Omelia nella S. Messa con la Fraternità di Comunione e Liberazione del Patriarcato di Venezia in occasione del XXXV anniversario del suo riconoscimento pontificio e del XII anniversario della morte di mons. Luigi Giussani (Venezia / Basilica di S. Marco, 7 febbraio 2017)
07-02-2017

S. Messa con la Fraternità di Comunione e Liberazione del Patriarcato di Venezia

in occasione del XXXV anniversario del suo riconoscimento pontificio

e del XII anniversario della morte di mons. Luigi Giussani

(Venezia / Basilica di S. Marco, 7 febbraio 2017)

Omelia del Patriarca Francesco Moraglia

 

Carissimi,

mi soffermo innanzitutto sui versetti della prima lettura (Gen 1,20-2,4), tratta dal libro della Genesi, considerandoli centrali nell’intera pericope: “Dio disse: «Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza: dòmini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutti gli animali selvatici e su tutti i rettili che strisciano sulla terra». E Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò“ (Gen 1,26-27).

E quindi “Dio creò l’uomo… a immagine di Dio lo creò”. Se consideriamo questi versetti, non è difficile allora comprendere il motivo e la radice dello spaesamento che, oggi, l’uomo avverte in sé e attorno a sé.

Per spaesamento s’intende non solo il cogliersi dell’uomo al di fuori di un contesto – cosa in sé già destrutturante – ma qualcosa di più, ovvero non riuscire più a cogliersi, non ritrovarsi più come un tutto che sussiste e agisce in libertà e responsabilità. Ne deriva che oggi l’uomo non sa rispondere alle domanda sul “perché” e si ferma solo sulle domande funzionali che riguardano il “come”.

Noi, oggi, con i mezzi della moderna scienza e tecnica, possiamo dire di conoscere cose che fino ad un recente passato ci erano del tutto sconosciute ma dobbiamo, anche, riconoscere d’aver perso la sapienza del vivere: “conoscere” indica un uso strumentale della ragione; “sapere”, invece, un uso della ragione che guarda il fine.

La liturgia, poi, ci ha fatto pregare col salmo 8 e così ci ha dischiuso uno scenario del tutto diverso e proprio questo radicale capovolgimento ci ha posto dinanzi un “riassetto antropologico” totale. Abbiamo, infatti, pregato dicendo: “Quando vedo i tuoi cieli, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissato, che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi, il figlio dell’uomo, perché te ne curi?” (Salmo 8, 4-5).

Il Vangelo ci chiede, invece, di non trasformare l’Evento cristiano, ossia l’Evento di Gesù, in un racconto umano “politicamente corretto” a seconda dei contesti culturali in cui tale narrazione si dà. La tentazione ricorrente è trasformare l’Evento cristiano in un’etica, in una teologia o, ancor più, in un’azione sociale.

Il richiamo di Gesù, quindi, non vale solo per scribi e farisei ma per gli uomini di ogni tempo e anche per noi oggi: “«…Invano mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini. Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini». E diceva loro: «Siete veramente abili nel rifiutare il comandamento di Dio per osservare la vostra tradizione… »” (Mc 7,7-9).

L’Avvenimento cristiano – o Evento di Cristo – non indica solo un fatto importante ma, come afferma Peguy, “qualcosa di non prevedibile”, di “improbabile”. Non si tratta di semplici conseguenze che, appunto, si limitano a seguire “fatti umani” che le precedono; piuttosto è Qualcuno che ci sorprende, è Qualcuno che irrompe nella nostra storia, un Avvenimento che accade intorno e dentro di noi.

Oggi parlare dell’uomo significa parlare del suo disincanto, di un suo obiettivo spaesamento; disincanto e spaesamento che traspaiono nell’indecisione e nell’angoscia e che emergono, soprattutto, di fronte alle domande  sul senso, le domande che più appartengono all’uomo perché lo riguardano in quanto uomo; così la questione antropologica è – come ci ha ricordato oggi la prima lettura – questione teologica.

Rispondendo alla domanda sull’uomo, rispondiamo anche alla domanda  su Dio e viceversa. Non bisogna essere filosofi o teologi per farlo, è sufficiente essere uomini e donne che intendono abitare la loro umanità. “Abitare” è uno di quei verbi che la Chiesa Italiana ha proposto al Convegno di Firenze nel novembre del 2015; “abitare”, infatti, ritorna insieme ai verbi “uscire”, “annunciare”, “educare”, “trasfigurare”.

E – come ancora chiede la prima lettura – bisogna riconoscere e gioire del proprio essere creaturale; l’uomo oggi appare spaesato e incerto proprio perché ha smarrito la sua relazione fondamentale con il Dio creatore. Non sappiamo più gioire del nostro essere creaturale perché abbiamo smarrito il rapporto con Dio e, proprio per questo, non ci sentiamo più fratelli fra di noi.

Questa è una grande “povertà” del nostro tempo che ci rende – sosteneva il teologo ortodosso Olivier Clément – “prigionieri del nulla”; sì, siamo prigionieri del nulla!

