Omelia nella S. Messa con il Seminario Patriarcale in occasione della fine dell’anno scolastico (Venezia / Basilica della Salute, 22 giugno 2015)
22-06-2015
S. Messa con il Seminario Patriarcale in occasione della fine dell’anno scolastico
(Venezia / Basilica della Salute, 22 giugno 2015)
Omelia del Patriarca mons. Francesco Moraglia
Cerchiamo di mettere bene a fuoco una riflessione che possa aiutarci all’inizio delle vacanze. E’ un periodo importante, nel quale siamo chiamati ad esprimere ciò che, lentamente, abbiamo imparato in un anno. E non si tratta certamente solo della parte formativa ed intellettuale di carattere teologico, ma quello che abbiamo imparato nella sequela di Gesù, nel mettere i nostri piedi sulle tracce che ci precedono, sulle tracce del Signore.
Noi non siamo più di Lui e quando il prete pensa di insegnare a Gesù Cristo come essere Gesù Cristo siamo sulla cattiva strada…. Noi dobbiamo seguirlo e ricordarci sempre che un discepolo non è più del suo maestro e un servo non è più del padrone. Si tratta di ascoltare la Sua voce, soprattutto in quei momenti in cui un seminarista è chiamato a dedicarsi tutto al Signore: il tempo della preghiera.
Sarebbe triste quella giornata al termine della quale si dovesse dire: “Signore, non ho avuto tempo per te!”. E sono convinto che, se poi andiamo a vedere, abbiamo avuto tempo per tante altre cose… Allora, all’inizio del tempo delle vacanze, è importante radicarsi nell’incontro personale con il Signore; quei momenti, quello spazio, quel tempo in cui io sono di fronte a Lui; in cui ho tempo per Lui.
Partiamo, dopo questa premessa, dalla prima lettura di oggi (Gen 12, 1-9): è la vocazione di Abramo, paradigma di ogni vocazione. Abramo è l’inizio ed è anche la realizzazione della fede. Solo Maria precede Abramo e fa meglio di Abramo, ma sappiamo che Maria si trova in una posizione “privilegiata”, unica. La Lumen gentium al n. 61 dice che la grazia eterna dell’incarnazione si lega strettamente alla vocazione di Maria e quindi Maria si trova in una posizione creaturale unica.
Il compimento della fede di Abramo è proprio Maria. Abramo crede, nonostante l’età avanzata e la sterilità di sua moglie, che Dio è il Dio della vita e Isacco è il frutto della fede di Abramo. Gesù, risorgendo da morte in modo ancor più radicale, ci dice che Dio è il Dio della Vita. Non solo Dio è capace di vincere la morte di un grembo sterile e dell’uomo centenario segnato dal tempo, ma Dio è capace anche di ridare la vita a chi l’aveva offerta per Lui.
Maria compie, su un piano diverso, il paradigma fondamentale della fede. Ma come si caratterizza la fede di Abramo? Ed ecco qui il secondo punto che potrebbe illuminare il tempo delle vacanze.
La fede di Abramo è una fede che “rompe”, che segna una rottura. “Il Signore disse ad Abram: Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò…” (Gen 12, 1): il paradigma di ogni vocazione è la rottura con l’ambiente precedente. Piaccia o no, dobbiamo tener conto di questo!
Abramo è chiamato – è invitato – a rompere con il passato e ad incamminarsi verso il futuro; questa prospettiva deve appartenere alla vita dei seminaristi. La propria vocazione è rivivere questo paradigma, questo dato della tradizione biblica che, poi, è stato vissuto dalla spiritualità cristiana.
Il monachesimo è questo andare nel deserto e sarà quell’epoca che seguirà il momento del martirio, altro modo di “rompere” con il passato. Andatevi a leggere gli atti del martirio di Felicita e Perpetua, soprattutto il dialogo del padre con Perpetua: “Torna alla tua casa, se non lo fai per rispetto alle canizie di tuo padre fallo almeno per tuo figlio”. E la risposta di Perpetua: “Papà, vedi quell’orcio… come lo chiami? Orcio, ecco! Perché è un orcio! Io sono cristiana, non posso uscire da quello che sono!”.
«Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?» (Mt 12,48). La risposta di Gesù a questa domanda – “Poi, tendendo la mano verso i suoi discepoli, disse: «Ecco mia madre e i miei fratelli! Perché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, egli è per me fratello, sorella e madre»” (Mt 12, 49-50) – porta la parentela su un piano diverso: chi ascolta la mia parola! Come Abramo, che ascolta la sua parola: vattene, lascia la tua terra! Se questo paradigma di rottura non entra nella nostra vocazione, saremo sempre legati e connessi all’uomo vecchio. Rinnegare non vuol dire tradire; vuol dire rispondere ad una chiamata e compiere quello che eravamo all’inizio.
Terzo punto. Oggi ricorre la memoria liturgica di due santi martiri, Giovanni Fisher e Tommaso Moro, che – se dovessi sintetizzarveli in una battuta – definirei così: la solitudine della fede. La fede non è solitudine, ma comporta anche la solitudine. Credere vuol dire anche saper rimanere soli. Questi due grandi martiri hanno lasciato letteralmente la testa per una questione di divorzio e per l’indissolubilità matrimoniale.
Giovanni Fisher aveva quasi nove anni in più di Thomas Moore. Si era formato a Cambridge dove anche insegnò e divenne cancelliere di quell’Università; a 35 anni divenne vescovo di Rochester e vi rimase fino a quando gli tagliarono la testa; vi rimase per 31 anni, fino al 22 giugno del 1535, alle ore 10, quando gli tagliarono la testa nella Torre di Londra.
Intorno a lui tutti gli altri vescovi prima o poi si tolsero e vennero meno, ma lui rimase fermo nel dire che la dispensa che Giulio II aveva dato ad Enrico VIII per il matrimonio con Caterina d’Aragona era valida e quindi non si poteva adire alla richiesta del Re che voleva divorziare perché aveva incontrato Anna Bolena… Giovanni Fisher, ad un certo punto, rimane solo; il Papa Paolo III lo fa cardinale nella speranza d’intimorire il re, chiedendo anche che Fisher potesse tornare e rimanere a Roma, ma la cosa non ebbe esito e la sentenza di morte fu, infine, eseguita.
La vita di Giovanni Fisher e quella di Tommaso Moro sono, quasi, in fotocopia. Tommaso Moro morirà il 6 luglio, quindici giorni dopo. C’è da notare che il re, dopo l’esecuzione di Fisher, volle che la testa tagliata del vescovo di Rochester rimanesse esposta nella Torre di Londra; fu sostituita poi solo il 6 luglio da un’altra testa, quella appunto di Tommaso Moro.
Tommaso Moro, molto diverso da Fisher, fino alla fine cercò di convincere il re – come anche faceva Fisher -, ma era impossibile, tanto che ad un certo punto si sentì dire dal duca di Norfolk: “La rabbia del re è presagio di morte”. E la risposta di Tommaso Moro fu: “Allora oggi tocca a me, domani toccherà a te”. Quando non c’è più rispetto dei fondamenti della rivelazione cristiana, iniziano dei tempi tristi. Molto tristi.
Vi consiglio di leggere la seconda lettura dell’Ufficio delle letture di oggi. E’ la lettera che la figlia preferita di Tommaso Moro – Margherita – scrive ad un’amica. Vi trascrive un colloquio, uno degli ultimi, con il padre. In altri testi noi vediamo quest’uomo che, anche sul patibolo, sembrava il più sereno di questo mondo. Invece qui scrive: “Quante volte facevo finta di dormire e, mentre tua madre dormiva, io stavo pensando a tutto quello che mi sarebbe capitato, a cosa stavo andando incontro… Eppure il Signore non mi ha lasciato solo, non mi lascia solo, e se anche mi lasciasse solo e lo tradissi, gli chiederei perdono e confiderei nella sua misericordia”.
La solitudine della fede, il silenzio di Dio (che appartiene alla tradizione biblica e cristiana). Il silenzio di Dio è il modo in cui Dio ci fa tirare fuori la fede, ci fa vivere la fede, fa esprimere la fede. E’ un grande atto di amore il silenzio di Dio nella nostra storia.
Andate un po’ a riprendere la vicenda personale e gli scritti di san Giovanni della Croce. La purificazione mistica passiva coincide con il momento totale di silenzio di Dio, dove la persona non riesce neanche più a capire il perché; se sapesse il perché della sua sofferenza e della sua angoscia, avrebbe almeno una luce e non sarebbe più la notte dello spirito… Il silenzio di Dio, allora, è ciò che ci permette di portare a compimento l’atto di fede.
