Omelia nella S. Messa "Chrismatis" (Venezia, 28 marzo 2013)
28-03-2013

S. Messa ‘Chrismatis’

 

(Venezia / Basilica Cattedrale di San Marco – 28 marzo 2013)

 

Omelia del Patriarca mons. Francesco Moraglia

 

 

 

Carissimi confratelli nel sacerdozio,

 

con animo grato al Signore, che un giorno ci ha scelti per essere operai della sua vigna, oggi – nell’imminenza del Triduo Pasquale – celebriamo la nostra festa sacerdotale.

 

Colgo l’occasione per rivolgere il mio pensiero affettuoso al Patriarca emerito Marco che tutti, sempre, ricordiamo e sulla cui preghiera sappiamo di poter contare. Al Cardinale un augurio particolarissimo: ieri, infatti, ha ricordato i 65 anni di ordinazione presbiterale. Insieme a voi, cari presbiteri della Chiesa che è in Venezia, mi rivolgo ai nostri cari diaconi, collaboratori preziosi del nostro ministero.

 

 Come ben sappiamo, la storia di una persona è fatta di tante cose e le date contribuiscono, non poco, a fare la nostra storia e a dirci chi siamo. Ognuno di noi appartiene in modo particolare ad una data, quella della sua ordinazione sacerdotale. Da quel giorno siamo costituiti nell’intimo, in modo nuovo, per sempre. Sì, per sempre!

 

Il nostro essere sacerdoti non coincide con l’ufficio che di volta in volta esercitiamo, l’ufficio di parroco o un determinato incarico diocesano, neppure con una docenza stabile o con l’ufficio di canonico’ Essere prete significa, semplicemente, portare scolpiti in noi i lineamenti di Gesù Cristo, capo e sposo della Chiesa. Il luogo o l’ambiente dove siamo mandati è importante, ma è secondario.

 

Il giorno dell’ordinazione non ci è stata attribuita una pura funzione giuridico-pastorale connessa a nostre specifiche inclinazioni o competenze; piuttosto, quel giorno, siamo stati costituiti nel sacramento dell’Ordine e, quindi, nel presbiterio della Chiesa particolare. Così, ogni volta che compiamo i gesti propri del sacerdote (‘Questo è il mio corpo’, ‘Questo è il mio sangue’, ‘Io ti assolvo”), siamo segni veri ed efficaci di Gesù sacerdote nella Chiesa e nel mondo.

 

 Essere sacerdoti è cosa del tutto diversa e infinitamente più grande dell’ufficio ecclesiale di cui, di volta in volta, si è incaricati secondo le necessità della Diocesi. Il presbitero è colui che compie i gesti di Gesù, condividendo il suo sacerdozio con i confratelli, in comunione col Vescovo il quale, costituito nella pienezza del sacerdozio, è il garante ultimo dell’unità del presbiterio. È questa la realtà del sacerdozio ordinato che chiede d’essere vissuto non in modo isolato ma con i confratelli e con il Vescovo, nei fatti e con la testimonianza della vita. 

 

Il Giovedì Santo, nella Messa del Crisma, i presbiteri sono chiamati a rinnovare le promesse sacerdotali nelle mani del Vescovo. Questo gesto lo compiono non solo per sé ma dinanzi alla Chiesa e a favore di tutta la Chiesa; si tratta, infatti, di un momento ecclesiale che esprime e dà visibilità al sacerdozio ordinato che appartiene alla struttura essenziale della Chiesa.

 

Rinnovare le promesse sacerdotali vuol dire ritornare al giorno della nostra ordinazione, ripetere con i confratelli il proprio ‘sì’ e dirlo, di nuovo, pubblicamente dinanzi al popolo di Dio e al suo servizio. Rinnovare le promesse sacerdotali è espressione di una fede riconoscente, la fede riconoscente di chi intende compiere il gesto di rinnovare il dono di sé che è pura risposta alla grazia del Signore.

 

Nel nostro presbiterio abbiamo confratelli che, per ritornare al giorno dell’ordinazione, devono andare indietro soltanto di pochi mesi, neppure un anno: penso ai carissimi novelli sacerdoti – che ho avuto la gioia di ordinare lo scorso 16 giugno – don Mauro, don Francesco, il mio segretario don Morris e, invece, c’è chi – come don Gastone, ordinato il 4 luglio 1937 – deve tornare indietro di oltre settantacinque anni.

 

Sì, la nostra Chiesa – di fronte a tale ricchezza e varietà di doni e storie personali – deve semplicemente dire al suo Signore: tutto è grazia. Si, davvero tutto – nella vita di un prete – è grazia. Rinnovare con coscienza vera e sincera, senza restringimenti, l’offerta di sé significa riaffermare il proprio dono totale a servizio del Signore Gesù, della Chiesa e dei fratelli e, se è il caso, purificare un dono non offerto in pienezza. Tutto questo – lo ripeto – è grazia a cui non possiamo e non dobbiamo fare l’abitudine!

