Omelia del Patriarca nella Solennità di Ognissanti durante la S. Messa al Cimitero di Mestre (1 novembre 2019)
01-11-2019

Solennità di Ognissanti – S. Messa al Cimitero di Mestre (1 novembre 2019)

Omelia del Patriarca Francesco Moraglia

 

 

 

È una bella tradizione quella di incontrarci a celebrare la liturgia di tutti i Santi in quella che è la vigilia liturgica della commemorazione, così cara al popolo cristiano, di tutti i fedeli defunti. Noi, però, ci fermeremomo sulla liturgia di oggi – quella dei Santi – che, pure, è strettamente connessa a quella di domani.

Per un cristiano conta una sola cosa: la santità. Tutto il resto passa e chi ha già superato i cinquant’anni si accorge che passa anche molto presto… La santità non è una parola retorica e la Chiesa ci dice e ci insegna questo non celebrando la solennità della santità – sarebbe qualcosa di astratto e di non si sa chi! – ma la solennità di tutti i Santi: Teresa, Domenico, Francesco, Benedetto ecc.

La solennità di oggi è importante perché ci appartiene. Il santo, infatti, è colui che vive il suo battesimo e che, in ogni situazione, appartiene al Signore. La santità non è imitare qualche esempio, magari di altri secoli; è appartenere al Signore là dove il Signore ci pone: nel matrimonio, in una fabbrica, in uno studio legale, nel Parlamento…

Appartenere al Signore: il santo è colui che, allo stesso tempo, domina gli avvenimenti eppure li vive, dal loro interno, con serenità ed umiltà. Perché il santo domina le situazioni? Perché non ha da guadagnare nulla da quelle situazioni e invece, quando noi siamo interessati a qualcosa,  siamo in vendita e abbiamo un prezzo.

Il santo è, prima di tutto, una persona libera ed è bello incontrare persone libere. Il santo è colui che, a differenza degli altri, sa indicare delle strade nuove. Il contatto con il santo ci rasserena e ci dà forza. E questo accade perché la santità lascia dei segni, lascia qualcosa che non è quantificabile dal punto di vista razionale, lascia una certa nostalgia del bene e da questa ricchezza più profonda nasce una visione di vita, una semplicità grandissima.

Perché non si riesce a contenere e a dominare un santo? Perché ha fatto l’operazione più importante che un uomo e una donna possano fare nella loro vita: ha raggiunto la semplicità. E la semplicità non è semplificazione; la semplicità è quella del Vangelo, è la libertà del bambino.

Ecco poi l’amore grande alla vita: non ci può essere un santo che non ami la vita, che non voglia vivere, che non voglia che gli altri vivano. E un modo di uccidere gli altri è anche parlare male, parlare dietro le spalle.

Il santo ama ogni cosa perché, prima di tutto, ama Dio che è l’autore della vita; quando una persona non ama Dio è difficile che riesca ad amare la vita. Il santo, per affermare la sua santità, non ha bisogno di dimenticare o rinnegare nulla perché è una persona libera dalla tirannia del proprio io perché nostro nemico non sono gli altri, non sono le situazioni ma siamo noi.

Il santo vive quel battesimo che è un promettere e un rinunciare, è il  liberarsi dal proprio io. Il santo non vive solamente l’imitazione di Cristo ma piuttosto vive l’essere in Cristo – che è una cosa diversa – e lo fa attraverso la fede.

È emblematico l’incontro di Pietro con Gesù risorto sul lago (Gv 21, 15-19) con quella domanda ripetuta e rinnovata tre volte: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?»: Solo alla terza volta Pietro capisce…

Il mio parroco – quando io ero vice parroco e lo sono stato per otto anni – era un uomo molto saggio che ha insegnato cose importantissime a generazioni di cristiani. Diceva sempre: nel Vangelo c’è tutto. E poi aveva un’altra frase sulle labbra: ho paura di chi ha quarant’anni. I quarantenni fanno paura quando manca l’esperienza, quando non si sono prese ancora delle porte in faccia, quando non si è visto il proprio limite umano… E allora si dice come Pietro: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Solo alla terza volta Pietro capisce e gli dice: Signore, tu sai tutto, tu sai che io cerco di amarti. Ecco il santo: è colui che si consegna ed appartiene al Signore Gesù e al suo Vangelo.

In un certo senso, possiamo dire che il santo non desidera la santità per essere più perfetto degli altri ma desidera la santità come un incontro, come un’appartenenza, come un immedesimarsi a Cristo Gesù come l’unico necessario. L’incontro con Cristo dà la certezza di una presenza la cui forza libera dal male e rende liberi e capaci di bene.

Molte volte, invece, noi tacciamo la verità o la diciamo in parte o la diciamo finché ci conviene. Non abbiamo il coraggio di un atto semplice di bontà perché non siamo liberi, perché ci preoccupiamo di che cosa gli altri penseranno di noi e questa è la fine di un vescovo, di un prete, di un papà, di una mamma, di un uomo, di una donna. La volontà per il santo non è tanto la volontà di riuscire ma di volere Dio, il desiderio di volere Dio.

Questa speranza in un Altro è ciò che dobbiamo gridare alla vigilia della commemorazione dei defunti; è la grande speranza di noi uomini, fragili creature, è la capacità di avere questo senso di Dio nella nostra vita. E il senso di Dio nella nostra vita è il senso del nostro limite, della nostra fragilità, del nostro essere “servi inutili”.

Seguire Gesù implica, dal punto di vista umano, quella povertà e quel distacco dal nostro io. Seguendo Dio non ci si attacca a nulla e a nessuno, se Lui è veramente dentro di noi. E in tutto bisogna essere pazienti ed esprimere dolcezza perché un uomo veramente forte è un uomo che sa essere dolce anche con chi verso di lui è amaro, è sempre amaro e non sa che essere amaro.

Pensiamo alla dolcezza di san Francesco di Sales, che vi lascio come esempio: “Non ti darò la soddisfazione di risponderti male!”. Essere dolci con le persone che ci trattano con dolcezza è umano, è cortesia, è galateo; essere dolci con chi ci tratta in modo amaro è il Vangelo vissuto.