S. Messa solenne per la Festa del patrono S. Michele Arcangelo
(Mestre – Duomo S. Lorenzo, 29 settembre 2016)
Omelia del Patriarca mons. Francesco Moraglia
Gentili autorità, confratelli nel sacerdozio, diaconi, consacrati e fedeli laici,
siamo riuniti nel Duomo di San Lorenzo per l’annuale celebrazione del santo patrono di Mestre, san Michele Arcangelo, che è pure il patrono della Polizia di Stato.
A tutti i mestrini va l’augurio sincero e affettuoso. Alle donne e agli uomini della Polizia di Stato, al Signor Questore, si aggiunge il ringraziamento per il servizio svolto con professionalità e dedizione a favore di tutta la città.
Nel Vangelo abbiamo appena ascoltato come Gesù lodi Natanaele – il futuro apostolo Bartolomeo – per la sua sincerità e coerenza. Con voi, oggi, desidero riflettere proprio sul valore sociale di tali virtù.
Natanaele viene elogiato da Gesù con parole chiare, inequivocabili: «Ecco davvero un Israelita in cui non c’è falsità» (Gv 1,47). È un’attestazione che non troviamo in altre pagine dei Vangeli e Natanaele ne rimane profondamente colpito, tanto da esclamare: «Come mi conosci?» (Gv 1,48a). Natanaele aveva coscienza, evidentemente, di essere un uomo sincero ma… Gesù lo sorprende ancora perché Lui ci sorprende sempre, se abbiamo tempo per Lui e lasciamo che parli attraverso gli avvenimenti della nostra vita. Gesù, allora, gli dice: «Prima che Filippo ti chiamasse, io ti ho visto quando eri sotto l’albero di fichi» (Gv 1,48b). Gesù, quindi, legge pure nelle pieghe dell’anima, dove nessuno ha accesso se non Dio.
Dove non c’è falsità ma coerenza, dove la verità viene considerata valore sempre, anche quando risulta scomoda, lì c’è la divina approvazione.
Sincerità, lealtà, veracità sono virtù che si riferiscono sia alla sfera privata, sia pubblica; riguardano quindi la convivenza civile e contribuiscono a costruire il bene comune. Hanno perciò a che fare con la politica; un cittadino, infatti, ha diritto di sapere se chi lo rappresenta e lo governa è persona sincera e leale, sia quando promette, sia quando fa il bilancio della sua gestione. Il bene comune, poi, supera il bene individuale – anche se non prescinde mai dalla persona – ed anzi, sempre, lo include. Il bene comune è, perciò, un bene arduo. Un bene “difficile”.
La marcata disaffezione del cittadino dalla politica si spiega in parte – e non da oggi – con la scarsa credibilità di una politica che è percepita come litigiosa, “mediatica” e, alla fine, inconcludente; così il cittadino si percepisce non come il termine dell’azione politica ma come “funzionale” ai giochi della politica.
È difficile “riconoscersi” in una politica fatta spesso di annunci mediatici, di twitter al vetriolo, di messaggi postati su Facebook, perennemente impegnata a demonizzare l’avversario politico e, alla fine, incapace di produrre atti concreti e mantenere almeno alcune delle promesse fatte. E poi chi sceglie di cavalcare i media non avverte come un problema il fatto di contraddire oggi quanto, ieri, aveva dichiarato con enfasi ma, così, si finisce per perdere anche quel poco di fiducia e credibilità che il cittadino conservava.
Il Vangelo chiede, invece, ponderazione. Nel discorso della montagna, Gesù domanda uno stile diverso ed esorta ad un atteggiamento che è valido anche oggi: «Sia invece il vostro parlare: “Sì, sì”, “No, no”; il di più viene dal Maligno» (Mt 5,37). Certo, non si può dire sempre tutto ma, sempre, si richiede coerenza, prudenza e trasparenza a livello personale e politico. Nella vita quotidiana, familiare e lavorativa non possiamo fare oggi dei proclami e poi, domani, dimenticarci di averli fatti e andare avanti come se niente fosse… Ebbene, la politica se lo permette! Il nostro cammino deve essere quello di prendere le distanze da questo stile.
