Omelia nella S. Messa del SS. Redentore (Venezia, 20 luglio 2008)
20-07-2008

Festa del Santissimo Redentore [1]

 

Basilica del Santissimo Redentore

 

Venezia, Domenica 20 luglio 2008

 

Omelia Card. Angelo Scola, Patriarca di Venezia

 

 

 

 

Egregio signor Sindaco,

 

Eccellenza Signor Prefetto,

 

Autorità civili e militari,

 

Eccellenza Reverendissima,

 

Reverendi Membri del Capitolo della Cattedrale, Parroci della città e Membri delle Nove Congregazioni del clero,

 

Appartenenti a Confraternite ed associazioni,

 

Carissimi fratelli e sorelle in Cristo veneziani e visitatori,

 

 

è sempre gioia grande venire accolti, in questi solenni Secondi Vesperi della Festa del Redentore, dalla comunità dei frati cappuccini che da secoli, pressoché ininterrottamente, custodisce questo tempio, avendo come prima cura l’accoglienza del pellegrinaggio annuale della Terza Domenica di luglio. Dal l577 ci ricorda il bel gesto dei nostri padri che, di fronte all’impotenza dei rimedi umani, vinsero la peste col solenne voto pubblico di erigere questo tempio. Nello spirito della rinascita conseguente alla riforma tridentina, i giovani patrizi d’allora, orientati al rinnovamento della politica e della pietà pubblica veneziana, piegarono le resistenze dei cappuccini riluttanti ad accettare la custodia di questo splendido tempio palladiano per timore di venir meno al loro impegno di totale distacco dalle cose terrene, alla penitenza e alla preghiera continua[2].

 

Questa sera noi rinnoviamo questo gesto plurisecolare sciogliendo ancora una volta il voto e affidando, con la preghiera che faremo tra poco sul sagrato di fronte al Santissimo Sacramento, la nostra Venezia, il suo popolo e tutte le genti venete al Redentore.

 

Basta il ripetersi di questo atto devoto? Basta l’incanto della nostra travagliata ma sempre più bella città, che dal ponte votivo si offre al nostro sguardo in squarci inconsueti? Basta l’impeto di giustizia e di pace che il ritrovarci insieme ogni anno, in quest’occasione, risveglia nei nostri cuori? Basta l’atmosfera di festa e di riposo allietata dalle nostre sapide tradizioni culinarie e dall’eccezionale spettacolo dei fuochi d’artificio? In una parola, bastano tutti questi elementi a farci godere appieno questa Festa tutta veneziana che, con quella della Madonna della Salute, ritma l’anno sociale? La risposta a queste domande troppo retoriche sgorga spontanea dall’abbraccio del maestoso Crocifisso che incombe su questo tempio e ci sovrasta. Per sciogliere liberamente, in modo personale e comunitario, il nostro ex-voto, dobbiamo porre al centro, con decisione, il festeggiato, il Redentore. La millenaria sapienza della Santa Chiesa ci invita a farlo in questa festa (cfr Ufficio delle Letture) con una delle più antiche omelie per la Pasqua, attribuita a Melitone di Sardi (II secolo), che è una vera e propria apoteosi del Redentore: «Questi è colui che ha fatto il cielo e la terra’/ che nella legge e nei profeti fu annunciato/ nella Vergine incarnato/ sopra il legno fu inchiodato/ nella terra seppellito/ e dai morti risuscitato/’ Egli è il principio e la fine/ principio inenarrabile e fine incomprensibile/. Egli è il Cristo, Egli è il re/. Egli è Gesù: lo stratega’/ Egli porta il Padre ed è portato dal Padre/: a Lui la gloria e la potenza nei secoli».

 

Lo Stratega, colui che secondo Melitone sfida il male nel suo principio personale, quando il maligno Lo provoca – «Chi è il mio contraddittore?» – risponde prontamente: «Sono io, il Cristo. Sono io che ho distrutto la morte, che ho trionfato del nemico, che ho calpestato l’Ade, che ho legato il forte, che ho rapito l’uomo verso la sommità dei cieli».

 

«Sono io», dice a ciascuno di noi questa sera Gesù, il nostro Redentore. Per questo siamo qui, carissimi, abbandonati al Suo forte abbraccio; perché, come ci ha ricordato il Santo Vangelo, questo Figlio incarnato è il frutto dell’inesauribile amore del Padre. È venuto perché il mondo si salvi, perché l’uomo che crede in Lui non muoia, ma abbia la vita eterna (cfr Gv 3,16-17). All’iniziativa del Suo amore, figli carissimi, non fa obiezione se ci troviamo in questo momento lontani da Lui nella nostra autocoscienza e nelle nostre scelte di vita perché, come insiste Paolo, «mentre eravamo ancora peccatori» (cfr Rm 5, 8 Seconda Lettura), mentre addirittura «eravamo suoi nemici, siamo stati riconciliati con Dio» (cfr Rm 5, 10). Dio è Padre e ci ha inviato il Buon Pastore (Prima Lettura) perché si prenda cura di noi e pieghi, con la tenerezza che Gli è abituale e con l’inesauribile pazienza che Lo caratterizza, le nostre libertà alla conversione del cuore, alla fuga dal male. In Gesù Cristo possiamo ottenere, ci ha ricordato Paolo, la nostra riconciliazione. Perciò l’invito di Melitone offre la spiegazione più convincente a questo pellegrinare vespertino. Facciamolo nostro: «Orsù dunque venite voi tutte stirpe umane. Ricevete la remissione dei peccati. Sono io infatti la vostra remissione, sono io la Pasqua della salvezza. Io il vostro riscatto. Io la vostra risurrezione. Io vi mostrerò l’Eterno Padre, io vi risusciterò con la mia destra».

