Omelia del Gran Cancelliere nella S. Messa con Facoltà Teologica del Triveneto, Istituti Teologici e Issr per l’apertura dell’anno accademico 2019/2020 (Padova, 9 ottobre 2019)
09-10-2019

S. Messa con Facoltà Teologica del Triveneto, Istituti Teologici e Issr per l’apertura dell’anno accademico 2019/2020

(Padova, 9 ottobre 2019)

Omelia del Gran Cancelliere Francesco Moraglia, Patriarca di Venezia

 

 

Caro don Roberto, docenti, studenti, personale tecnico e amministrativo,

rivolgo l’augurio di un sereno anno accademico a voi e a tutti quelli che operano negli Istituti Teologici affiliati e negli Istituti Superiori di Scienze Religiose che sono espressione della Facoltà Teologica del Triveneto.

L’insegnamento, la ricerca e l’apprendimento della teologia – come ogni opera umana – richiedono scelta, programmazione e impegno ma, prima di tutto, l’aiuto di Dio e la sua grazia e questo è il motivo del nostro convenire, oggi, attorno all’altare del Signore.

Il Vangelo secondo Luca, appena ascoltato, riporta la preghiera del Padre nostro. La pericope si struttura a partire da una domanda ed è costruita, da una risposta; in essa si dice come per l’uomo sia possibile entrare in dialogo con Dio: “…uno dei suoi discepoli gli disse: «Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli». Ed egli disse loro: «Quando pregate, dite…»” (Lc 11,1-2).

Parlare con Dio, innanzitutto, nella preghiera (ma non solo) comporta che Dio ci stia innanzi come interlocutore, come Colui col quale possiamo entrare in dialogo, Colui col quale possiamo parlare. Teologia – etimologicamente – significa “discorso di Dio”; innanzitutto è discorso (domanda) che Dio rivolge all’uomo e, poi, è discorso (risposta) che l’uomo rivolge a Dio.

Abbiamo bisogno soprattutto oggi, nella comunità ecclesiale, di persone che sappiano interloquire con Dio e parlare di Dio agli uomini del nostro tempo; questa è la vocazione del teologo e il servizio che è chiamato a rendere nella Chiesa. Ai teologi si chiede intelligenza, competenza e fedeltà alla Parola di Dio. Il teologo non inventa nulla; tutto, per lui, nasce dall’ascolto della Parola di Dio che è chiamato a pensare, nella fede, in una cultura e in un tempo determinati.

Un lavoro teologico serio richiede una scelta di vita; va ribadito all’inizio del nuovo anno accademico, soprattutto per gli studenti. Il lavoro teologico non è frutto d’improvvisazione estemporanea; piuttosto, richiede una dedizione gioiosa. Lo studio della teologia è una grazia nella vita del cristiano e, fino a quando non riusciamo a pensare allo studio teologico in questi termini, rimaniamo ai margini della teologia. Fare teologia è una scelta di vita e, quindi, una scelta con cui si dà priorità allo studio rinunciando ad altre legittime e gratificanti attività.

I teologi sono uomini, donne, chierici e consacrati che credono – come tutti i componenti del popolo di Dio – ma che, in forza della loro specifica vocazione, dei loro carismi e del generoso servizio ecclesiale, giungono non solo all’atto di fede ma alla piena consapevolezza critica del credere, sapendo legittimare – con rigore – quanto tutti i credenti confessano.

I teologi, quindi, per fedeltà alla loro vocazione e senso di responsabilità nei confronti dell’impegno assunto – come docenti e studenti – si riferiscono a Dio come tutti i credenti ma in loro il sapere rigoroso e metodico si dà come modalità del credere. Una fede che si coglie ed esprime nelle sue motivazioni e nelle sue giustificazioni. Sì, perché, nei teologi, la decisione e l’espressione di fede comune a tutti i cristiani dev’essere connotata da un sapere critico che sappia legittimare i loro asserti e giudizi.

Così la celebrazione eucaristica posta all’inizio dell’anno accademico non deve decadere ad abitudine ma dice quanto l’umano e il divino – ossia natura e grazia – siano, per chi fa teologia, indissociabilmente uniti, distinti ma mai separati.

In una facoltà di teologia l’impegno deve essere quello di dire, oggi, Dio in modo critico, inclusivo e comprensibile così che si comprenda quanto si dice, ovvero il Dio di Gesù Cristo. Se vogliamo, in altri termini, si tratta di dire la “differenza” cattolica nel linguaggio di oggi o, se preferiamo, nel linguaggio dell’altro ma questo – del linguaggio – è punto delicato, proprio perché non è possibile l’assunzione critica di qualsiasi linguaggio.

Partiamo dal testo di Efesini: “…agendo secondo verità nella carità, cerchiamo di crescere in ogni cosa tendendo a lui, che è il capo, Cristo” (Ef 4, 15).

Dinanzi al mistero di Dio – che oggi richiede un maggior numero di conoscenze specialistiche che la scienza teologica, per un verso, presuppone e, per un altro, ispira – i teologi devono essere persone di studio e, soprattutto, persone di preghiera se non vogliono che la teologia diventi astrazione vuota o addirittura inutile.

Certamente, una proposta teologica – al di là del principio architettonico che la contrassegna – deve considerare criticamente il principio ermeneutico che assume. Il punto, alla fine, è sempre quello: dire Gesù Cristo, dirlo chiaramente, dirlo a tutti, dirlo in modo amabile e verace, non riducendoLo e non deformandoLo.

