Omelia durante il pellegrinaggio mariano dal Tempio Votivo alla chiesa parrocchiale di S. Nicolò (Lido di Venezia, 6 dicembre 2014)
06-12-2014
Pellegrinaggio mariano dal Tempio Votivo alla chiesa parrocchiale di S. Nicolò
 

 

(Lido di Venezia, 6 dicembre 2014)

 

 

 

 

Omelia del Patriarca mons. Francesco Moraglia
Carissimi,
vorrei innanzitutto dire il mio grazie a don Giancarlo, don Cesare, don Renato e don Lucio.
E’ questa un’occasione bella, con tanti momenti differenti che parlano alla nostra anima e alla nostra vita spirituale. Siamo nel tempo dell’Avvento, siamo nella novena dell’Immacolata e qui c’è un richiamo particolare: il Tempio Votivo dedicato all’Immacolata – e da cui siamo partiti – con quel ricordo tragico delle guerre, dei morti e delle sofferenze.
Siamo anche nel giorno solenne della liturgia di S. Nicolò il cui corpo, almeno in parte, riposa proprio in questa chiesa: è lui il patrono dei bambini, dei ragazzi, degli scolari ma anche dei farmacisti, dei mercanti, dei naviganti, dei pescatori.
C’è poi il Natale che “incombe” e la Chiesa ci chiede di guardare a Maria, proprio perché il nostro sguardo raggiunga Gesù. La nostra spiritualità mariana è, infatti, una spiritualità “relativa”, che va oltre: Maria ci indica sempre e solamente il Signore Gesù.
Questo è anche – non dimentichiamolo – il pellegrinaggio per le vocazioni. Abbiamo bisogno di preti perché del prete non si può fare a meno e solo una certa mentalità – non so se dire ideologizzata o sciocca – pensa che, quando si sottolinea la necessità del prete, si penalizzino le altre vocazioni.
Il prete appartiene alla struttura fondamentale della Chiesa: senza preti non si può andare avanti, non c’è la celebrazione dell’Eucarestia e, quindi, non c’è la Chiesa. Questo non vuol dire che poi le vocazioni al diaconato, al matrimonio, alla vita consacrata nel mondo, alla vita attiva comunitaria e alla contemplazione non siano necessarie! Non vuol dire che non dobbiamo chiederle, ma il dono del prete è essenziale alla vita della Chiesa ed allora ci ricordiamo che – tra tutte le indicazioni che questa giornata riesce a sintetizzare e portare ad unità – c’è anche la richiesta al Signore di preti santi.
Io spero davvero che, quando mi presenterò di fronte al Signore, non mi venga detto: ”Hai ceduto alla tentazione di ordinare un prete pur non essendo umanamente convinto”. E’ meglio, allora, avere due o tre parrocchie “scoperte” piuttosto che un prete non convinto della sua identità e non capace di rispondere appieno a quello che la prima lettura di oggi ci ha fatto intravedere: il Signore dal seno materno mi ha chiamato, fino dal grembo di mia madre ha pronunciato il mio nome” (Is 49, 1).
Il sacerdozio non è una tua scelta, è una risposta che sei chiamato a dare. E la prima lettura continua dicendo: “Ha reso la mia bocca come spada affilata, mi ha nascosto all’ombra della sua mano, mi ha reso freccia appuntita, mi ha riposto nella sua faretra” (Is 49, 2). Freccia appuntita nel bene perché la vita cristiana – partendo dal Battesimo – si propone come una scelta, una scelta di campo: prometti e rinunci. Certi grandi santi – pensiamo a sant’Ignazio di Loyola, non per nulla hanno immaginato la vita cristiana come una battaglia, come un impegno, come una dedizione.
Tra pochi giorni sentiremo proclamare il Vangelo di Natale: “…la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta” (Gv 1, 5). Non l’hanno compresa, anzi, l’hanno rifiutata. Il prologo del Vangelo secondo Giovanni – quei diciotto versetti con cui inizia – contiene la sintesi di tutto il suo Vangelo, il realismo cristiano, la vita cristiana come testimonianza di fronte al mondo, la comunione con Dio in Gesù Cristo. “Dio – termina il prologo –, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato” (Gv 1, 18).
Il Natale – il nostro pellegrinaggio si svolge nel primo sabato del tempo di Avvento – ci richiama proprio a questa apertura mariana: nel silenzio Maria medita le grandi cose di cui è testimone quotidianamente.
Sarebbe un grave errore non capire che ciascuno di noi ha una dimensione mariana nella sua vita. Maria è in sé, nella sua persona, la Chiesa; il mistero mariano è per ogni discepolo del Signore. Noi, molte volte, ci roviniamo la vita – non solo dal punto di vista della fede ma anche da quello della psicologia e dell’equilibrio – perché non accediamo ad una visione completa della realtà.
Maria “custodiva tutte queste cose nel suo cuore”: per due volte, al versetto 19 ed al versetto 51 del secondo capitolo del Vangelo di Luca, ci viene detto quello che doveva essere l’ordinarietà nella vita di Maria.