 

 Carissimi confratelli, il sacerdozio – di sua natura – richiede il dono totale di sé, non basta offrire qualcosa. Il sacerdozio, soprattutto, non ammette mezze misure; ricordiamolo nel momento in cui rinnoviamo le nostre promesse. Il fallimento di un sacerdote ha un inizio: nasce dalla reticenza nel dono di sé, reticenza nel bene. Decidere da se stessi e in se stessi se, e cosa, donare; se, e su cosa, obbedire; se, e su cosa, costruire la comunione; se recitare il breviario, se celebrare o meno l’Eucaristia’ Questo è già il segno che si è venuti meno.

 

Il sacerdote ordinato è colui che serve il popolo a cui è mandato e lo fa prima di tutto pregando per la sua gente, soprattutto presiedendo l’Eucaristia, ossia ‘attualizzando’ e ‘ripresentando’ sacramentalmente l’unica offerta del corpo dato e del sangue effuso avvenuta una volta sola. E il dono totale del sacerdote è richiesto dalla stessa Eucaristia in cui Gesù nulla trattiene per sé. L’Eucaristia è, infatti, il dono totale di chi ha amato i suoi sino alla fine; è il dono, compiuto sul Calvario, in cui realmente vive il ‘tutto’, il ‘tutto è compiuto’.

 

La teologia del sacerdozio di Cristo ci è proposta, in modo mirabile, nella lettera agli Ebrei. La semplicità e la profondità di tale cristologia sacerdotale del Nuovo Testamento ci aiuta a non svilire il ministero che siamo chiamati ad esprimere con tutto il nostro essere ma a viverlo sapendo che il sacerdozio consiste in un potere/servizio che, in nessun modo, è frutto di umana acquisizione.

 

 Si può imparare a suonare uno strumento, si può imparare l’arte del medico e dell’avvocato, si può anche imparare la teologia o le discipline amministrative ecclesiastiche’ Ma il sacerdote non è le sue conoscenze  teologiche, non è la sua capacità manageriale, non è la titolarità di una parrocchia o il conseguimento di una docenza stabile. Tutte queste cose – se ci sono – sono un bene ma non costituiscono il sacerdozio e, soprattutto, non devono finire per imprigionare il sacerdote che è in noi.  

 

Il sacerdozio rimane un dono che viene dall’alto e, così, non s’impara a fare il prete come si acquisisce un sapere umano. Il sacerdozio ministeriale come il sacerdozio comune sono, infatti, realtà sacramentali, sono doni. L’ordine è un dono, il battesimo è un dono e lo sono in modi essenzialmente diversi e ci costituiscono entrambi là dove le sole forze  umane non avrebbero la forza di condurre.

 

Nelle ricchezze del sacerdozio ci si addentra sempre più lasciando che Dio plasmi – con le sue mani paterne, con i suoi tempi e con quelle che, a noi uomini, sembrano le lungaggini della vita – le nostre fragili umanità. E proprio nelle nostre umanità siamo chiamati ad essere puro riverbero e totale disponibilità alla grazia al Signore Gesù.

 

Essere preti, quindi, vuol dire essere segno di Gesù capo e sposo della Chiesa e non soltanto perché, per puro dono, abbiamo ricevuto da Lui il Suo potere ma poiché siamo arrivati a pensare come Gesù, a parlare come Gesù e in tutto abbiamo lo stile di Gesù. Un prete, infatti, non può limitarsi a dire: ma io sono fatto così’

 

Nei gesti propriamente sacerdotali – in particolare in quello eucaristico – la nostra gente percepisce subito se il prete è disattento o se, invece, è impegnato a dare spazio al Signore Gesù oppure se pone se stesso al centro di tutto. Risulta poi evidente se il prete si compiace dei riti e delle forme esterne o come, d’altra parte, riduce al minimo i segni liturgici avendone smarrito il significato e non essendo più in grado di coglierne il legame di segno che unisce. Segno che unisce: è questo il significato del simbolo.

 

Un prete – soprattutto se ha la grazia di essere parroco – deve sentire la gioia e anche il dovere di condividere con la sua gente l’intimità che lo unisce a Dio. Sì, la gioia e il dovere di condividere con la sua gente l’intimità con Dio, senza arrossirne. La qualità di un’azione sacra dipende dall’interiorità di coloro che la compiono, la sua forza evangelizzatrice dipende da coloro che ne pongono i segni – gesti e parole – e, infine, la carità che essa suscita in coloro che vi partecipano dipende, non poco, dal cuore di quanti – nella celebrazione – ne sono strumenti liberi e responsabili.

