gesù amava. Il suo anticipare Pietro nella corsa non è solo dovuto all’età. Molto probabilmente il suo amore per il Maestro, nella memoria viva della Sua presenza, gli aveva già insinuato la grande ipotesi. La sua corsa infatti non è segnata da turbato affanno. Arriva, si china, vede i teli posati, ma non entra (cfr Gv 20, 4-5). Aspetta Pietro, gli riconosce l’oggettivo primato. Ma poi quando entrò «vide e credette». L’asciutto, radicale nesso tra il vedere ed il credere non può, per l’evangelista, lasciare dubbi: l’amore di predilezione di Gesù e per Gesù rende il discepolo Giovanni capace di vedere e di leggere i dati quasi in un sol colpo e di concludere alla fede nel Risorto.
Carissimi, oggi ognuno di noi, nel suo profondo, è chiamato ad immedesimarsi nei tre testimoni che il Vangelo pone sulla scena. Sono i co-agonisti; il protagonista infatti, Gesù Risorto, è Colui che occupa la scena con la sua paradossale assenza.
Siamo venuti qui per partecipare eucaristicamente all’evento che la fede ci presenta come decisivo per la nostra storia personale e per quella di tutta l’umana famiglia. E, per la pochezza del nostro vedere, da una parte siamo un po’ come la Maddalena che getta un colpo d’occhio e si ferma al dato bruto (il sepolcro aperto), un po’ come Pietro che rileva attentamente indizi preziosi (i teli posati, il sudario ben riposto). Non siamo ancora credenti. Ma dall’altra parte, confortati dall’annuncio colmo di letizia della Chiesa nostra madre, siamo un po’ come Giovanni: nella memoria di questa preziosa azione eucaristica vediamo con gli occhi della fede e crediamo. Così ora dal profondo del nostro cuore esultante confessiamo: «Scimus Christum surrexisse a mortuis vere [Sappiamo che Cristo è veramente risorto dai morti]» (Sequenza pasquale).
Pertanto anche la nostra fede, carissimi – per piccola che sia – è una fede amante come quella di Giovanni. Troppo grande è il dono della Pasqua perché non muova ogni fibra del nostro essere all’amore verso il Crocifisso risorto, Colui che ci ha amati per primo.
2. Il passaggio dal vedere al credere è reso possibile a Giovanni dal dono della Sua grazia accolta dalla libertà (certamente la predilezione del Signore ha aperto il cuore e la mente di Giovanni).
«Dio lo ha risuscitato al terzo giorno e volle che si manifestasse, non a tutto il popolo, ma a testimoni prescelti da Dio, a noi che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti» (At 10, 40-41). La fede è il punto culminante in cui una ragione educata all’amore dalla condivisione (mangiare e bere), penetrando il Mistero, si consegna fiduciosa ad un livello di conoscenza che la dilata e la supera. Per questo occorrono testimoni. Solo chi ha toccato con mano, chi si è lasciato coinvolgere, chi l’ha amato può riferire di prima mano e coinvolgerti.
3. Pietro, ci dice la Prima Lettura, parla di un ordine ricevuto dal Signore: i testimoni devono annunciare che Egli «è il giudice dei vivi e dei morti‘ Chiunque crede in lui, ottiene la remissione dei peccati» (At 10, 43). Per questo siamo qui oggi. Un antico Padre della Chiesa Orientale, Epifanio di Salamina, scrive in un’Omelia pasquale: «Svegliati, o tu che dormi, non ti ho creato perché tu rimanessi prigioniero». È Cristo che sceso agli inferi si rivolge ad Adamo e in lui a tutta l’umanità. Il Risorto, come è potentemente rappresentato in un mosaico della nostra Basilica, ci afferra e ci strappa via dalle catene più insidiose e tenaci, quelle che opprimono il nostro io – intelligenza, affezione e azione -, che legano la nostra libertà.
Noi cristiani, infatti – ci ricorda San Paolo nella Seconda Lettura – siamo già azzimi, cioè siamo già un nuovo organismo, ma la nostra libertà è sempre esposta al rischio di essere intaccata e corrotta dalla vecchia pasta. Anche se in piccole tracce, il lievito del nostro passato ci fa spesso vivere come se tutto fosse ancora fuori dalla grande mutazione operata dal Risorto. Ci sentiamo condannati alla finitudine.
O, più spesso, ci accomodiamo in essa comportandoci come se niente valesse veramente la pena: dall’amore dell’uomo alla donna, ai sacrifici di un padre e di una madre per i propri figli, alla infaticabile dedizione al bene comune’ fino alla difesa della bellezza struggente della nostra città. Come se Cristo, nostra Pasqua, non fosse stato immolato (cfr 1Cor 5,7) per noi. Come se il Crocifisso risorto non avesse vinto definitivamente la morte.
E lo si capisce.
Il mysterium iniquitatis, l’abisso del male, forse oggi più che mai, duemila e più anni dopo la vittoria di Gesù Risorto, sembra invincibile, perché la volontà di potenza dell’uomo sull’uomo assume forme ‘ se così si può dire ‘ sempre più sofisticate. Non solo quelle della violenza fisica che genera morte, ma anche quelle sottili del dominio affettivo che in mille modi scardina il pudore fin dalla primissima adolescenza, che viola l’infanzia, che infrange il bell’amore, che per ogni minima offesa condanna l’altro con un giudizio definitivo, che per scaltra autoaffermazione calpesta la giustizia nei rapporti personali e sociali ignorando la carità di Cristo, fecondo terreno su cui può fiorire, anche per noi peccatori, una più sicura, umana equità.
Il male sembra vincere, ancor più, a livello del rapporto tra i popoli, le culture e le religioni. Terrorismo, guerre e miseria, brama di possesso economico rendono quasi impercettibile il grido di pace che si alza dal costato trafitto del Crocifisso.
Ma, soprattutto, il male sembra vincere in noi stessi, quando ci abbandoniamo al peccato, senza provarne dolore, senza chiederne perdono, anzi autogiustificandoci e superficialmente declassando il peccato a semplice errore.
4. Dove sono allora, dopo duemila anni, i frutti della Risurrezione di Cristo? Dov’è la novità, capace di far rifluire sangue vitale nelle nostre vene, di donarci più vigorosa voglia di vita?
Quel giorno sul Golgota «mors et vita duello conflixere mirando [La morte e la vita si sono affrontate in un prodigioso combattimento]». Ma non solo quel giorno. Ogni giorno della nostra esistenza sulla terra partecipa di questo grandioso duello. Non possiamo evitarlo. Ne perderebbe la nostra libertà. Il Risorto ci vuole testimoni, cioè uomini che vivono fino in fondo il dramma insuperabile della loro personale libertà. Egli non cessa di restare a noi elargito nella Chiesa, la comunità eucaristica. Perciò siamo Spe salvi, viviamo la speranza certa che «Dux vitae mortuus regnat vivus [Il Signore della vita ha accettato di passare dalla morte per sconfiggerla definitivamente]».
Così il ‘per sempre’ – la fedeltà che costruisce – torna a suggellare tutti i rapporti e tutte le circostanze: niente è perduto, ma tutto è salvato. Persino la morte – anche la più ingiusta e drammatica come è quella degli innocenti – è per la vita. Dal Crocifisso risorto è per la vita. Come ci insegna la Vergine Nicopeia, madre della vittoria. Buona Pasqua.