Perché questo discorso sulla fede? Perché, vedete, il problema fondamentale del discepolo del Signore è la fede! Abbiamo ancora tutti nelle orecchie il Vangelo di ieri, Gesù che dorme mentre nella barca sta venendo meno tutto (cfr. Mc 4, 35-41). Attenzione, venendo meno tutto a dei pescatori che sanno navigare in quel lago e che quindi si trovano – umanamente parlando – sul loro terreno.
«Maestro, non t’importa che siamo perduti?», dicono i discepoli. E Gesù risponde loro: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?».  La paura è carenza di fede, esprime la mancanza di fede. E ricordate poi che, in quell’altro episodio raccontato dall’evangelista Matteo (al cap.14), Gesù mette in barca i suoi discepoli, rimane solo a pregare e poi, ad un certo punto della notte, li raggiunge mentre il mare infuria… C’è quel dialogo con Pietro: “Pietro allora gli rispose: «Signore, se sei tu, comandami di venire verso di te sulle acque». Ed egli disse: «Vieni!». Pietro scese dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù. Ma, vedendo che il vento era forte, s’impaurì e, cominciando ad affondare, gridò: «Signore, salvami!». E subito Gesù tese la mano, lo afferrò e gli disse: «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?» (Mt 14, 28-31).
La paura appartiene alla vita cristiana! Chi non ha paura è pericoloso, anche nell’ambito della vita soprannaturale. Ma la fede è l’antidoto alla paura. La fede, allora, che cos’è? E’ l’inizio della relazione personale con Dio da parte mia, perché da parte sua la relazione c’è sempre, dal momento della creazione in poi, ma la mia relazione personale con Dio inizia nel momento in cui dico: io credo!
Dobbiamo coltivare molto la dottrina della fede. Che cos’è la fede? E’ fiducia? E’ abbandono? E’ conoscenza? È sapienza? E’ fondarsi sulla realtà? C’è un legame stretto con la speranza e con la carità? La fede è l’inizio, la carità è il compimento; la pienezza della fede si manifesta nell’amore e la speranza è espressione di una fede antropologicamente connotata nella storia.
Dobbiamo recuperare questi fondamentali perché, se non diventano il nutrimento della nostra preghiera e della nostra vita spirituale, allora saremo in balia delle nostre paure, delle nostre fragilità e dei nostri stati d’animo. Avremo paura anche di quelle doverose rotture che segnano la crescita e il cammino della vita di fede. Arriveremo, addirittura, a teorizzare che non bisogna interrompere determinati rapporti e relazioni, con tutto quello ciò che poi questo comporta.
Le vacanze sono un tempo formativo. E’ talmente diverso dai mesi autunnali, invernali e primaverili, è un tempo in cui dobbiamo giustamente dare spazio al riposo e alla vita di relazione con gli altri, ma sempre considerando che è un tempo nell’anno – in un certo senso – anche più importante di altri momenti formativi.
E’ il momento della verifica, il momento in cui siamo più chiamati ad essere rettori di noi stessi, in cui siamo chiamati a gioire di una realtà che ci appartiene e che incominciamo a cogliere e a vivere non più come dipendenti da quella realtà ma come chiamati ad avere – nei confronti di quella realtà: relazioni, persone e contesti – una sorta di paternità, una paternità che si acquisisce solo in un vero cammino di fede e mettendo i nostri piedi sulle tracce del Signore, non pretendendo di essere più di Lui, dando spazio quotidiano all’incontro con Lui, riscoprendo che la Pasqua vive nei santi e si esprime nella storia dei santi, perché loro hanno tradotto in una vicenda personale e concreta la storia della salvezza.
La meditazione, i salmi, l’Antico e il Nuovo Testamento ci fanno capire che tutto quello che meditiamo e preghiamo è destinato a realizzarsi nella nostra vita. Tutto quello che appartiene alla storia della salvezza dobbiamo realizzarlo e viverlo nella nostra vicenda personale, nel periodo di tempo di vita che Dio ci ha dato. Al di fuori di questo, altrimenti, ci sarà il devozionismo oppure altre scelte, come quella di diventare degli intellettuali che padroneggiano tutto l’apparato critico in ambito teologico, biblico e giuridico oppure, ancora, diventeremmo degli assistenti sociali…
Il prete è qualche cosa d’altro, rispetto alle sue capacità relazionali e rispetto alla sua – pur doverosa – cultura teologica, biblica e giuridica. Il prete appartiene a Gesù e lascia che Gesù prenda possesso della sua vita.