 

In un bel libro – che ne scruta l’animo a partire dalla categoria dell’ ‘amore insistente’ – leggiamo come il santo curato d’Ars fosse pienamente conscio del fatto che ‘una liturgia può convertire. Fin dalla sua prima messa ad Ars, i presenti notarono l’insolita convinzione con la quale egli celebrava. Lo faceva ‘con tanta devozione che a guardarlo veniva voglia di pregare’. La sua preparazione era molto lunga’‘. (L’insistenza dell’amore. Il curato d’Ars, Jaca Book, 2009, p.156)      

 

 L’Anno della Fede ci interpella circa il nostro modo d’essere preti. Il prete – soprattutto se parroco – per la fede della sua gente è sempre una presenza decisiva. Dio ci aiuti a fare in modo che ciascuno di noi sia, per la sua gente, presenza decisiva nel bene.

 

Le parole che il santo curato d’Ars era solito ripetere al suo Vescovo sono molto significative: ‘Dico qualche volta a mons. Devie [vescovo di Belley dal 1823 al 1851]: se volete convertire la vostra diocesi, bisogna che trasformiate in santi tutti i vostri parroci‘ (Nodet B., Il pensiero e l’anima del curato d’Ars, Gribaudi, Torino, 1967, p.130).

 

Carissimi confratelli e cari fedeli, mentre ora il nostro ricordo affettuoso e grato va al mite e umile Benedetto XVI, desidero esprimere la mia gioia per il dono grande di Papa Francesco. Di Lui ci ha colpito il senso vivo di Dio e dell’uomo: il senso di Dio si è manifestato fin dalle  prime parole che ci ha rivolto dalla loggia esterna della Basilica Vaticana, quando ha chiesto di pregare con lui il Padre Nostro e l’Ave Maria e quando ha domandato su di sé la preghiera del popolo affinché Dio lo benedicesse e, quindi, Egli potesse impartire la sua prima benedizione come Vescovo di Roma e pertanto Pontefice della Chiesa universale, Colui che presiede alla carità universale.

 

Ringraziamo il Signore perché Papa Francesco, nel nome scelto e nello stile assunto, ha reso di nuovo vivo quanto il grande Papa Gregorio Magno (VI/VII secolo d.C.) scrive nella Regola Pastorale: ‘[il pastore d’anime] tocca vette altissime quando si piega misericordioso sui mali profondi degli altri. La capacità di piegarsi sulla miseria altrui è la misura della forza di slancio verso l’alto‘ (Regola Pastorale, II, 5).

 

Il ricordo costante dei poveri, da parte di Papa Francesco, ci aiuti ad essere più essenziali sia nella vita personale che nell’azione pastorale, guardando meno alle strutture e alla loro visibilità e più al dono generoso di sé, come richiama il Vangelo e come i Santi hanno sempre testimoniato con la loro vita profondamente radicata in Cristo.

 

Lascio, infine, alla nostra comune considerazione queste parole di Papa Francesco sul ministero ordinato, espresse in un’intervista quando era ancora arcivescovo di Buenos Aires. Egli qui si riferisce direttamente al vescovo – al sacerdozio di primo grado – ma il suo pensiero si adatta bene anche ai presbiteri o al sacerdozio di secondo grado: ‘L’ordinazione episcopale non è un semplice atto giuridico mediante il quale è conferita a un presbitero una più ampia giurisdizione, ma un’azione di Cristo che, donando lo spirito del sommo sacerdozio, santifica l’ordinando nel momento in cui riceve il sacramento e che di per sé esige per lui stesso tutti quegli aiuti di grazia di cui ha bisogno per l’adempimento della sua missione e dei suoi compiti. La conseguenza è che ogni vescovo si santifica proprio nel e con l’esercizio del suo ministero‘ (Gianni Valente, Francesco un papa venuto dalla fine del mondo, p. 52).

 

Diciamo il nostro grazie al Signore per quel dono che – un giorno, in un momento preciso della nostra storia personale – ci ha fatto. Quel dono che ci ha cambiato e che chiede la legge della generosità, di fronte alla generosità di Cristo che si chiama croce.

 

 

 

Al termine della S. Messa, poco prima della benedizione finale, il Patriarca ha infine aggiunto:

 

Ringraziamo il Signore per questa celebrazione che ci dispone al Triduo Sacro e ringraziamo il Signore del dono immeritato del sacerdozio. Abbiamo rinnovato le promesse di quel giorno: la fedeltà quotidiana, la fedeltà nel tempo, è l’espressione del vero amore di un uomo. Custodiamo un dono grande e noi sappiamo di essere vasi di creta… In questa confidenza, in questa fiducia, in questa rinnovata intimità con Dio, sappiamo che Lui può fare in noi cose grandi.

 

Affido ai rappresentanti di zona, ai vicari e ai parroci gli Olii Santi: sono il segno sacramentale della Chiesa. La Chiesa opererà attraverso questi Olii, rinnoverà, perdonerà, santificherà. Questi Olii siano oggetto di custodia attenta, da parte dei parroci, e siano oggetto di catechesi perché la sacramentalità universale della Chiesa vive attraverso questi segni. A tutti i miei confratelli l’augurio di un sacerdozio sereno e gioioso nel Signore.