Omelia del Patriarca, nella solennità di Ognissanti, durante la Liturgia della Parola celebrata nel Cimitero di Mestre (1 novembre 2020)
01-11-2020

Solennità di Ognissanti

Liturgia della Parola nel Cimitero di Mestre (1 novembre 2020)

Omelia del Patriarca Francesco Moraglia

 

 

Con la celebrazione di oggi e quella di domani, vogliamo orientare la nostra volontà e il nostro desiderio alla pienezza della vita di Dio.

Ciò che conta alla fine della vita è aver cercato, almeno in parte, di mettere in pratica il Vangelo delle beatitudini perché lì c’è qualcosa che appartiene ed è richiesto a tutti i discepoli del Signore: ogni battezzato, il prete, la suora, il laico, il religioso ecc. Tutti siamo chiamati a far entrare questa pagina del Vangelo secondo Matteo almeno un poco nella nostra vita.

Siamo chiamati tutti ad essere un po’ più semplici nello spirito e ad accettare con più pazienza le contrarietà della vita; siamo chiamati tutti ad essere capaci di perdonare. E il perdono inizia dal momento in cui noi pensiamo le cose.

Perché certe persone non perdonano? Perché certe persone si vendicano? Perché i telegiornali ci propongono notizie, immagini, episodi, fatti che tragicamente attraversano la nostra società, la nostra Europa e il mondo intero?

Cerchiamo di mettere in noi un modo di pensare diverso perché poi i pensieri diventano parole e le parole diventano gesti. Le beatitudini sono, prima di tutto, qualcosa che dobbiamo interiorizzare perché siano davvero dentro di noi.

La nostra povera Europa, la nostra povera Italia, il nostro povero mondo… Stiamo toccando con mano i nostri limiti, noi che avevamo l’illusione di aver raggiunto – con il dominio della tecnica e della scienza – l’origine della vita ed avevamo incominciato a mettere mano là dove scocca la vita vera di Dio e ce ne eravamo impossessati; avevamo incominciato a montare e a smontare con l’ingegneria genetica qualcosa che l’uomo avrebbe dovuto semplicemente riconoscere e accettare.

Il dramma della nostra umanità è proprio questo: pretendere di dire e fare le cose che Dio ci ha detto e ci ha fatto e che ci ha consegnato.

Facciamo, allora, la visita al camposanto pensando a due cose: che facciamo il nostro bene e facciamo il bene delle persone che andiamo a trovare.

La visita al camposanto non deve essere solo qualcosa di nostalgico ma il ricordo grato, caloroso e affettuoso di persone care a cui dobbiamo molto e, certe volte, tutto e ora non ci sono più. Ma la visita del camposanto, per il cristiano, è anche una riflessione sul proprio limite. E quest’anno i nostri limiti li abbiamo toccati con mano e, purtroppo, li continueremo ancora a toccare per parecchi mesi e forse in modo più drammatico di quello che noi immaginiamo.

Bisogna, allora, ricostruire il mostro uomo interiore. Non dobbiamo aspettare aiuti dall’esteriorità, dal fare, dall’agitarsi e dal preoccuparsi… Fermiamoci e prendiamo in mano noi stessi; dobbiamo ricostruire i fondamentali dell’uomo, della persona umana, là dove il corpo, la psiche e l’anima si integrano nell’io della persona. Dobbiamo ricostruire la società partendo dall’uomo; tutto è produzione e tutto è risultato del cuore dell’uomo.

Al camposanto, quindi, veniamo anche per fare del bene e riflettere su di noi, sulla nostra vita, e per restituire qualcosa a chi ci ha dato molto o tutto.

Viviamo, dunque, queste ore non con l’angoscia e con la paura ma chiedendo al Signore che ci dia una sapienza di vita, incominciando a pensare non alla fine della vita ma al fine della vita, perché arrivare alla fine della vita senza aver conseguito il fine della vita significa concludere la vita in malo modo.

Dobbiamo tutti aiutarci, pregare e sostenerci perché ogni uomo arrivi alla fine della vita avendo compreso e vissuto il fine della vita.