Solennità del Corpus Domini
(Venezia, Basilica Cattedrale di San Marco – 29 maggio 2016)
Omelia del Patriarca mons. Francesco Moraglia
Carissimi fratelli e sorelle,
celebriamo la solennità del Santissimo Corpo e Sangue del Signore. Faccio mie le parole che l’anno scorso Papa Francesco disse proprio in occasione di tale festa: “Oggi abbiamo la gioia non solo di celebrare questo mistero, ma anche di lodarlo e cantarlo per le strade della nostra città. La processione, che faremo al termine della Messa, possa esprimere la nostra riconoscenza per tutto il cammino che Dio ci ha fatto percorrere attraverso il deserto delle nostre povertà, per farci uscire dalla condizione servile, nutrendoci del suo Amore mediante il Sacramento del suo Corpo e del suo Sangue” (Papa Francesco, Omelia nella Messa della solennità del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo, 4 giugno 2015).
Solo la Parola di Dio è in grado di svelare il senso dell’eucaristia, corpo e sangue di Cristo. Noi siamo chiamati unicamente ad accogliere tale Parola, a dire il nostro sì al dono che Cristo fa di sé ai suoi, al suo desiderio di rimanere con loro per sempre. Il sì eucaristico ci trasforma e rinnova, sia come discepoli sia come Chiesa.
La Chiesa è, prima di tutto, comunità eucaristica; Chiesa ed eucaristia o insieme stanno o insieme cadono. L’una è garanzia dell’altra. La Chiesa è là dove si celebra l’eucaristia e l’eucaristia è dove è la Chiesa.
Abbiamo ascoltato nella seconda lettura come l’apostolo Paolo, scrivendo alla Chiesa di Corinto, ricordi ciò che egli stesso aveva appreso al momento della conversione: “Fratelli, io ho ricevuto dal Signore quello che, a mia volta, vi ho trasmesso…” (cfr. 1Cor 11, 23).
L’apostolo descrive il gesto compiuto da Gesù la notte del tradimento quando – preso il pane e il calice – pronunciò la preghiera della benedizione e pose se stesso come il compimento dell’antica Pasqua. In tal modo si consegnò, per sempre, alla sua Chiesa nell’atto di donarsi per la salvezza del mondo; l’eucaristia è il sacramento del Cristo pasquale, morto e risorto.
Le parole di Gesù, in tal modo, rimarranno impresse nei discepoli: “Ogni volta … che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga” (1Cor 11, 26).
L’eucaristia è il dono che identifica e sostiene un piccolo gruppo di uomini e donne impauriti e, sempre più, li renderà Chiesa, ossia comunità del Risorto. Colui che è risorto non muore più e la morte ormai non ha più potere su di Lui (cfr. Rm 6, 9-10). Gesù, nel gesto del morire, consegna se stesso a un modo di presenza che va oltre le leggi della fisica, oltre le dimensioni spazio-temporali; Lui è il vincitore della morte. L’eucaristia contiene realmente – secondo le modalità proprie del sacramento – l’evento della risurrezione.
La narrazione del Vangelo di Luca, dei due discepoli di Emmaus, è finalizzata a riconoscere Gesù risorto nell’atto di spezzare il pane. La narrazione è ricca di dettagli, di precisazioni, si prolunga. Proprio tale dilungarsi, considerato che i due protagonisti non sono personaggi di primo piano nella comunità apostolica, sollecita in noi una domanda: perché questo dilungarsi nei confronti di due discepoli sconosciuti?
La risposta è che l’eucaristia è per tutti, non solo per qualcuno. L’eucaristia è il dono che Cristo fa di sé a tutta la Chiesa; così, al posto dei due discepoli, potrebbe esserci ciascuno di noi.
L’unico impedimento lo dichiara Paolo con forza: “…chiunque mangia il pane o beve al calice del Signore in modo indegno, sarà colpevole verso il corpo e il sangue del Signore. Ciascuno, dunque, esamini se stesso e poi mangi del pane e beva dal calice; perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna” (1Cor 11, 27-29).
La Chiesa – come già detto – è essenzialmente comunità eucaristica che, nella fede – Paolo parla di obbedienza della fede (oboeditio fidei) -, accondiscende al comando del Signore: “…fate questo in memoria di me” (1Cor 11,24).
Paolo ricorda come, appena giunto alla fede, ricevette quello che, a sua volta, trasmise, ossia che il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese il pane e il vino e pronunciando le parole della consacrazione disse: “«Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me». Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me»” (1Cor 11, 24-25).
Gesù, in tal modo, porta a compimento l’antico rito della Pasqua e pone se stesso come il vero Agnello; in Lui la profezia, la figura, l’ombra cedono il passo al compimento, alla realtà, alla luce.
