Omelia nella S. Messa con lo Studium Generale Marcianum (Basilica della Salute / Venezia, 18 aprile 2012)
18-04-2012

Incontro e S. Messa con lo Studium Generale Marcianum

 

Omelia del Patriarca mons. Francesco Moraglia

 

(Basilica della Salute, 18 aprile 2012)

 

Desidero, intanto, ringraziare il carissimo mons. Ferme per la carità che mi ha usato.

Dobbiamo essere, infatti, grati a chi ci ricorda quello che siamo, in un mondo in cui incontriamo soprattutto persone che ci chiedono prestazioni e opere, ci chiedono di fare e produrre e di legittimare le nostre persone attraverso quello che di volta in volta facciamo. Incontrare chi ci ricorda chi siamo, prima di quello che facciamo, è una grazia: è un momento di riflessione.

Mons. Ferme mi ha ricordato che io sono stato mandato qui come Vescovo. La persona è sempre più grande di quello che fa, di quello che riesce a fare. Diciamolo a chi miete successi, diciamolo a chi fatica la sua vita! Nell’un caso e nell’altro avremo aiutato il bene di quella persona.

Desidero ora soffermarvi con voi su alcuni spunti che vengono dalla liturgia e aggiungendo poi un pensiero che va oltre la liturgia ma tiene conto di questo nostro primo incontro.

Gli Atti degli Apostoli ci stanno dicendo da un po’ di tempo che il discepolo del Signore deve essere una  persona forte, coraggiosa, capace di affrontare le situazioni e di mettere in conto che non si è mandati a ricevere applausi. Siamo mandati come Pietro, Giovanni e Andrea  ad annunciare il Risorto. L’episodio narrato nella  pericope  degli Atti è abbastanza chiaro e non è l’unico; si ripeterà in altre forme, in altri modi, in altre città, con altri soggetti ed altri protagonisti. Annunciare il Risorto chiede di donare se stessi.

Sappiamo tutti e voi in modo particolare per il tipo di vocazione che avete nella Chiesa: parlo infatti ai docenti e agli studenti di una Facoltà, parlo ai docenti e agli studenti di un Istituto Superiore di Scienze Religiose e quindi parlo a persone che occupano nella Chiesa un posto particolare.

C’è una  vocazione anche alla teologia ed è una vocazione importante di cui la Chiesa non può fare a meno, a patto di trovarci di fronte a dei veri teologi. E allora la teologia è utile alla Chiesa, è necessaria alla Chiesa e la Chiesa non ne può fare a meno se possiede due caratteristiche: la scientificità e l’ecclesialità. Sono le due caratteristiche irrinunciabili per la Teologia.

Il teologo è un uomo di Chiesa, è un uomo che ama la Chiesa e, proprio perché la ama, si sente nella Chiesa e sviluppa la scientificità del suo sapere. Sa di essere utile alla Chiesa quando passa delle ore a studiare, a investigare, a riflettere perché la fede sia detta sempre meglio, sempre di più e in modo sempre più completo e sempre più comprensibile. Il teologo è colui che dice Gesù Cristo. Lo dice con umiltà e competenza, lo sa dire in lingue diverse.

Nello stesso tempo, lo sottolineo, il teologo è un uomo profondamente cristiano anche perché sa che l’oggetto del suo sapere – è, questa, una brutta espressione ma’ci intendiamo! – lui l’ha ricevuto dalla Chiesa. E, quindi, se la teologia non fosse ecclesiale non sarebbe neanche scientifica.

Il teologo riceve la fede come il bambino della Prima Comunione e la cosa più bella per un teologo penso sia proprio questa. Poter dire: io credo in Gesù Cristo, credo la Chiesa, credo l’Eucarestia come la credevo quando mi preparavo alla Prima Comunione; solo che adesso ne so parlare in modo diverso e ne so parlare anche ai bambini della Prima Comunione.

Ogni uomo è soggetto, molte volte, a tentazioni proprie: gli studenti della prima media del Marcianum non hanno le tentazioni che hanno i loro professori e non hanno le tentazioni del Patriarca. Ma ci sono anche le tentazioni del teologo: il teologo deve essere un uomo umile, deve amare la parola semplice e la sobrietà del dire. Non deve porsi una spanna più in alto degli altri:  deve saper stare con gli altri.

E nel momento in cui una persona è semplice ma sa dire delle cose che gli altri non sanno dire –  non perché valgono meno di lui ma perché hanno avuto altri progetti, altri processi, altre strade – allora serve la Chiesa.

Parlavo del coraggio di testimoniare il Risorto. Alla fine di ogni giornata, andando a letto, soprattutto chi lavora nell’ambito della teologia  ma, in un certo senso, tutti dovremmo chiederci: io, oggi, ho detto Gesù Cristo? L’ho detto bene? L’ho detto in modo che tutti lo capissero?

Gli apostoli, quando sono liberati dalla prigione, non usano l’intervento di Dio per mettersi al sicuro ma tornano a dire Gesù Cristo. E tornano a dirlo nel luogo più significativo di quell’epoca, di quell’ambiente, di quel momento: il Tempio.

Ognuno di noi si chieda se – al di là della sua attrezzatura scientifica, doverosa ma insufficiente e sempre bisognosa di aggiornamento – si impegna a dire Gesù Cristo. A dirlo bene, a dirlo a tutti. A dirlo con coraggio e a dirlo nei momenti e nei luoghi più significativi del contesto in cui è chiamato a vivere. Questo è il mio augurio per tutti voi.