Solennità del Corpus Domini – Domenica 2 giugno 2013
Basilica Cattedrale di San Marco – Venezia
Omelia del Patriarca mons. Francesco Moraglia
Il pane è il nutrimento base dell’uomo; senza nutrirsi – lo sappiamo – non si può vivere, ci si indebolisce, si deperisce e, alla fine, si muore. E’ significativo che Gesù, il Signore, ci abbia voluto consegnare un nutrimento, un cibo per la vita spirituale. Talvolta si sottovaluta un tale fatto che, in realtà, è in se stesso molto eloquente per la vita battesimale del cristiano. L’Eucaristia infatti è stata donata – ma avrebbe potuto anche non essere così – sotto forma di pane, ossia nutrimento, cibo spirituale. Innanzitutto il termine ‘spirituale’ non è sinonimo di irreale, non significa qualcosa di ‘non vero’ ma, piuttosto, qualcosa che – è bene ripeterlo nella nostra società secolarizzata – riguarda la parte più profonda del nostro essere personale.
Tanto che a questo cibo spirituale Gesù lega in modo misterioso, ma realissimo e ripetuto – pensiamo al discorso eucaristico della sinagoga di Cafarnao -, la promessa della risurrezione della carne. L’Eucaristia è pegno di risurrezione: ‘Chi mangia questo pane vivrà in eterno‘ (Gv 6, 58). È necessario, però, andare oltre la materialità del pane e cogliere il segno-simbolo del pane nella sua realtà che va oltre il puro o vuoto simbolismo.
Gesù rimprovera gli uomini e le donne che, dopo la moltiplicazione dei pani, lo ricercano e corrono a Lui fermandosi però alla materialità del pane: ‘Voi mi cercate – dice con forza Gesù – non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati‘ (Gv 6, 26). Ma rimprovera pure i discepoli perché incapaci di cogliere la realtà spirituale dell’eucaristia: ‘È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla‘ (Gv 6, 63).
Il rischio, sempre ricorrente, è di fermarsi all’aspetto esteriore, alla materialità del simbolo, come se si trattasse di un comune pane e così tutto si esaurisce – come Gesù dice a Cafarnao – in un semplice mangiare dei pani oppure in un vuoto ‘simbolismo’, ‘irreale’, alla fine ‘non vero’ e così non cogliere la realtà vera e realissima consegnata al segno, lasciandosi, alla fine, portare da essa nel mistero. La prima preoccupazione del buon padre di famiglia è dare il cibo ai propri figli, perché il nutrimento è sinonimo di vita. Se si vuole che i figli vivano bisogna, concretamente, garantire loro il cibo quotidiano. Così, Gesù vuol dare ai suoi discepoli il cibo che consenta loro di vivere, di non venir meno lungo la strada e che permetta loro di giungere alla meta; in tal senso è eloquente la vicenda del profeta Elia.
La vicenda di Elia è un chiaro esempio di lettura tipologica di un testo dell’Antico Testamento. Il profeta è in fuga, ricercato a morte, stanco e stremato; è ormai disposto a consegnarsi al suo destino ma, misteriosamente, viene invitato a nutrirsi di un cibo: una focaccia di farina, un cibo che gli permetterà di raggiungere la meta, l’Oreb, il monte dove Dio aveva incontrato Mosè e il popolo. Questa narrazione, tratta dal primo libro dei Re, è nota. Il protagonista è un uomo affranto, solo, disperato, che sa ormai d’essere giunto allo stremo delle forze: ‘[Elia] s’inoltrò nel deserto una giornata di cammino e andò a sedersi sotto una ginestra. Desideroso di morire, disse: «Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri». Si coricò e si addormentò sotto la ginestra. Ma ecco che un angelo lo toccò e gli disse: «Àlzati, mangia!». Egli guardò e vide vicino alla sua testa una focaccia, cotta su pietre roventi, e un orcio d’acqua. Mangiò e bevve, quindi di nuovo si coricò. Tornò per la seconda volta l’angelo del Signore, lo toccò e gli disse: «Àlzati, mangia, perché è troppo lungo per te il cammino». Si alzò, mangiò e bevve. Con la forza di quel cibo camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l’Oreb‘(1Re 19, 4-8).