La preghiera non è qualcosa di cui Dio ha bisogno; Dio gradisce la nostra preghiera ma Egli non ne ha bisogno. Se Dio avesse bisogno delle nostre preghiere, semplicemente non sarebbe Dio perché avrebbe bisogno di qualcosa e Dio – per definizione – è autosufficiente, è un amore eterno che si rincorre in un “circolo” che si chiama – con linguaggio umano – Padre, Figlio e Spirito Santo.
La preghiera – e se i preti non ce lo dicono non fanno il nostro bene – fa bene a noi e, se è vera preghiera, ci permette di vedere le cose così come esse sono.
La prima lettura di oggi ci permette di coglierci all’inizio della nostra realtà antropologica, lì dove nasce la nostra creaturalità, perché la nostra testimonianza di fede è sempre claudicante per la nostra incapacità di collocarci là dove inizia la nostra umanità, là dove principia il nostro essere uomini, là dove c’è la sorgente della nostra creaturalità.
Questa è la base della fede poiché, altrimenti, la fede diventa un “di più” che aggiungo alla mia perfetta umanità. A che cosa mi servirebbe la fede ridotta a devozione – non voglio neanche dire a “devozionismo” – se io ho già tutto in me stesso? La fede è la prima medicina dell’umano e, solamente raggiungendo la pienezza della fede, io sono pienamente uomo, donna, adolescente, anziano e così via.
Fintanto che noi non riusciamo a ragionare così nella nostra vita, avremo sempre mille cose da fare più importanti della preghiera e, invece, la preghiera – anche dal punto di vista di una pedagogia cristiana – è il vertice dell’educazione, il culmine dell’educazione. Due genitori cristiani non possono non educare i figli a pregare, ma non devono dire loro che la preghiera è qualcosa che si mette là e poi si fa quel che si vuole! La preghiera, per usare un’immagine di santa Teresa, è quel raggiungere il nucleo primo e fondante del mio essere umano.
Se voi leggete i primi tre capitoli della lettera ai Romani, vedrete che san Paolo suddivide gli uomini, secondo la prospettiva che egli ci propone, sostanzialmente in due categorie: chi ha la legge e chi non ha la legge, gli ebrei – che hanno l’alleanza, i profeti, il tempio, il sacrificio – e poi chi non appartiene all’alleanza (i pagani).
Il peccato di chi appartiene alla legge è pensare di salvarsi con la propria umanità, con la propria capacità di osservare la legge. E non era solo dei farisei, anche se nei farisei si delineava in modo massimo l’osservanza della legge come propria capacità. Dall’altra parte, dice Paolo, ci sono quelli che non hanno la legge, non appartengono al popolo ebreo e non sono circoncisi: sono i pagani e il loro peccato è quello di non riconoscersi creature.
I due peccati sono “uguali” pur in contesti naturali, sociali e religiosi differenti: l’autosufficienza dell’uomo. Gli ebrei pensano di essere loro capaci, personalmente, e di avere risorse umane per osservare la legge – un’antropologia sufficiente – mentre i pagani non si riconoscono creature, non riconoscono di derivare da Dio.
Questo, guardate, è il peccato attuale: noi decidiamo come si viene al mondo, se si viene al mondo, se una vita è degna di essere vissuta o no… Porrei timidamente la domanda: in base a quale criterio giudichi che una vita è degna o non è degna?
La questione fondamentale, allora, è il peccato originale, di cui sentiremo parlare nelle letture di dopodomani, giorno dell’Immacolata. Dio dice all’uomo: ricordati che non sei il criterio ultimo – la Bibbia usa linguaggi immaginifici e simbolici, come l’albero del bene e del male – e tu che sei creatura devi ricercare il bene o il male, non puoi decidere a prescindere che cos’è il bene o il male.
A cosa serve una fede che si riduce ad affermazioni teoriche o non diventa una vita diversa? A cosa serve una fede che non diventa carità, pienezza, maturità, verità? La prova della fede è la carità.
In questo pellegrinaggio mariano siamo, dunque, chiamati a guardare il vescovo Nicola, “Nicolò”: un pastore buono, misericordioso, che ha difeso fino in fondo il gregge che gli era stato affidato dal Signore. In questo pellegrinaggio ricordiamo la festa dell’Immacolata e, attraverso Maria, guardiamo all’evento della nostra salvezza: l’incarnazione.
Siamo chiamati, allora, a comprendere che la fede non è un “di più” che si contrappone alla nostra vicenda umana ma è ciò che ci permette – riscoprendo le radici del nostro essere “umano” – di essere veramente uomini, di essere veramente donne. Bisogna guardare all’umanità della notte di Natale, all’umanità di Cristo: lì ricaviamo la traiettoria, il profilo, l’immagine. Guai, poi, se la fede si riduce ad una devozione; la fede è l’ingrediente necessario per essere uomini e donne.
San Benedetto, che sta alla base della civiltà europea, ha sintetizzato tutto quello che io vi ho detto in due parole: ora et labora. Ossia: prega e lavora, la grazia e la natura, la fede e la libertà umana.