Omelia durante il pellegrinaggio mariano dai Gesuati alla Salute (Venezia, 4 ottobre 2014)
04-10-2014
Pellegrinaggio mariano dai Gesuati alla Salute
(Venezia, 4 ottobre 2014)
Omelia del Patriarca mons. Francesco Moraglia
Il senso del pellegrinaggio del primo sabato del mese è metterci sulle orme di Maria, con quel passo frettoloso che la conduce a servire la cugina Elisabetta, e iniziare a compiere la volontà del Signore. Guardare a Maria, seguire il suo cammino, vuol dire guardare a Cristo. E’ importante, all’inizio di un anno pastorale, guardare a Colei che è “beata perché ha creduto” (cfr. Lc 1, 45).
Nella comunità cristiana dei singoli discepoli e discepole del Signore tutto inizia dalla fede; la fede provoca il nostro agire e tante azioni, tanti gesti, sono o non sono nella nostra vita a partire da quel rapporto intimo che ci lega al Signore e che si chiama “fede”. All’inizio dell’anno pastorale, in questo pellegrinaggio, chiediamo soprattutto per noi e per la nostra Chiesa una fede più grande, una fede mariana, una fede capace di dire di sì, una fede che segue Gesù, come Maria, ovunque Gesù chiami. Maria è presente là dove si svolgono le grandi tappe della storia della salvezza. Colpisce come siano poche le presenze di Maria nel Vangelo, ma sono presenze essenziali. Là dove si scandiscono le tappe della storia della salvezza, Maria c’è. Chiediamo a Maria questa sobrietà di vita: essere là dove il Signore si manifesta.
Ricordavo all’inizio le grandi intenzioni di questo anno pastorale: il Sinodo sulla famiglia, da accompagnare con una preghiera che sostiene, che illumina, che aiuta la Chiesa a mettersi in sintonia con il Signore. Pregare non vuol dire tanto convincere Dio di qualcosa che noi vogliamo… Ci vuole anche la conversione della preghiera… La preghiera è chiedere al Signore di incominciare a pensare, a volere, a parlare, a tacere nella nostra vita come Lui vuole. Questa è la preghiera cristiana ed è la preghiera, che noi facciamo oggi in maniera particolare, e che continueremo in queste settimane, perché il Sinodo si metta in ascolto di Dio, di quello che Dio vuole dalla sua Chiesa.
«La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?». E’ la domanda che Gesù pone ai suoi apostoli e sembra quasi infastidito dalle tante risposte: alcuni dicono… altri dicono… «Ma voi, chi dite che io sia?».  E, di fronte alla risposta di Pietro, Gesù richiama al senso vero della risposta che bisogna dare alla sua domanda: «Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue – elementi, nella Bibbia, dell’umanità – te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli» (cfr. Mt 16, 13-20).
Chiediamo al Signore che la sua Chiesa si metta in ascolto profondo di quello che Dio vuole oggi per la sua Chiesa sul matrimonio, sul Vangelo, sul buon annuncio dell’amore umano che Dio ha voluto elevare a sacramento. Preghiamo oggi anche per la nostra Chiesa particolare, per l’anno pastorale che inizia perché, soprattutto, le famiglie siano luoghi-grembi in cui cresce la fede, si vede la fede, si trasmette la fede.
Siamo nel mese di ottobre – il mese del Rosario – e nelle nostre famiglie dobbiamo ritornare ai piccoli gesti, i piccoli gesti della fede. Due genitori che hanno bambini piccoli debbono ogni tanto chiedersi: cosa facciamo noi per la fede di questi nostri bambini? Dobbiamo incominciare a riscoprire la preghiera in casa. Vedete, sono gesti semplici che non richiedono un contesto esteriore ma che lasciano una traccia profonda nella vita di quei bambini che – un domani – saranno giovani, adulti, anziani.
Tutto ciò che è seminato nel nome del Signore misteriosamente fruttifica. Vi ricordate la lettera di Giacomo? L’agricoltore semina in autunno, poi si dimentica quasi del seme che ha gettato per terra… C’è la pioggia, c’è la neve, c’è il sole e, ad un certo punto, quei semi germogliano come… neanche lui lo sa. Ecco, l’ottimismo cristiano si basa sull’attendo circa il quale noi abbiamo una grande dimenticanza. La grazia del Signore, la fecondità che Dio lega alla fede di una persona, di una famiglia, di un sacerdote, di una religiosa… Certe volte si può avere l’impressione di innaffiare il bastone, come S. Rita, ma poi – come neppure l’interessato lo sa – quel bastone fiorisce, quel seme germoglia.
Riscopriamo la preghiera del Rosario, è la preghiera di fronte alla quale nessuno può dire: non sono capace… E’ preghiera personale, è preghiera comunitaria, è preghiera che può essere inframmezzata durante i vari momenti della giornata, suddividendo mistero a mistero; è la preghiera che può essere vissuta da chi è capace, in modo meditativo, e, da parte di chi non è capace, in modo recitativo, ma è una preghiera ricca: i misteri di Cristo pregati insieme a Colei che è beata perché ha creduto.
Oggi è anche la festa – per noi italiani particolarmente significativa – di san Francesco, per noi particolarmente significativa perché è il nome del Santo Padre, del Papa, ed allora ricordiamo come per Francesco l’amore per la Madonna si esprimeva attraverso l’imitazione della sua povertà. E’ una caratteristica di Francesco la povertà: non è un carisma, è conseguenza del carisma dell’incontro radicale con Cristo e, quindi, dell’appartenere a Lui.
Mi colpiscono le frasi di Francesco dove egli mette sempre insieme nostro Signore altissimo Gesù Cristo e la sua santissima Madre. Quando scrive la sua lettera ai fedeli, Francesco dice proprio questo: “Era più ricco di ogni altro essere e tuttavia volle scegliere di vivere insieme alla sua beatissima madre, la povertà”. Gesù e Maria sono indicati come emblemi di povertà.
Guardiamo, allora, a Maria – in questo tempio per noi veneziani così significativo in ordine alla storia della nostra città e perché si lega alla Madonna – come a quell’essere che crede e sa seguire Gesù ovunque perché ha la vera povertà; non appartiene più a se stessa, non ha più niente, non vuole più dire niente di se stessa ma è interessata solo ad essere un sì a Gesù.
Francesco era un uomo essenziale, un uomo povero, non perché avesse scelto di condividere con gli altri, ma perché apparteneva a Cristo e, quindi, vedeva Cristo in tutti, questo “uomo universale” che raggiunge l’universalità donandosi completamente al “concreto singolare” dell’umanità di Cristo.
Francesco sembra così semplice, così sguarnito teologicamente – lui si definiva un idiota e certamente non aveva studi teologici -; aveva però capito l’essenziale: Cristo è necessario ed è sufficiente. Ogni buona teologia inizia proprio da questa affermazione: Cristo mi è necessario e, quando ho Lui, non ho bisogno di nessun altro e allora ho tutto. E qui si spiega la povertà di Francesco.