Omelia in occasione della Messa della Carità (Duomo S. Lorenzo / Mestre, 15 dicembre 2012)
15-12-2012

Messa della Carità (Duomo S. Lorenzo / Mestre, 15 dicembre 2012)

 

Omelia del Patriarca mons. Francesco Moraglia

 

 

 

 

Nulla accade per caso ed oggi la liturgia ci propone, nella seconda lettura, il tema della gioia: ‘Siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripeto: siate lieti. La vostra amabilità sia nota a tutti’ (Fil 4, 4-5). E’ un messaggio che ci giunge dalla Parola di Dio annunciata nella Chiesa. Chi opera nella carità deve essere una persona lieta nel Signore, una persona amabile, e tante volte non è facile esercitare la carità.

 

Il brano del Vangelo di oggi è ritmato da una domanda: ‘Che cosa dobbiamo fare?’ (cfr. Lc 3, 10.12.14). Questa domanda è ripetuta per ben tre volte. Giovanni Battista se la sente dire da varie categorie di persone: le folle, i pubblicani, i soldati. La risposta di Giovanni è la vita battesimale, la vita di fede, di speranza e di carità.

 

Pare che questa domanda appartenesse alla liturgia battesimale antica della Chiesa ed è la stessa domanda che, al capitolo secondo degli Atti, le folle che ascoltano il discorso di Pietro a Pentecoste pongono agli apostoli (cfr. At 2,37). E la risposta di Pietro è stata: ‘Convertitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per il perdono dei vostri peccati, e riceverete il dono dello Spirito Santo’ (At 2, 38). Vivete, quindi, la vita battesimale. Siate lieti, siate amabili.

 

Vorrei proporvi una riflessione di Chiara Lubich sull’amore umano e sull’amabilità cristiana, tratta da un testo intitolato ‘C’è amore e amore’. In esso Chiara Lubich così si esprime: ”mi sono resa conto che c’è amore e amore. Ho visto che avere una certa comprensione degli altri, interessarsi un po’ ai loro dolori, cercare di portare in qualche modo i loro pesi, amare insomma così così, non basta per essere come Gesù ci vuole. Dio – continua Chiara Lubich – domanda a noi un amore, atti d’amore che abbiano (almeno nell’intenzione e nella decisione) la misura del suo amore: amatevi – ha detto – come io vi ho amato (Gv 13, 34)’ [1].

 

La solidarietà, quindi, per il cristiano non può prescindere da questa caratterizzazione cristologica. Che dire allora di un cristiano che, in ciò che lo costituisce tale ossia il suo rapporto con Cristo, è disposto a venir meno e a cedere?

 

La famosa pagina del Vangelo secondo Matteo (cfr. Mt 25, 31-46) ci avvisa: avevo fame, mi hai dato da mangiare. E alla domanda del discepolo (‘Quando mai?’) la risposta è: ‘Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli l’avete fatto a me’ (Mt 25, 40).

 

Bisogna, però, fare in modo di non tradire la Parola di Dio che ci ricorda che il significato ultimo di tutto (anche del povero) è Cristo. E non che il significato ultimo di Cristo è l’uomo… Insomma: il povero è Cristo. E non viceversa. Se qualcuno faticasse a capire bisogna ribadire: l’uomo, qualunque esso sia, ha il senso ultimo di sé in Cristo e non viceversa. Ossia, Cristo non ha il suo significato ultimo nell’uomo che, così, finirebbe per essere il senso ultimo di Cristo’

 

È in gioco, qui, qualcosa di essenziale che non può essere smarrito o disatteso se non accettando di perdere il Vangelo stesso. Non è una sfumatura, è la sostanza. Non è la periferia, è il centro. Non è teologia astratta, è la realtà del cristianesimo. Siamo in Avvento e tra poco, a Natale, canteremo: ‘Il Verbo si è fatto carne’.

 

Certamente non stupisce che chi non ha la fede faccia fatica a capire’ Ma chi è cristiano, o non ha ancora smesso di esserlo, non dovrebbe faticare troppo a vedere con gli occhi della fede questa realtà che è sostanza e capire. D’altra parte, chi non ha la fede dovrebbe a sua volta capire’

 

Ma perché a un cristiano che compie un atto di prossimità, un atto di aiuto o di cordialità nei confronti del prossimo si deve chiedere di farlo dimenticandosi di essere cristiano, dissimulando la sua storia e il suo stesso essere? Non siamo nella società multiculturale?

 

Sempre Chiara Lubich, in un altro passo, ci ricorda: ‘Non basta per un cristiano essere buono, misericordioso, umile, mansueto, paziente’ Egli deve avere per i fratelli la carità. Ma -continuo a citare – la carità, può obiettare qualcuno, non è forse essere buoni, misericordioso, pazienti, saper perdonare? No – è sempre Chiara che parla –: la carità ce l’ha insegnata Gesù. Essa fa morire per gli altri. Morire, non solo essere pronti a morire” [2].

 

Dobbiamo riscoprire questi fondamentali che ci permettono di essere uomini con gli uomini a partire dal progetto di uomo che è Gesù Cristo, il quale non toglie nulla a nessuno.

 

Concludo, infine, con un passo del famoso discorso pronunciato da Giovanni Paolo II a Puebla nel 1979 e che consiglio, soprattutto a chi si fa carico delle povertà della città, di andare a rileggere [3]. L’ampio respiro di tale discorso, a prospettiva planetaria, va tradotto nella prospettiva semplice e quotidiana della nostra carità di ogni giorno. Giovanni Paolo II così si esprimeva: ‘Per salvaguardare l’originalità della liberazione cristiana e le energie che è capace di sviluppare è necessario ad ogni costo, come chiedeva il Papa Paolo VI, evitare riduzioni e ambiguità: ‘La Chiesa perderebbe la sua significazione fondamentale. Il suo messaggio di liberazione non avrebbe più alcuna originalità e finirebbe facilmente per essere accaparrato e manipolato da sistemi ideologici e da partiti politici’.

 

La carità non è ideologia, non è una dottrina o militanza politica; la carità è l’essenza della nostra vita battesimale. Gesù Bambino – la carità di Dio in mezzo a noi – ci ispiri la semplicità del bene, l’umiltà cristiana del donare, la gioia grande di chi si sente servo inutile!

 

 

 



[1] Chiara Lubich, ‘L’arte di amare’, pag. 111.

 

[2] Chiara Lubich, ‘L’arte di amare’, pag. 113.

 

[3] Il riferimento è al discorso pronunciato dal Santo Padre Giovanni Paolo II in occasione della III Conferenza generale dell’Episcopato latinoamericano a Puebla (Messico) il 28 gennaio 1979.