Nella modernità invano si è perseguito il sogno di una fraternità universale a partire dall’idea di una astratta uguaglianza e, al contrario, abbiamo dovuto riscontrare che tale cammino – prescindendo dal Padre che è l’Origine di tutto – non riusciva neppure a iniziare. L’unica strada possibile risultava in modo sempre più chiaro quella della fede che conduce al Dio creatore e padre, sorgente di vera fraternità.

Nella vita dell’uomo non bastano “procedure” e “formalità”; è necessaria la sostanza, il vero, il buono, il bello.

Papa Francesco, nella Lumen fidei, scrive: “Dio chiama Abramo ad uscire dalla sua terra… (cfr. Gen 12,1-3). Nel procedere della storia della salvezza, l’uomo scopre che Dio vuol far partecipare tutti, come fratelli, all’unica benedizione, che trova la sua pienezza in Gesù, affinché tutti diventino uno. L’amore inesauribile del Padre ci viene comunicato, in Gesù, anche attraverso la presenza del fratello”  (cfr. Papa Francesco, Lettera enciclica Lumen fidei, n.54).

Così, nel nostro interrogarci su Dio, si assommano differenti sollecitazioni antropologiche: attesa, gioia, angoscia, spaesamento, dolore, fruizione, proprie di chi, dapprima, intravvede e poi vede nell’Accadimento di Gesù di Nazareth – l’Unigenito Figlio di Dio, il Risorto – la risposta alle domande dell’uomo: chi sono? da dove vengo? dove vado? È, questa, la gioia di una “finestra luminosa” che si apre nella storia di ogni uomo.

L’Evento di Gesù, poi, continua nella Chiesa che lo rende presente in modo singolare; la Chiesa è la sola che – dopo Lui – può, in un certo qual senso, parlare di Lui in modo compiuto. Vivere l’evento Chiesa significa, allora, nella grazia, dare una testimonianza di vita che si esprime “nella carne” ed essere, così, parte di quell’unico Evento che solo nella Sua grazia genera altri eventi.

Sì, il mondo ha bisogno di vedere una comunità diversa che si incarna in una comunione che libera. E qui non bastano i teologi. Bisogna “esser Chiesa” che sa parlare di Dio agli uomini attraverso “umanità complete”, in una vita ecclesiale credibile e percepibile.

Questo, oggi, fa la differenza e noi dobbiamo crescere in questa dedizione ed essere sempre più comunità testimoniale. Il soggetto idoneo a tale testimonianza è quindi la Chiesa, evento di popolo che si dà nella grazia che proviene dalla sua morte e risurrezione; Sant’Agostino parlava infatti del Christus totus legando strettamente cristologia ed ecclesiologia.

Quando ci si riferisce a Gesù non si parla mai di una persona tra le altre ma dell’Origine, del Fondamento di tutta la realtà. Gesù non è un superuomo che si afferma sugli altri escludendoli; al contrario, è Colui che include, è il Fine di tutto e di tutti. Gesù è l’Evento di Dio nella storia, un evento inatteso, improbabile – come dice Peguy -, ma accaduto e vivo nella storia. E quando mi meraviglio di Lui e guardo a Lui con stupore, allora, incomincia l’avventura della fede.

Il cristiano, quindi, propriamente parlando, non ha storia e non fa storia come comunemente essa è intesa, perché vivendo l’evento di Cristo appartiene “già” al definitivo, seppur “non ancora” in modo compiuto.

Ogni incontro fra gli uomini sempre porta in sé il mistero dell’incompiutezza; l’altro sempre ti sfugge e, allora, rimane solo scrutare il suo volto in Dio che non è solo un altro ma è l’Altro. Ciò accade in modo compiuto solamente nell’Evento di Gesù di Nazareth – la forma umana di Dio -, l’Accadimento originario a cui sempre si deve ritornare.

Concludo con un pensiero di don Giussani che mi sembra renda bene tale realtà fondamentale del cristianesimo e che ci richiama ad una fede amica della ragione e che sa di dover fare i conti con l’intelligentia fidei:  “La tristezza dell’incompiuto è proprio il contenuto  delle grandi coscienze di oggi. Pur non riuscendo a credere, l’uomo moderno in un estremo e disperato gesto di lealtà grida la sua nostalgia di un’affermazione ultima e positiva, grida quello che Cristo ben consapevolmente ha gridato prima di morire: ‘A te raccomando l’anima mia’. Dopo che l’ottimismo razionalista ha subito la frustrazione di due guerre mondiali, adesso lo smarrimento profondo della più alta cultura contemporanea sembra aprirsi a una nuova nostalgia… Tutta la legge dell’umana esistenza – disse Dostoevskij – sta in questo: che l’uomo possa inchinarsi all’infinitamente grande” (Luigi Giussani, La coscienza religiosa dell’uomo moderno, BUR, Roma 1994, p. 106).