 

 

Nessuno di noi può restare indifferente questa sera. Siamo troppo realisti. Le contraddizioni potenti che vivono in noi e fuori di noi sono troppo provocanti. Il passaggio epocale che stiamo vivendo ci costringe a fare i conti con noi stessi, con gli altri, con Dio. Indipendentemente dalla risposta che ognuno di noi vi dà l’interrogativo sulla nostra persona e sul suo destino ingombra il nostro io come un rumore sordo e continuo che non ci abbandona. Dall’interno del ritmo dei nostri affetti e del nostro lavoro risorge in continuazione come un’implacabile fenice. E la festa, paradossalmente, accentua la domanda. ‘Chi, alla fine mi assicura?’ ‘Da quale ‘oltre’ e da quale ‘altro’ viene a me quell’amore definitivo che rimette ogni mattina, con sufficiente pace, il mio io in azione?’

 

Come ormai sapete, secondo costume, il Patriarca ha dedicato quest’anno il suo discorso del Redentore, che fa riferimento alla dottrina sociale della Chiesa, al tema della famiglia che costituisce per la nostra Italia un fattore di progresso. Il proprium naturale della famiglia, il suo ‘universale sociale e culturale’ consiste nell’essere fondata su un doppio legame: quello tra l’uomo e la donna e quello tra genitori e figli. La famiglia è quella specifica forma di società primaria che tiene insieme e permette l’armonico sviluppo della differenza sessuale tra l’uomo e la donna e della differenza tra le generazioni. Essa, istituita per dare forma alla differenza dei sessi in quanto generatrice di vita, richiede una chiara valorizzazione dell’istituto matrimoniale. Di essa ha bisogno ogni uomo perché in essa ognuno di noi impara quella che Giovanni Paolo II chiamava la ‘genealogia della persona‘. In famiglia l’uomo fa esperienza del bene morale originario, intreccio di riconoscimento amoroso, di promessa di felicità e di compito. Per queste ragioni fondamentali mi sono permesso di accennare nel discorso che è già stato reso pubblico, a taluni aspetti relativi alla promozione della famiglia in Italia come fattore di progresso. Li reputo irrinunciabili per una vita buona. Auspico che siano oggetto di immediate iniziative da parte delle autorità di governo. Il rispetto della definizione di famiglia coniugale data dalla nostra Costituzione, politiche sociali e fiscali a misura di famiglia, una più attenta conciliazione tra famiglia e lavoro e il riconoscimento della famiglia come attore economico sembrano a me elementi decisivi su cui tutta la società civile, nella varietà dei corpi intermedi, è chiamata ad interrogarsi e a lavorare. Sono certo che con energia le autorità costituite vorranno impegnarsi, ciascuna secondo il proprio ruolo specifico, nel promuovere la famiglia coniugale come elemento di solidità più che mai indispensabile in una società sempre più fluida. I cristiani, da sempre attenti al Vangelo della famiglia e della vita, dimensione centrale del Vangelo del Redentore, non faranno mancare, anche nella nostra Venezia, proposte specifiche rispettose della società civile plurale.

 

 

Narrano gli storici che, la sera del Redentore, alla fine della Messa, il Doge con la Signorìa si accomiatava dai frati sulla soglia del tempio. Il Padre guardiano rivolgeva al Doge un discorsetto di sole venticinque parole sulle ragioni della festa. A quel punto il Doge ringraziava il Padre guardiano dicendo: «Semo contenti e perciò anche st’anno ve preghemo de continuar a tenir la custodia de sto tempio». I nostri carissimi frati sono fedeli in questo servizio. Lo siamo anche noi tutti, ogni anno, nel nostro pellegrinare. Chiederemo tra poco nella Preghiera per la città che la fedeltà, dimensione intrinseca del bell’amore, caratterizzi anche il nostro quotidiano rapporto con Gesù Redentore, perché propizi ogni bene a noi, alle nostre famiglie ed in particolare a tutti coloro che sono nella prova materiale e spirituale, siano essi a noi vicini o lontani. La Vergine Nicopeja ci assicuri questa vittoria mentre già guardiamo, a Dio piacendo, al prossimo passaggio sul ponte votivo. Amen.

 



[1] Ez 34,11-16; Sal 22; Rm 5, 5-11; Gv 3, 13-17.

 

[2] Cfr. A. Niero, Venezia e i Frati Cappuccini, Centro Internazionale della Grafica di Venezia, Venezia 1994.