La lavanda dei piedi è molto più di uno dei gesti dell’ultima cena e non può neppur esser considerato solo qualcosa di rilevante. La lavanda dei piedi è, invece, la spiegazione che introduce alla totalità del mistero pasquale e dell’eucaristia che ne è il sacramento o segno efficace.
E tutto ciò avviene in modo drammatico; infatti, la lavanda dei piedi è una parola in azione; Gesù qui ci parla col gesto. Essa introduce al meglio e dice il senso degli altri gesti e delle altre parole dell’ultima cena. La lavanda dei piedi, per il suo intimo significato fa chiarezza; in essa si esprime lo stile del Vangelo. La lavanda dei piedi è, così, l’esegesi “perfetta” che va premessa a ogni altra interpretazione dell’eucaristia, segno e realtà sacramentale del servizio che Gesù compie per un’umanità che si è allontanata da Dio. Il gesto eucaristico è il sacramento della croce, servizio di Gesù al Padre e agli uomini.
Nel Vangelo odierno, le parole dei discepoli esprimono l’approccio dell’uomo che rimane ancora rinchiuso nelle sue ristrette prospettive umane: “…i Dodici gli si avvicinarono dicendo: «Congeda la folla perché vada nei villaggi e nelle campagne dei dintorni, per alloggiare e trovare cibo: qui siamo in una zona deserta»” (Lc. 9,12). Gesù li mette alla prova: “Voi stessi date loro da mangiare” (Lc. 9,13).
Oltre le risorse degli uomini, vi sono quelle di Dio. Ma ritorniamo ancora alla narrazione di Luca, ai due discepoli di Emmaus, in cui abbiamo una modalità di presenza del Risorto che schiude nuove possibilità rispetto alle nostre. Il Risorto, infatti, è entrato in una dimensione della realtà che, per noi, è ancora sconosciuta. Il Risorto vive al di là dell’esistenza terrena, dello spazio e del tempo – che per noi sono attualmente le uniche dimensioni conosciute e che ci consentono la nostra reciproca compresenza.
L’avvicinarsi ad un altro è rendersi presente a lui e ciò, per noi, è possibile solo a partire dallo spazio e dal tempo, nello spazio e nel tempo. Questo vale per noi, esseri contingenti e creaturali, limitati e imperfetti.
In realtà, per noi, vivere è esistere a partire dalla dimensione spazio-temporale; il tempo e lo spazio caratterizzano strutturalmente il nostro modo d’essere e ci costituiscono anche nella nostra alterità rispetto a chi ci sta dinanzi. Ridurre lo spazio e il tempo, superare la distanza che si frappone tra me e l’altro, vuol dire rendermi presente all’altro, diventargli contiguo, entrare in contatto con lui.
Il tempo e lo spazio, però, non sono superabili in modo assoluto e possono determinare solo una circoscritta modalità di presenza, perché non sono, mai, totalmente “superati” e neppure “superabili”. Se ciò accadesse, infatti, vorrebbe dire che il mio essere (che, appunto, si caratterizza per la dimensione spazio-temporale) sarebbe giunto al suo superamento, ma ciò avviene solo nella morte; ora la Pasqua di Cristo è la risurrezione, ossia la vita oltre la morte.
Le parole sul pane e sul vino sono eloquenti e appartengono al linguaggio sacrificale della morte e risurrezione e riferendosi all’atto del morire, collocano la realtà eucaristica oltre la dimensione spazio-temporale, oltre la vita terrena di Gesù. Ma la sua morte – come Egli stesso aveva preannunciato – è morte per la risurrezione; l’eucaristia è il sacramento della morte e della risurrezione, è il sacramento del Risorto in cui spazio e tempo cedono il posto all’eternità, in cui, appunto, la modalità di presenza si realizza ormai oltre la dimensione spazio-temporale.
Nell’eucaristia la reale presenza eccede le modalità umane dello spazio e del tempo e proprio in forza delle parole di Gesù; non può, quindi, esser ridotta a puro segno ma è segno reale. E lo è a partire dalle stesse parole di Cristo che unisce al pane e al vino, con le parole dell’istituzione, la sua realtà di morte e risurrezione.
Concludo con quanto ha detto Papa Francesco nell’omelia del Corpo e Sangue del Signore dell’anno scorso: “Tra poco, mentre cammineremo lungo la strada, sentiamoci in comunione con tanti nostri fratelli e sorelle che non hanno la libertà di esprimere la loro fede nel Signore Gesù. Sentiamoci uniti a loro: cantiamo con loro, lodiamo con loro, adoriamo con loro. E veneriamo nel nostro cuore quei fratelli e sorelle ai quali è stato chiesto il sacrificio della vita per fedeltà a Cristo: il loro sangue, unito a quello del Signore, sia pegno di pace e di riconciliazione per il mondo intero” (Papa Francesco, Omelia nella Messa della solennità del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo, 4 giugno 2015).