Omelia del Patriarca nella solennità dell’Epifania (Venezia – Basilica cattedrale di S. Marco, 6 gennaio 2018)

06-01-2018

Solennità dell’Epifania

(Venezia – Basilica cattedrale S. Marco, 6 gennaio 2018)

Omelia del Patriarca Francesco Moraglia

 

 

Carissimi,

a tutti rivolgo il mio saluto natalizio di pace e gioia.

In particolare saluto i nostri cari diaconi che oggi partecipano a questa celebrazione. Li ringrazio per il prezioso ministero che svolgono a servizio della Chiesa che è in Venezia a favore delle differenti collaborazioni pastorali, della Caritas, degli ospiti delle carceri e degli ospedali; col loro ministero contribuiscono a rendere visibili le opere di misericordia spirituali e corporali.

Uno speciale ed affettuosissimo ricordo va ai nostri missionari laici, consacrati e del clero di Venezia che si trovano in Africa e in America Latina ad annunciare la buona notizia di Gesù; tutti portiamo oggi, nella comune preghiera, all’altare di Cristo.

Siamo giunti alla solennità dell’Epifania, momento importante del ciclo natalizio; i Magi, infatti, esprimono l’universalità del Natale e il viaggio di questi misteriosi personaggi – che non appartengono al popolo d’Israele – diventa per la comunità ecclesiale di ogni tempo e, quindi, anche per noi, oggi, occasione per un esame di coscienza.

Tutti i popoli e tutti gli uomini sono chiamati ad incontrare Dio. I Magi hanno lasciato tutto e si sono incamminati verso un futuro sconosciuto – che non era il risultato di puri calcoli umani – sorretti da una speranza che nasceva da una Grazia a cui avevano detto il loro sì.

I Magi chiedono, quindi, di ripensare la nostra vita di “stagionati” uomini e donne di Chiesa; abbiamo bisogno di porre coraggiosi gesti di conversione per tornare ad un autentico e reale contatto con Gesù.

Riprendiamo il Vangelo di Matteo appena proclamato dal diacono: “…alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme e dicevano: «Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo»” (Mt 2,1-2).

Una domanda subito si pone: cos’è mai stata questa stella? E come si è imposta nella loro vita? Perché l’hanno seguita? Perché si sono lasciati “prendere” da quella scia luminosa che appariva, svaniva e riappariva in cielo?

In questo nostro tempo così disincantato, in un’epoca come la nostra in cui – come è stato detto – basta girare un interruttore per illuminare una stanza, un edificio, un centro commerciale, un’intera città, come è possibile seguire la luce incerta e tremula di una stella? Insomma: come è possibile, per un cristiano adulto, leggere questa pagina del Vangelo di Matteo senza provare disagio o un senso di malcelata superiorità?

Si può anche perdere la fede e, così, finire per credere ad ogni cosa; Chesterton ce lo ricorda con il suo genio inarrivabile e tutto concentra in una frase su cui dovremmo riflettere di più, sia personalmente sia comunitariamente.

Oggi il credente ha più di un complesso d’inferiorità verso il mondo che si professa lontano da Dio, agnostico o ateo: ”Chi non crede più in Dio – dice Gilbert Keith Chesterton – non è vero che non crede più in niente, piuttosto, comincia a credere ad ogni cosa“.

Si giunge talvolta all’incredulità partendo da piccoli dettagli, un testo non compreso o compreso male e si finisce per mettere in questione tutto il Vangelo. Si tratta, in tal modo, di riscoprire nella nostra vita il valore di una conoscenza capace di cogliere non solo i mezzi ma anche il fine, non solo la parte ma il tutto, non solo il visibile ma l’invisibile.

Il simbolo o, se preferiamo, i simboli non negano quello che significano; dato che ti faccio un regalo simbolico – si dice: “è solo un piccolo segno” (un segno) -, questo non vuol dire che non ti ho fatto un regalo! Il simbolo non nega, piuttosto, dice qualcosa che va oltre la realtà che lo costituisce segno; è, quindi, realtà capace di dire qualcosa di più della sua pura materialità. Ma il simbolo richiede d’esser letto anzi – lasciatemi dire – “intus” letto (letto “dentro”). Dobbiamo educare ed educarci alla realtà simbolica; allora ci scopriremo umanamente più veri e ricchi di umanità.

Blaise Pascal, ancora una volta, ci viene incontro e col suo “genio”, insieme, ci sorprende ed apre nuove luci alla nostra intelligenza: “Dio – sono sue parole – ha messo nel mondo abbastanza luce per chi vuole credere, ma ha anche lasciato abbastanza ombre per chi non vuole credere”.

È il mistero della libertà umana, l’invito che oggi ci rivolgono i Magi!

Tra il simbolo e la realtà indicata vi è un nesso che chiede d’esser accolto, investigato, compreso ed è in grado di dischiudere l’accesso a realtà nuove, a realtà “ulteriori” che ci conducono ”oltre” e danno senso a quanto prima non coglievamo.

Ma se non siamo in grado di cogliere la realtà simbolica ovvero se non riusciamo ad andare oltre la materialità propria del segno, allora, nella nostra vita, tutto si riduce ad un misero e puro funzionalismo che rinchiude ogni cosa nella morsa di un efficientismo fine a se stesso; l’uomo, così, si riduce a ciò che tocca e percepisce nella materialità della cosa di volta in volta percepita.

Un proverbio recita: allo sciocco indichi la luna, lui guarda il tuo dito!