Nel Vangelo appena ascoltato sono proprio le virtù della sincerità, della coerenza e della lealtà che dicono la purezza del cuore e la semplicità della persona e che consentono a Natanaele d’incontrare il Messia atteso e, poi, riconoscerlo nella professione di fede: «Rabbì, tu sei il Figlio di Dio, tu sei il re d’Israele!» (Gv 1,49).
È il cammino sincero del discepolo che conduce al sì della fede. All’uomo, infatti, non sono sufficienti le fedi “penultime”, quelle – per intenderci – che sostengono le speranze terrene che, a loro volta, hanno bisogno di fondarsi sulla fede capace di rispondere alle grandi domande dell’uomo così da sostenerlo.
Le virtù della sincerità, della veracità, della lealtà diventano premessa ad ogni altro agire e ciò vale, in particolare, per chi funge da riferimento e guida per agli altri, soprattutto dinanzi alla “questione seria” del bene comune.
Tutto ciò è vero già per la prima società umana – la famiglia – che, da sempre, è all’origine alla vita e poi, attraverso l’educazione, è chiamata a guidare le prime scelte della persona ad una vera libertà; molto della vita futura dei figli dipende dalla credibilità che hanno il papà e la mamma. Il discorso s’allarga quindi oltre la comunità familiare – prima cellula della società – per giungere al bene comune.
Ogni atteggiamento della persona suppone la sincerità, la veracità, la lealtà. E mai può entrare in conflitto con esse. Il futuro apostolo Bartolomeo si presenta come uomo colto e per questo è importante che Gesù, prima di tutto, ne rimarchi la sincerità, la lealtà, la veracità tanto da definirlo come un vero Israelita.
Tali virtù sono richieste a livello umano e cristiano, sul piano personale e sociale; la sincerità, la lealtà, la veridicità costituiscono e costruiscono rapporti di genuina prossimità e si legano a “quanto” diciamo e a “come” lo diciamo.
Già con la sola parola si costruiscono ponti oppure muri e facilmente lo possiamo constatare nella nostra vita. Le parole costruiscono o distruggono il rapporto col prossimo; il dialogo permette d’incontrarci, svelandoci gli uni gli altri e, se ciò non avviene, allora, vuol dire che la parola è motivo di sospetto e frattura. Una parola può essere informativa, esortativa, imperativa, consolante ma prima di tutto deve essere sincera, affidabile, capace di creare comunione nella verità.
Ecco perché il Vangelo domanda – a livello personale e comunitario/politico – la sincerità, la lealtà, la veracità. Se costruiamo la nostra vita partendo dalla sincerità, dalla lealtà e dalla verità ogni altro rapporto non potrà non risentire di tale premessa.
La menzogna – che inizia con la reticenza, con la mancanza di chiarezza, con l’ambiguità nel dire – è la prima ferita inferta alla giustizia sociale e il primo modo di destabilizzare una sana convivenza, a tutti i livelli, sia nella Chiesa sia nella società; è, per usare le parole di Papa Francesco, la prima forma di corruzione.
Nella Summa Teologica san Tommaso d’Aquino tratta delle virtù riconducibili alla giustizia e lo fa in modo attualissimo: “…gli uomini non potrebbero vivere insieme se non esistesse fiducia reciproca, cioè se la verità non si manifestasse…” (II,II, 110,3).
Il punto è che non basta dire una parola che sia vera in sé; bisogna che tale parola sia detta anche con rispetto e con carità e, quindi, talvolta, bisogna saper rinunciare a dire tutto, vincere la tentazione di parlare o scrivere subito e ciò riguarda in modo particolare l’uso della rete che, in modo quasi anonimo, può anche distruggere una persona. E senza pagarne le conseguenze. Sì, bisogna resistere alla tentazione di cogliere l’opportunità al volo, magari per precedere gli altri e fare bella figura; tale tempismo, spesso, risponde più a emotività e presunzione che al vero bene dell’altro o degli altri.