Ed è proprio quanto troviamo espresso – all’interno di un discorso più ampio – nella Costituzione apostolica di Papa Francesco Veritatis gaudium sulle Università e Facoltà ecclesiastiche, in cui leggiamo: “La Verità rivelata deve essere considerata anche in connessione con le acquisizioni scientifiche del tempo che si evolve, perché si comprenda chiaramente «come la fede e la ragione si incontrino nell’unica verità» (…), e la sua esposizione sia tale che, senza mutamento della verità, sia adattata alla natura e all’indole di ciascuna cultura, tenendo conto particolarmente della filosofia e della sapienza dei popoli, esclusa tuttavia qualsiasi forma di sincretismo e di falso particolarismo” (Papa Francesco, Costituzione apostolica Veritatis gaudium circa le Università e Facoltà ecclesiastiche, n.71,§1).

I teologi sono chiamati quindi a scegliere e assumere, con competenza, i valori positivi delle molteplici filosofie e culture; tuttavia – ribadisce Francesco nello stesso testo – non sono da accogliere sistemi e metodi inconciliabili con la fede cristiana (cfr. n. 71, §2).

Emblematico p questo passo di Agostino che troviamo nella “Città di Dio”, quando tratta della ardua e dibattuta questione riguardante la creazione del tempo: “Da questa fede non mi scuotono gli argomenti dei filosofi…: se la ragione non potesse confutarli, la fede dovrebbe irriderli” (Agostino d’Ippona, La città di Dio, 12,17, 1-2).

Amabilità, sincerità, veracità e competenza si compongono e fra loro non sono alternative poiché Dio è insieme Agape e Logos, Amore e Verità, e ciò va considerato e tenuto insieme in ogni fase del lavoro teologico.

Col passare del tempo prende forza la prima impressione che si riceve leggendo questo passo dell’enciclica Ecclesiam suam di Paolo VI: “Vi è un… atteggiamento che la Chiesa cattolica deve assumere in quest’ora della storia del mondo, ed è quello caratterizzato dallo studio dei contatti ch’essa deve tenere con l’umanità. Se la Chiesa acquista sempre più chiara coscienza di sé – continua san Paolo VI – e se essa cerca di modellare se stessa secondo il tipo che Cristo le propone, avviene che la Chiesa si distingue profondamente dall’ambiente umano, in cui essa pur vive, o a cui essa si avvicina” (Paolo VI, Lettera enciclica Ecclesiam suam, n.60).

L’enciclica Ecclesiam suam – promulgata, il 4 agosto 1964 – risulta di sorprendente attualità nel passo citato che possiamo applicare in modo specifico alla teologia.

Tale passo risulta paradigmatico nei confronti di ogni agire ecclesiale e, quindi, anche della teologia, il “sapere critico della fede oggi” o, come abbiamo detto il “dire la differenza cattolica nel linguaggio dell’altro”. La questione diventa quella di un linguaggio idoneo e appropriato che sia sensato e vero, seppur inadeguato di fronte al mistero di Dio.

Per rimanere alle due precedenti diciture, non si può comunque smarrire la “fede” o la “differenza cattolica”; il linguaggio, come abbiamo già detto, non è mai strumento neutro. Anche perché il linguaggio – precisiamo meglio – non è mero strumento comunicativo, neutrale; il linguaggio non ha solo un ruolo funzionale, non è una sorta di “vettore” recante un contenuto che nulla ha a che fare col linguaggio stesso.

Il linguaggio, infatti, se per un verso connota la realtà, per un altro è da essa connotato e la realtà si coglie ed esprime secondo le potenzialità e i limiti del linguaggio che sono quelli del soggetto conoscente. Ne consegue che non tutti i linguaggi sono idonei ad esprimere una determinata realtà; per esempio, la realtà/alterità di Dio.

È facile, per esempio, indicare un libro, una penna, un computer e dire che questo è un libro, una penna, un computer mentre, di fronte a quella che per il credente è la realtà prima e fondativa di ogni altra realtà -cioè Dio -, questo non è possibile.

L’operazione non è facile ma essenziale ed ecco la necessità per la Chiesa della teologia e di teologi competenti; tra la competenza teologica va ascritta la libertà, che vincola il teologo al Vangelo rifiutando ogni mondanizzazione della fede.

La teologia teoretica/sistematica (fondamentale e speciale) non esaurisce lo scibile, trova aiuti preziosi nella teologia liturgica, in quella spirituale e nella storia della santità declinata in vite di santi scritte con vero rigore teologico. La bontà di una proposta teologica è tale se, alla fine, dice Gesù Cristo in modo inclusivo, senza cadere nel sincretismo, in modo amabile e verace.

Cari docenti, studenti e personale tecnico amministrativo, l’altare attorno al quale siamo tenga desta in noi la consapevolezza che compito imprescindibile della sapienza teologica è l’adorazione. La teologia porta all’adorazione confessando l’infinita misericordia di Dio Padre che, nello Spirito Santo, ci dona il Figlio unigenito e primogenito di una moltitudine di fratelli.

A tutti auguro un sereno e proficuo anno accademico, ricco di tante grazie, ma soprattutto della grazia del Signore.