Ora, se si perde la capacità di cogliere la dimensione simbolica del reale si smarrisce o si è già smarrito l’uomo che è in noi o, meglio, in noi emerge o è già emerso un tipo d’uomo che potrà anche essere più efficiente, capace di produrre di più e in tempi più brevi ma, alla fine, inabile a porsi le domande circa il senso della vita che svelano l’uomo all’uomo, ossia quale è la sua vera realtà.

Potremo, quindi, essere anche più veloci, più produttivi, più tonici come forza muscolare, ma meno uomini.

È questo il dramma di un uomo o, meglio, di un’intera umanità che, perseguendo la pura efficienza e non volendo più riconoscere i propri limiti, mira sempre a nuove performances, prestazioni che comunque – e questo va tenuto ben fermo – ogni macchina può raggiungere prima e meglio. Noi, infatti, non eguaglieremo mai la velocità di calcolo del più desueto dei computer e non riusciremo, mai, a sviluppare la minima quantità della forza d’urto del più piccolo mezzo meccanico.

Siamo immersi e facciamo parte, senza neppure accorgercene – grazie al martellamento mediatico -, di una cultura funzionalista e utilitarista per cui ci interroghiamo solo su come avvengano le cose e non sul perché avvengano o esistano.

Sì, solo le affermazioni capaci d’andar oltre la pura verifica sperimentale e il mero calcolo quantitativo dicono la dignità di un sapere che sia all’altezza dell’uomo.

Se rimaniamo chiusi all’interno di una visione del mondo che attinge solo i mezzi e non raggiunge più i fini, se ci fermiamo alla pura verifica sperimentale e al mero calcolo, allora non possiamo sapere più nulla di veramente umano; secondo una mentalità non certo minoritaria, il discorso sui fini rimane ostaggio della soggettività umana e quindi non ha valore universale. Così, tutto ciò che esula dal metodo scientifico (razionalità sperimentale), appartiene al mondo pre-scientifico – in altre parole al mito – e fa parte, quindi, della leggenda; è una pura fiaba, appartiene ad un passato che non esiste più.

Tale posizione, però, rende problematici considerare degni dell’uomo quei saperi che, in realtà, fondano e rendono possibile l’umana convivenza: il diritto (la giustizia), l’etica (il bene), l’arte in tutte le sue manifestazioni (il bello) e, prima ancora, la filosofia (il vero).

I Magi, ossia i saggi venuti dall’Oriente, hanno saputo cogliere il segno della stella e hanno permesso che parlasse loro; si sono “lasciati” interrogare e mettere in questione da un segno.

Nel 1925 è stato pubblicato il calendario stellare di Sippar, una tavoletta di terracotta con lettere cuneiformi, un reperto prezioso che proviene dalle sponde dell’Eufrate, sede di una rinomata scuola di astrologia babilonese. In quel calendario sono riportati tutti le congiunzioni celesti dell’anno 7 a.C.

Perché proprio di quell’anno? Perché – secondo questi scienziati – nel 7 a.C. la congiunzione di Giove (il pianeta dei dominatori del mondo) con Saturno (il pianeta protettore di Israele) nel segno dei Pesci (il segno della fine dei tempi, inizio dell’era messianica) si sarebbe verificata il 29 maggio, il 1° ottobre e il 5 dicembre.

Mentre tale congiunzione si verifica ogni 794 anni e per una volta sola: nel 7 a.C., invece, si ebbe per ben tre volte. Anche questo calcolo degli antichi scienziati della scuola di Sippar fu confermato dai rilievi degli astronomi contemporanei. Tutto questo ci fa riflettere!

Le più o meno recenti scoperte dell’archeologia – vedi appunto il calendario di Sippar – contribuiscono ad avvalorare l’idea che alcuni testi della Scrittura – che una certa esegesi aveva consegnato ad una lettura mitica – in realtà hanno motivi per rimanere ben ancorati alla storia; certo, non vanno letti in modo fondamentalista ma nemmeno come se trattassero di miti; vanno letti, piuttosto, in modo storico-teologico.

Dunque, anche attraverso il contributo dell’archeologia e di una competente scienza biblica, la narrazione di Matteo sui Magi – e altre parti dell’Antico e del Nuovo Testamento – non possono considerarsi come puro mito.

Anche le acquisizioni che vengono dalle scienze archeologiche aiutano a comprendere meglio i testi e a capire come la fede abbia un rapporto con la ragione, con la storia, con la realtà e, quindi, a pieno titolo, assuma la forma del dono che interpella la libertà dell’uomo coinvolgendo tutta la persona: grazia, sentimenti, cuore, intelletto, corpo, storia personale e storia comunitaria.

Cari amici, anche quest’anno abbiamo avuto la grazia di vivere, con le celebrazioni liturgiche del Santo Natale, ciò che personalmente ed ecclesialmente siamo chiamati a testimoniare con la vita affinché il Natale ci salvi e ci renda anche migliori.

Alla luce di tali riflessioni ritorniamo perciò al Vangelo di Matteo: “…alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme e dicevano: «Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo»” (Mt 2,1-2).

Cari fedeli, in questa significativa solennità liturgica che ci mostra l’adorazione dei Magi, vorrei invitare tutti a sapere, a nostra volta, adorare lo stesso Gesù, presente realmente nel Santissimo Sacramento dell’altare.

L’Amore deve essere amato e noi non possiamo non sentire questa urgenza. Per poter dare amore al nostro prossimo dobbiamo attingere dall’Amore.

La Santa Madre di Dio, che ha portato l’Amore nel suo seno immacolato, che lo ha avvolto in fasce e lo ha adorato, sia la nostra Stella cometa nel percorrere le vie di questo mondo verso il Signore Gesù!

condividi su