Ogni parola che voglia essere vera e degna dell’uomo deve provenire da una volontà d’amore che ci dà la misura reale della libertà interiore di chi parla. Se, inoltre, la libertà si pone fuori della verità, allora non è più vera libertà; così pure l’amore, se è privo di verità, cade nella menzogna.
Come già detto, lealtà, sincerità e veracità non richiedono che si dica sempre – in ogni circostanza – tutto, perché ad esempio oltre alla calunnia (dire il falso) esiste anche la maldicenza (dire il male), ossia svergognare e mettere in cattiva luce una persona.
Il male non va propagato. Far fare brutta figura al prossimo e avvilirlo ulteriormente, di fronte ad un errore o ad un fallimento, non è amore alla verità. Siamo chiamati, in tal modo, a fare un esame di coscienza. Pensiamo al recente caso di quella giovane donna che, finita nella gogna mediatica, è giunta a togliersi la vita.
Soffermiamoci, infine, sul mondo dei media. Non si tratta di tacere nulla di quanto deve veicolare l’informazione; ci si deve, però, porre la domanda di come non ledere la dignità delle persone. Cosa, infatti, si potrebbe fare nei confronti di chi, trascorsi molti anni (i tempi della giustizia!), viene riconosciuto innocente dopo che è stato “rovinato” nella fama? Si tratta, ancora, di tutelare quanti sono legati alle persone chiamate in causa, iniziando dai minori.
Richiamo qui i tre elementi essenziali che Papa Francesco, solo pochi giorni fa, ha riconsegnato proprio ai giornalisti – “amare la verità, vivere con professionalità e rispettare la dignità umana” – per essere così “uno strumento di costruzione, un fattore di bene comune, un acceleratore di processi di riconciliazione” (cfr. Papa Francesco, Discorso al Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti italiano, 22 settembre 2016).
Ci aiuta anche questo passo della lettera agli Efesini, dove san Paolo pone le basi di uno stile nuovo: “Perciò, bando alla menzogna e dite ciascuno la verità al suo prossimo, perché siamo membra gli uni degli altri. Adiratevi, ma non peccate; non tramonti il sole sopra la vostra ira… Nessuna parola cattiva esca dalla vostra bocca, ma piuttosto parole buone che possano servire per un’opportuna edificazione, giovando a quelli che ascoltano… Scompaiano da voi ogni asprezza, sdegno, ira, grida e maldicenze con ogni sorta di malignità. Siate invece benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi” (Ef 4, 25-26.29.31-32).
Se noi ci imponessimo, dopo aver trasceso o detto qualcosa di sbagliato ad una persona, di chiedere perdono forse ci penseremmo due volte prima di trascendere ancora. Le nostre conversioni sono difficili nel momento in cui banalizziamo le ferite che abbiamo inferto agli altri. Si può riparare, ma il riparare mi obbliga ad un cammino faticoso di ricostruzione in una famiglia, in un gruppo di amici o in un ambito lavorativo; si tratta di ricostruire quello che alcune parole sbagliate hanno distrutto (ma certe distruzioni durano per sempre…).
Il patrono san Michele Arcangelo continui a vegliare e a custodire la città di Mestre e tutti coloro che la abitano o la frequentano, anche solo saltuariamente. Sostenga la lotta contro i mali odierni dell’indifferenza, della violenza, della falsità, del sospetto, della frammentazione, del degrado, dell’insicurezza e, spesso, anche della solitudine di fronte alle fragilità dell’esistenza.
Accompagni gli sforzi sinceri, leali, veraci e intelligenti di chi – nella vita sociale, politica, economica, culturale ed ecclesiale – si adopera ogni giorno per costruire una città più bella, accogliente e cordiale verso tutti, più ordinata e più “viva” in ogni suo angolo e quartiere, più attenta ai reali bisogni e alle vere esigenze delle persone e delle famiglie. Questo è ciò che noi chiediamo oggi a san Michele.