Omelia nella S. Messa al Cimitero di Venezia nel giorno della Commemorazione dei fedeli defunti (2 novembre 2015)
02-11-2015

Commemorazione dei fedeli defunti

S. Messa al Cimitero di Venezia / Chiesa S. Michele (2 novembre 2015)

Omelia del Patriarca mons. Francesco Moraglia

 

 

 

 

 

Ringrazio tutte le autorità: il Prefetto, il Sindaco, il Questore e le altre autorità militari e civili presenti. È un momento importante, questo, perché una comunità che ricorda i propri morti  esprime un senso di gratitudine civile e dice implicitamente che anche questa virtù spesso così disattesa – la gratitudine – deve entrare nei rapporti sociali e civili.

Al di là della visione di fede, che pure per noi qui è fondamentale, si tratta quindi di un gesto politico, un gesto educativo, un gesto che dice il nostro modo di pensare il bene comune garantito dallo Stato e nelle sue varie articolazioni.

Ringrazio perciò particolarmente, al di là dei motivi personali che possono portare ognuno di voi a solennizzare la giornata di oggi, le nostre autorità.

Mi voglio riferire, però, alla festa religiosa perché Gesù ha puntato tutto sulla resurrezione. La credibilità della fede cristiana è proprio questa: l’amore di Dio è più forte, anche di quell’evento dinnanzi al quale nessun uomo può opporsi. Di fronte alla morte non c’è progetto scientifico in grado di dire: fèrmati! Si potrà allontanare il momento ma non c’è somma di denaro sufficiente per comprare l’immortalità. La morte diventa la chiave, che ciascuno di noi ha, per interpretare la sua vita.

Uno dei danni maggiori della nostra cultura è quello di esorcizzare la morte. Fino alla soglia del momento irreparabile ci “dobbiamo” credere onnipotenti ed eterni… Se ospitassimo di più in noi il pensiero della nostra fragilità, anche quando siamo al culmine delle nostre risorse umane, fisiche e intellettuali, come sarebbe più umana la nostra società! Invece “dobbiamo” crederci – o far finta di crederci – onnipotenti ed eterni, fino al momento in cui ci nascondiamo perché ormai la vita non vale più.

Non sono pensieri cristiani questi, ma non sono neppure pensieri umani. E una società che vive di questi pensieri si manifesta sempre più come la società della performance. Così noi non riusciamo più ad afferrare il tempo, eppure il tempo è la cifra della nostra esistenza.

Riconciliarci con la morte ed avere il coraggio di una proposta educativa di questo termine non ci rende “gufi”! Si tratta di essere uomini. Uomini, perché conosciamo la nostra fragilità, conviviamo con il nostro essere fragili, capiamo le fragilità nostre e degli altri.

La morte non deve essere un evento espulso dal vivere ma deve essere, a pieno titolo, un momento della nostra vita. Solamente se noi pensiamo, viviamo e accogliamo anche quel momento della nostra vita, noi riusciamo a vivere bene, più sereni, più tranquilli e a non pensarci onnipotenti. E allora la vita sfiorisce in un modo differente.

Siamo tutti ammirati dalla figura di Francesco d’Assisi, anche i non credenti, anche gli anticlericali; io vorrei invitarvi a leggere le “Fonti Francescane”. Rimarreste stupiti di come Francesco pensava la Chiesa, il Papa ed il rapporto con il Vescovo, il rispetto che aveva per il prete, il fatto non si ritenne degno di diventare sacerdote… Ebbene, Francesco d’Assisi arriva a chiamare la morte “sorella”.

Quando si apre lo sguardo su Dio creatore si ama il creato, non solo perché si teme di danneggiarlo in quanto poi si potrebbe rivoltare contro di noi, ma perché il creato va amato di un amore pieno e, scoprendosi creature, si può arrivare a riconciliarsi anche con il momento creaturale della morte.

Per il cristiano, poi, la morte – dovremo arrivare tutti a quel momento nutriti di questi pensieri – è l’atto ultimo di maturazione del piano di Dio. Non siamo completi, non abbiamo fatto tutta la strada che dovevamo fare, fintanto che non abbiamo detto il sì della morte.

Il sì della morte è l’atto di fede più grande, è l’atto di obbedienza più grande, perché io nella morte compio l’atto di distacco e di povertà più grande possibile; mi distacco dal mio corpo, un corpo oggi tanto idolatrato.

Le nostre adolescenti, in particolare, patiscono i messaggi della moda perché vedono che c’è chi, prima di una sfilata, per dieci giorni assume solo liquidi… Noi mandiamo ai nostri ragazzi questi messaggi: un corpo idolatrato e anche deturpato, perché chi non mangia da dieci giorni non può essere bello, c’è poco da fare… Ho fatto solo uno degli esempi possibili.

E poi non vediamo l’ora di sbarazzarci di quel corpo che, poco prima, avevamo idolatrato secondo i dettami della moda, del pensiero dominante, della cultura dominante. Idolatriamo, infatti, il nostro corpo in modi differenti. Sì, poi non vediamo l’ora di sbarazzarcene quando questo corpo non corrisponde più a quell’efficientismo, a quei canoni e a quelle misure… Dobbiamo davvero ripensare il nostro modo di essere uomini.

Il giorno dei Defunti ci dà in mano le chiavi dell’interpretazione della nostra vita, partendo dal momento che sta dinanzi a tutti. Sta dinanzi ai ricchi, ai poveri, ai colti, agli ignoranti, ai giovani, agli anziani: è quel momento che attendiamo con la fede di chi sa che la vita continua e si compie nella risurrezione.