L’Eucaristia ci appare come cibo e nutrimento che è donato e che accompagna lungo il pellegrinaggio terreno verso la meta. Elia è la figura dell’uomo, l’uomo in quanto tale, l’uomo che da solo viene meno e che – abbandonato alle sue sole forze – è condannato. L’Eucaristia ci dona la forza per poter andare avanti, per non venire meno lungo la strada. E qui troviamo alcuni importanti significati della processione che stiamo per fare e che costituisce il momento culminante della liturgia nella giornata del Corpus Domini.
La processione, che occupa oggi un posto particolarmente significativo, si svolse per la prima volta a Colonia nel 1277; appartiene allo spirito tedesco il bisogno di vedere e toccare… In essa viene espressa in modo simbolico e reale la vita del cristiano che cammina verso la meta con il suo Signore e guardando a Lui. Possiamo dire che il singolo cristiano e l’intera comunità portano in processione il loro Signore ma, in realtà, è Lui – il Signore – che porta ogni discepolo e l’intera comunità ecclesiale.
Altro aspetto importante della processione eucaristica – che oggi si snoda lungo le strade della città e per i quartieri in cui l’uomo vive la sua esistenza di tutti giorni e in cui abitano e lavorano anche coloro che non vanno mai in Chiesa – è il fatto di esprimere in tal modo una grande, pubblica e comunitaria testimonianza di fede; in quest’Anno della Fede è un particolare annuncio di fede della comunità credente e, se vissuto con fede, è un atto di vera evangelizzazione. Coloro che sono particolarmente attenti a quella che si può definire ‘la teologia’ o ‘pastorale’ del sagrato dovrebbero essere fra i primi a cogliere il senso e il valore di questo segno-testimonianza reso dalla comunità dei credenti.
La processione, ancora, appare un eloquente segno ecclesiologico: la Chiesa che cammina lungo le strade del mondo col suo Signore, guardando a Lui e lasciandosi portare da Lui è infatti, per ogni uomo, per tutti gli uomini e non solo per quanti già lo riconoscono tale. Il Signore passa ovunque, come, duemila anni fa, Gesù passava lungo le polverose strade della Palestina; proprio in quelle vie incontrò tra gli altri il futuro apostolo Bartolomeo con i suoi pensieri reconditi sotto l’albero di fico, il pubblicano e ricco Zaccheo arrampicato fra le fronde del sicomoro, l’irregolare donna samaritana al pozzo di Sicar, il giovane ricco non disposto a lasciare il suo ingente patrimonio lungo una strada non meglio determinata. Oggi, fra poco, si ripeterà questo prodigio.
Infine, nel gesto che fra poco compiremo – il camminare con Lui, verso di Lui e portati da Lui, appunto la processione – è contenuto il nucleo di un altro messaggio centrale della giornata del Corpus Domini, ossia l’adorazione che ha il suo momento peculiare e culminante nell’inginocchiarsi. Riprendiamo, a questo proposito, quanto Benedetto XVI aveva detto spiegando la liturgia del giorno del Corpus Domini: ”non si può non pensare all’inizio del ‘decalogo’, i dieci comandamenti, dove sta scritto: ‘Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione di schiavitù: non avrai altri dèi di fronte a me’ (Es 20, 2-3)… Adorare il Dio di Gesù Cristo, fattosi pane spezzato per amore, è il rimedio più valido e radicale contro le idolatrie di ieri e di oggi. Inginocchiarsi davanti all’Eucaristia è professione di libertà: chi si inchina a Gesù non può e non deve prostrarsi davanti a nessun potere terreno, per quanto forte. Noi cristiani ci inginocchiamo solo davanti al Santissimo Sacramento, perché in esso sappiamo e crediamo essere presente l’unico vero Dio, che ha creato il mondo e lo ha tanto amato da dare il suo Figlio unigenito (cfr Gv 3,16)’ (Benedetto XVI, Corpus Domini 2008).
Auguro a tutti che la processione sia un momento di fede, di preghiera, di colloquio intimo con il Signore e, se è il caso, di revisione di vita.