Omelia nella Messa in Coena Domini (S. Marco, 5 aprile 2012)
05-04-2012

Messa nella cena del Signore

 

Omelia di S.E. Francesco Moraglia, patriarca

 

 ‘Eucaristia, carità di Cristo, carità fraterna’

 

(Giovedì 5 aprile 2012 ‘ Basilica S. Marco / Venezia)

 

 

 

            La Chiesa con la celebrazione eucaristica vespertina del giovedì santo entra nel periodo più sacro dell’anno liturgico, i giorni che già sant’Agostino denominava, con un’espressione particolarmente felice, il ‘triduo del crocifisso, del sepolto e del risorto’.

 

            Il triduo sacro inizia con la messa ‘nella cena del Signore’, in cui la comunità cristiana fa la memoria dell’istituzione dell’Eucaristia e del sacerdozio – il sacramento dell’ordine – e, insieme, rivive il comandamento della carità fraterna, così come ce ne dà testimonianza il vangelo di Giovanni.

 

            L’azione eucaristica evidenzia il segno della cena; segno scelto da Gesù e col quale, una volta per sempre, ha voluto consegnare alla Chiesa il ‘rito-memoriale’ della croce, il suo sacrificio per la salvezza del mondo; in tal modo si ricorda l’istituzione della Pasqua rituale e sacramentale – l’ultima cena – che ha preceduto la Pasqua storica del Signore, ossia il calvario, di cui l’eucaristia è, appunto, segno efficace.

 

            Sulla linea del pane-spezzato e del vino-effuso ‘dati’ in cibo e bevanda si pone il segno della lavanda dei piedi; ‘Gesù – annota l’evangelista Giovanni – si alzò da tavola, depose le vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse attorno alla vita… e cominciò a lavare i piedi ai discepoli’ (Gv 13,4-5).

 

            Ed è proprio a partire da questi segni che, per i discepoli – e, quindi, anche per noi – si dà la possibilità di una vita ‘secondo Gesù’; una vita che sia un reale servizio d’amore e che va oltre la pura logica umana: ‘Se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete? Non fanno così anche i pubblicani?’ (Mt 5,46).

 

            Quindi il comandamento nuovo dato da Gesù ai discepoli    amarsi gli uni gli altri come Lui li ha amati (cfr. Gv 13,34)  – non va inteso come un richiamo ad una generica solidarietà. Il vangelo chiede, invece, qualcosa di diverso, qualcosa di più: amare come Gesù ha amato. Così si deve passare, tramite la conversione personale, anche alla ‘riconversione’ evangelica delle strutture sociali e politiche. Solo a partire da Gesù, infatti, si dà condivisione cristiana e – senza croce ed eucaristia – tale fraternità risulta impossibile.

 

            La Chiesa, il nuovo popolo di Dio, nasce proprio dalla carità di Cristo. Ciò significa che, sul piano del mistero, l’eucaristia fa la Chiesa mentre, su quello del sacramento – ossia del ministero – la Chiesa mostra la sua fedeltà al Signore e fa memoria di Lui e della sua Pasqua: ‘Fate questo in memoria di me’. Per i discepoli è essenziale celebrare il sacramento della croce e cibarsi del corpo e del sangue di Gesù, solo in tal modo si potrà amare come Lui ama. 

 

            Questa celebrazione liturgica del giovedì santo termina con la processione eucaristica, con cui il Santissimo Sacramento viene recato all’altare della reposizione, detto volgarmente – ma erroneamente – ‘sepolcro’. Infatti il senso di questo altare, opportunamente preparato, non è richiamare la sepoltura del Signore – la liturgia della Chiesa, tra l’altro, non ne ha ancora celebrato la passione – ma, piuttosto, conservare le sacre particole per la comunione del venerdì santo, giorno in cui la Chiesa, fin dalle origini, non celebra l’Eucaristia.

 

            Il Santissimo Sacramento, inoltre, viene conservato all’altare della reposizione anche per un altro motivo: l’adorazione dei fedeli. Così, nel giorno in cui si fa memoria dell’istituzione dell’Eucaristia, il suo culto risulta pienamente affermato e, al di là del momento della celebrazione, si esprime, appunto, nell’adorazione del sacramento permanente.

 

            L’adorazione dei fedeli così si protrae, in un primo momento, in modo solenne e poi può continuare in maniera più intima, dimessa, personale.

 

            L’erroneo appellativo di ‘sepolcro’, dato all’altare della reposizione, può esser fatto risalire a differenti consuetudini. Una rimanda alla veglia di preghiera che si teneva presso la chiesa della risurrezione a Gerusalemme (Eteria, IV secolo), l’altra si collega ad un’usanza (Ireneo, il papa Vittore, II secolo) concernente un digiuno di quaranta ore, lo spazio di tempo in cui Gesù – secondo la tradizione – rimase nel sepolcro. Poi, in epoca medioevale, in taluni ambiti della cristianità è attestata la pia pratica del ‘santo sepolcro’: una devozione al crocifisso deposto nel sepolcro, ma anche – come attesta il beato Ulrico di Augusta (+ 973) – all’usanza di porre, nel sepolcro, il Santissimo Sacramento che veniva tolto la mattina di Pasqua e portato via processionalmente.

 

            Ora, se tale pratica o devozione detta del ‘santo sepolcro’ doveva protrarsi per quaranta ore, quelle che si ritenevano trascorse da Gesù nel sepolcro e tale computo era limitato dal canto del gloria della messa pasquale – il mezzogiorno del sabato santo -, tale devozione chiedeva d’essere anticipata la sera del giovedì santo; da qui il nome di ‘sepolcro’ dato a quello che, in realtà, è l’altare della reposizione del Santissimo Sacramento e che costituisce il compimento naturale della liturgia della messa ‘nella cena del Signore’.

 

            Oggi, comunque, è importante riscoprire il senso dell’adorazione eucaristica: la realtà del ‘sacramento permanente’, l’Eucaristia, termine della nostra adorazione personale e comunitaria.

 

            Si tratta di tener vive le realtà della celebrazione e dell’adorazione. L’adorazione è prolungamento del momento celebrativo e preparazione ad esso e la celebrazione eucaristica è, come ci ricorda Benedetto XVI,  il più grande atto di adorazione della Chiesa.

 

            I genitori, i parroci e i catechisti aiutino soprattutto i bambini che in diocesi si stanno preparando a ricevere la prima santa Comunione a valorizzare il momento della comunione eucaristica. Quegli istanti che precedono e seguono l’incontro sacramentale con Gesù devono essere vissuti in spirito di vera adorazione, silenzio e raccoglimento interiore ed esteriore. Ricordiamo, infine, la perenne attualità del monito di sant’Agostino: ‘Nessuno mangia questa carne se prima non l’ha adorata’ (Enarrationes in psalmos, 98,9).